Narciso era un tespio, figlio dell’azzurra Ninfa Liriope, che un giorno il dio del fiume Cefiso aveva avvolto nelle liquide spire delle sue acque e violata. Il veggente Tiresia disse a Liriope, la prima persona che l’avesse mai consultato: «Narciso vivrà fino a tarda età, purché non conosca mai se stesso». Chiunque si sarebbe innamorato di Narciso e, quando egli ebbe raggiunto i sedici anni, si era già lasciato alle spalle una schiera di amanti respinti d’ambo i sessi, poiché era caparbiamente geloso della propria bellezza.
Tra gli altri spasimanti vi era la Ninfa Eco, che non poteva più servirsi della propria voce se non per ripetere stupidamente le ultime parole gridate da qualcun altro: così fu punita per aver distratto Era con lunghe favole mentre le concubine di Zeus, le Ninfe della montagna, sfuggivano ai suoi occhi gelosi e si mettevano in salvo. Un giorno, mentre Narciso si preparava a tendere reti per i cervi, Eco lo seguì in un’impenetrabile foresta, desiderosa di rivolgergli la parola; ma, come al solito, non poteva parlare per prima. A un tratto Narciso, accortosi di esser ormai lontano dai suoi compagni, gridò: «C’è qualcuno qui?» «Qui!» rispose Eco, lasciando Narciso assai sorpreso, perché non si vedeva anima viva. «Vieni!» «Vieni» «Perché mi sfuggi?» «Perché mi sfuggi?» «Raggiungimi qua!» «Raggiungimi qua!» ripeté Eco gioiosamente, e balzò fuori dal suo nascondiglio per abbracciare Narciso. Ma egli la respinse in modo brusco e fuggì: «Morirò prima; che tu giaccia con me!» egli gridò. «Che tu giaccia con me!» ripeté Eco lamentosamente.
Ma Narciso era sparito ed Eco trascorse il resto della sua vita in valli solitarie, gemendo d’amore e di rimpianto, finché di lei rimase soltanto la voce. Un giorno Narciso mandò una spada ad Aminio, il suo spasimante più acceso, da cui prese il nome il fiume Aminio, un tributario dell’Elisso che confluisce nell’Altee. Aminio si uccise sulla soglia della casa di Narciso, invocando gli dei perché vendicassero la sua morte. Artemide udì quel grido di dolore e fece sì che Narciso si innamorasse senza poter soddisfare la propria passione. A Donacene, nella regione di Tespia, egli si avvicinò un giorno a una fonte chiara come l’argento ne mai contaminata da armenti, uccelli, belve o rami caduti dagli alberi vicini; non appena Narciso, esausto, sedette sulla riva di quella fonte, si innamorò della propria immagine. Dapprima tentò di abbracciare e baciare il bel fanciullo che gli stava dinanzi, poi riconobbe se stesso e rimase per ore a fissare lo specchio d’acqua della fonte, quasi fosse incantato.
L’amore gli veniva al tempo stesso concesso e negato, egli si struggeva per il dolore e insieme godeva del suo tormento, ben sapendo che almeno non avrebbe tradito se stesso, qualunque cosa accadesse. Eco, pur non avendo perdonato Narciso, soffriva con lui: ripeté dunque il disperato «Ahimè» che Narciso pronunciò trafiggendosi il petto con la spada, e le parole che mormorò spirando: «O giovane invano amato, addio!» Dalla terra inzuppata del suo sangue nacque il narciso bianco dalla rossa corolla, da cui si distilla ora l’unguento balsamico di Cheronea. Tale unguento è raccomandato per le malattie dell’orecchio (benché possa provocare dei mali di capo), come vulnerario e per la cura dei geloni.
ll mito di Narciso, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
II giorno seguente, nel corso di un altro banchetto, Agelao di Samo, uno dei pretendenti, chiese a Telemaco se non potesse indurre sua madre a prendere una decisione. Al che Penelope si dichiarò pronta ad accettare come marito chi sapesse emulare Odisseo in una gara di tiro all’arco: si trattava di scagliare una freccia negli anelli di dodici asce disposte in fila. Penelope mostrò loro l’arco che dovevano usare: donato da Ifito a Odisseo venticinque anni prima, quando egli si era recato a protestare a Messene per il furto di trecento pecore compiuto a Itaca dai Messeni, quell’arco era appartenuto un tempo a Eurito, padre di Ifito, che Apollo stesso istruì nell’arte di scoccare frecce, ma che fu poi vinto e ucciso da Eracle. Taluni dei pretendenti vollero saggiarne la potenza, ma non riuscirono neppure a tenderlo, pur avendone ammorbidito il legno con della sugna; si decise dunque di rimandare la prova al giorno seguente. Telemaco, che era quasi riuscito a tendere l’arco, lo depose di nuovo vedendo Odisseo corrugare la fronte. Odisseo allora, nonostante le proteste e gli insulti dei pretendenti (così volgari che Telemaco fu costretto a ordinare a Penelope di ritornare nelle sue stanze), si impadronì dell’arco e lo tese senza sforzo facendone vibrare melodiosamente la corda. Poi, presa accuratamente la mira, scoccò una freccia nei dodici anelli delle asce. Frattanto Telemaco, che era uscito in gran fretta dalla sala, rientrò armato di spada e di lancia e Odisseo si rivelò infine scoccando una seconda freccia che si conficcò nella gola di Antinoo.
I pretendenti balzarono in piedi e corsero verso le pareti per staccare le armi, ma si accorsero troppo tardi che le armi non c’erano più. Eurimaco invocò pietà e quando Odisseo rifiutò di concedergli la vita, strinse la spada e si lanciò contro di lui: ma una freccia gli trapassò il fegato ed egli cadde a terra rantolante. Un’aspra lotta divampò allora tra i pretendenti armati di spade e Odisseo armato soltanto dell’arco, ma piazzato dinanzi all’ingresso principale della sala. Telemaco corse di nuovo all’armeria e ne riportò scudi, elmi e lance per il padre suo e per Eumeo e Filezio, i due servi fedeli che lo spalleggiavano. Infatti benché Odisseo avesse abbattuto i suoi avversari a dozzine, la sua scorta di frecce era quasi esaurita. Melanteo, che era sgattaiolato nell’armeria da una porta secondaria per portare armi ai pretendenti, fu colto sul fatto al secondo tentativo e legato con solide corde. La strage frattanto continuava e Atena in veste di rondine svolazzò nella sala finché tutti i pretendenti giacquero morti, all’infuori di Medonte l’araldo e di Pernio l’aedo; Odisseo li risparmiò perché non gli avevano fatto direttamente alcun torto e le loro persone erano sacre. Si fermò poi per chiedere a Euriclea, che aveva chiuso le donne nelle loro stanze, quante ancelle erano rimaste fedeli alla sua causa. Ed Euriclea rispose: «Dodici soltanto si sono coperte di vergogna». Le ancelle colpevoli ricevettero l’ordine di lavare con spugne e acqua il pavimento della sala insozzato di sangue. Poi Odisseo le impiccò tutte in fila. Scalciarono un poco e tutto finì. Eumeo e Filezio mutilarono Melanteo delle sue estremità (naso, orecchie, mani, piedi e genitali) che furono gettate in pasto ai cani.
Odisseo, riunitosi finalmente alla moglie Penelope e al padre Laerte, raccontò loro le sue avventure, ma questa volta rispettò la verità. Si avvicinò frattanto un gruppo di itacesi ribelli, parenti di Antinoo e degli altri pretendenti; vedendo che Odisseo doveva affrontare un numero preponderante di avversari, il vecchio Laerte prese validamente parte alla lotta, e questa stava volgendo in favore di Odisseo allorché Atena intervenne e propose una tregua. I ribelli allora intentarono un’azione legale contro Odisseo, nominando loro giudice Neottolemo, re delle isole Epirotidi. Odisseo acconsentì ad accettare il verdetto e Neottolemo stabilì che egli lasciasse l’isola per altri dieci anni durante i quali gli eredi dei pretendenti avrebbero dovuto versare a Telemaco, ora re, un adeguato compenso per i danni subiti.
Rimaneva tuttavia Poseidone, che bisognava placare; e Odisseo partì a piedi, seguendo le istruzioni di Tiresia, con un remo sulla spalla. Quando raggiunse la Tesprozia, un contadino gli gridò: «Che fai, con un ventilabro sulla spalla in primavera?» Odisseo allora sacrificò un ariete, un toro e un cinghiale a Poseidone e fu perdonato. Poiché non gli era ancora concesso di tornare a Itaca sposò Callidice, regina dei Tesprozi, e guidò il suo esercito in una guerra contro i Brigidi, sotto la protezione di Ares; ma Apollo invocò una tregua. Nove anni dopo Polipete. figlio di Odisseo e di Callidice, successe al padre sul trono dei Tesprozi e Odisseo ritornò a Itaca dove Penelope regnava in nome del figlioletto Poliportide. Telemaco era stato esiliato a Cefallenia, poiché un oracolo aveva predetto: «Odisseo, sarai ucciso dal tuo stesso figlio!» A Itaca la morte venne a Odisseo dal mare, così come Tiresia aveva previsto. Telegono, il figlio che egli aveva avuto da Circe, salpato in cerca del padre, fece una scorreria a Itaca, credendo che fosse l’isola di Corcira, e Odisseo si preparò a respingere l’attacco. Telegono lo uccise sulla riva del mare e l’arma fatale fu una lancia che aveva per punta l’aculeo di una razza. Trascorso in esilio l’anno prescritto dalla legge, Telegono sposò Penelope. Telemaco sposò allora Circe e i due rami della famiglia si unirono così di più stretti legami.
Taluni negano che Penelope rimanesse fedele a Odisseo. L’accusano di essersi unita ad Anfinomo di Dulichio, oppure con ciascuno dei pretendenti a turno, e dicono che il frutto di questa unione fu il mostruoso dio Pan: al vederlo Odisseo sarebbe fuggito in Etolia per la vergogna, scacciando Penelope che ritornò dal padre suo Icario a Mantinea, dove ancor oggi si mostra la sua tomba. Altri affermano che Penelope generò Pan da Ermes e che Odisseo sposò una principessa etolica, la figlia del re Toante; ebbe da lei Leontofono, il più giovane dei suoi figli, e morì serenamente a tarda età.
Il mito di Odisseo, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
Odisseo, quando si destò, non riconobbe subito la sua isola che Atena aveva avvolto in una nebbia leggera. Atena stessa si presentò a lui in veste di pastorello e ascoltò il lungo e mendace racconto che Odisseo le fece: egli disse infatti di essere cretese, fuggito a bordo di una nave sidonia dopo aver ucciso il figlio di Idomeneo, e abbandonato su quella spiaggia contro la sua volontà. «Che isola è mai questa?» chiese. Atena rise e gli accarezzò la guancia. «Sei davvero un meraviglioso bugiardo», replicò; «se già non conoscessi la verità ti avrei creduto. Ciò che mi sorprende, tuttavia, è che tu non mi abbia riconosciuto. Io sono Atena. I Feaci ti sbarcarono qui per mio ordine. Mi spiace che tanti anni siano trascorsi prima che io potessi ricondurti a casa, ma non osavo offendere mio zio Poseidone aiutandoti in modo troppo palese». La dea consigliò a Odisseo di celare in una grotta i bacili, i tripodi, i manti purpurei e i nappi d’oro donatigli dai Feaci, e gli fece subire una metamorfosi tale da renderlo irriconoscibile: gli sbiancò la pelle, gli incanutì i capelli, lo rivestì di luridi stracci e lo guidò verso la capanna di Eumeo, il fedele porcaro. Atena era appena giunta da Sparta dove Telemaco si era recato per chiedere notizie di Odisseo a Menelao, da poco tornato dall’Egitto. Ora, bisogna spiegare che, convinti della morte di Odisseo, non meno di centoventi insolenti principi delle isole che facevano parte del regno, Dulichio, Samo, Zacinto e Itaca stessa, corteggiavano sua moglie Penelope e ciascuno di essi sperava di sposarla per impossessarsi del trono; cedesti principi si erano accordati tra loro per uccidere Telemaco al suo ritorno da Sparta
Quando chiesero a Penelope di scegliersi per marito uno di loro, essa dapprima dichiarò che Odisseo era certamente vivo, poiché il suo ritorno in patria era stato predetto da un oracolo di tutta fiducia; in seguito, per arginare l’insistenza sempre crescente dei pretendenti, promise di prendere una decisione soltanto quando avesse terminato di tessere una certa tela per il vecchio Laerte, suo suocero. Ma passarono tre anni prima che il lavoro fosse completato perché Penelope disfaceva di notte ciò che aveva fatto durante il giorno. Alla fine, i pretendenti scoprirono l’inganno e nel frattempo si erano accampati nel palazzo di Odisseo bevendo il suo vino, sgozzando i suoi porci e i suoi vitelli e seducendo le sue ancelle.
Odisseo, accolto ospitalmente da Eumeo, raccontò al vecchio un’altra storia falsa, pur giurando solennemente che Odisseo era vivo e sulla via del ritorno. Frattanto Telemaco sbarcò inaspettato, eludendo così il complotto dei pretendenti, e si recò subito alla capanna di Eumeo: Atena l’aveva fatto ripartire in gran fretta da Sparta. Odisseo, tuttavia, non rivelò la sua identità finché Atena non gliene diede il permesso restituendogli magicamente il primitivo aspetto. Eumeo però non fu messo a parte del segreto e Telemaco ebbe l’ordine di non rivelare nulla a Penelope.
Travestito nuovamente da mendicante. Odisseo si recò a palazzo per osservare come si comportassero i pretendenti. Strada facendo incontrò il capraro Melanteo che lo ingiuriò oscenamente e gli sferrò un calcio nelle natiche; tuttavia Odisseo frenò la collera e non si vendicò subito come avrebbe voluto. Quando raggiunse il cortile del palazzo, trovò il vecchio Argo, un tempo famoso cane da caccia, sdraiato su un mucchio di letame, magro, rognoso, decrepito e tormentato dalle mosche. Argo agitò debolmente il mozzicone di coda e drizzò le orecchie riconoscendo il padrone, e Odisseo si asciugò segretamente una lacrima quando Argo spirò.
Eumeo guidò Odisseo nella sala dei banchetti, dove Telemaco, fingendo di non sapere chi fosse quel mendicante, gli offrì ospitalità. Apparve allora Atena, invisibile a tutti fuorché a Odisseo, e gli suggerì di aggirarsi tra i tavoli mendicando cibo dai convitati, per rendersi così conto di che razza d’uomini fossero. Odisseo obbedì e si accorse che i pretendenti erano tanto avari quanto avidi. Il più svergognato dell’intera compagnia, Antinoo di Itaca (cui Odisseo narrò una terza versione delle sue avventure), gli scagliò addosso irosamente uno sgabello. Odisseo, massaggiandosi la spalla dolorante, fece appello agli altri convitati, i quali convennero che Antinoo avrebbe potuto mostrarsi più cortese. Penelope, quando le ancelle le riferirono dell’incidente, ne rimase scandalizzata e mandò a chiamare il finto mendicante, sperando che. egli potesse darle notizie di suo marito. Odisseo promise di recarsi nelle sue stanze quella sera stessa e di rivelarle tutto ciò che essa desiderava sapere.
Frattanto, uno zotico accattone di Itaca soprannominato «Iro» perché a somiglianza della dea Iride si incaricava di portare messaggi a questi e a quelli, cercò di scacciare Odisseo dal portico. E poiché Odisseo non si mosse. Iro lo sfidò a una gara di pugilato mentre Antinoo, ridendo di cuore, propose di offrire al vincitore ventrigli di capra avanzati dalla cena e un posto tra i commensali. Odisseo allora si arrotolò i cenci attorno ai lombi e si preparò ad affrontare Iro. Costui arretrò al vedere i poderosi muscoli dell’avversario, ma i dileggi dei pretendenti gli impedirono di darsi alla fuga. Odisseo lo abbatté con un solo colpo, badando però di stordirlo soltanto e non di ucciderlo, per non destare sospetti con un’impresa tanto clamorosa. I pretendenti applaudirono, ingiuriarono il vinto, litigarono tra di loro, sedettero di nuovo a mensa per il banchetto pomeridiano, fecero un brindisi a Penelope che era scesa nella sala per accettare i doni nuziali offerti dai principi (benché non avesse alcuna intenzione di fare la sua scelta) e al cader della notte si ritirarono nei loro alloggi.
Odisseo disse a Telemaco di riporre nell’armeria tutte le lance che stavano appese alle pareti della sala dei banchetti, mentre egli si recava a visitare Penelope. La regina non riconobbe il marito e Odisseo intessé un mendace racconto del suo viaggio, dicendo di aver incontrato di recente Odisseo il quale si recava a consultare l’oracolo di Zeus a Dodona, ma presto sarebbe tornato a Itaca. Penelope lo ascoltò attentamente e ordinò a Euriclea, la vecchia nutrice di Odisseo, di lavargli i piedi. Ed ecco che Euriclea riconobbe la ferita nella coscia di Odisseo e lanciò un grido di sorpresa e di gioia; ma Odisseo, presa la vecchia per la gola, la supplicò di tacere. Penelope non notò l’incidente perché Atena aveva distratto la sua attenzione.
Vai a: Odisseo torna a Itaca – Parte 2 (di 2)
Il mito di Odisseo, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
Non appena la nave si avvicinò all’Isola delle Sirene, Odisseo seguì il consiglio di Circe; le Sirene cantavano in modo così suadente, promettendogli la possibilità di prevedere tutto ciò che sarebbe accaduto sulla terra, che Odisseo minacciò di morte i marinai se non lo avessero liberato. Ma, fedeli alla consegna, essi invece rafforzarono le corde che assicuravano Odisseo all’albero maestro. Così la nave doppiò l’isola senza che nessuno scendesse a terra e le Sirene, per la rabbia, si uccisero.
Taluni credono che vi fossero soltanto due Sirene; altri, che ve ne fossero tre e cioè Partenope, Leucosia e Ligea; oppure Pisinoe, Aglaope e Telsepea; oppure Aglaofone, Telsiope e Molpa. Altri ancora ne citano quattro: Telete, Redna, Telsiope e Molpa.
Odisseo doveva poi passare tra due rocce, l’una abitata da Scilla e l’altra da Cariddi, due mostri orrendi. Cariddi, figlia di Poseidone e della Madre Terra, era una donna vorace che Zeus scagliò in mare con un fulmine e che ora usava bere enormi quantità d’acqua marina per poi risputarle in mare. Scilla, un tempo la bellissima figlia di Ecate Crateide e di Porci o Forbante (oppure di Echidna e di Tifone o Tritone o Tirrenio), era stata trasformata in un mostro di forma canina con sei orrende teste e dodici zampe. Ciò avvenne o per volontà di Circe, gelosa dell’amore che Glauco nutriva per Scilla, o per volontà di Anfitrite, egualmente gelosa dell’amore di Poseidone. Scilla, anziché abbaiare a gran voce, guaiva come un cucciolo appena nato. Cercando di sfuggire a Cariddi, Odisseo si avvicinò troppo a Scilla che, sporgendosi al di sopra della murata, agguantò sei dei più abili marinai, uno in ciascuna delle sue bocche, e ritiratasi sulle rocce li divorò con comodo. Gli infelici gridavano e invocavano aiuto, ma Odisseo non osò andare a salvarli e proseguì.
Odisseo regolò la rotta della nave in modo da evitare le Rocce Vaganti o Stritolatrici, tra le quali soltanto l’Argo era riuscita a passare; egli non sapeva che tali rocce erano ormai radicate al fondo marino. Ben presto fu avvistata la costa della Sicilia dove Iperione, il Titano solare che taluni chiamano Elio, faceva pascolare sette splendide mandrie di cinquanta capi ciascuna e alcune greggi di pecore. Odisseo fece giurare ai suoi uomini che si sarebbero accontentati delle provviste fornite da Circe senza tentare di rubare il bestiame di Iperione. Poi sbarcarono, ma il Vento del Sud soffiò per tre giorni, le provviste stavano per esaurirsi e benché gli uomini si affannassero a cacciare e a pescare, non ebbero molto successo. Infine, Euriloco, morso dalla fame, prese in disparte i camerati e li indusse a rubare qualche capo di bestiame; in compenso, disse, avrebbero eretto a Iperione uno splendido tempio non appena ritornati a Itaca. Attesero dunque che Odisseo si fosse addormentato, si impadronirono di alcune vacche, le sgozzarono, offrirono le ossa della coscia e il grasso agli dei e arrostirono tanta carne quanta ne sarebbe bastata per banchettare sei giorni.
Odisseo, destatesi, inorridì al vedere l’accaduto, e inorridì anche Iperione quando ebbe notizia del furto da Lampetia, sua figlia e capo mandriana. Si lagnò con Zeus il quale, visto che la nave di Odisseo aveva ripreso il mare, scatenò un’improvvisa tempesta. Il Vento dell’Ovest schiantò l’albero maestro e poi cadde una folgore in coperta. La nave si inabissò e tutti annegarono, fuorché Odisseo. Egli riuscì a legare l’albero alla chiglia servendosi della rizza di cuoio e montò a cavalcioni su quell’improvvisata zattera. Ma ecco levarsi il Vento del Sud e spingerlo verso i gorghi di Cariddi. Aggrappato ai rami di un fico che sorgeva sulla riva Odisseo attese che il mostro, ingoiata la zattera, la vomitasse di nuovo; poi vi risalì e si allontanò remando con le mani. Dopo nove giorni, giunse all’isola di Ogigia dove viveva Calipso, figlia di Teti e di Oceano o Nereo o Atlante.
Boschi di ontani, pioppi bianchi e cipressi ombreggiavano la grotta di Calipso, e sui loro rami albergavano gufi, falconi, corvi marini. Una vite si attorcigliava attorno alle rocce dell’ingresso. Prezzemolo e giaggioli crescevano nell’orto lì accanto che era irrigato da quattro ruscelli. La bellissima Calipso confortò Odisseo che giaceva stremato sulla spiaggia e gli offrì cibo e bevande e il suo morbido letto. «Se rimarrai con me», gli disse, «godrai dell’immortalità e di perenne giovinezza». Secondo taluni fu Calipso e non Circe che generò a Odisseo il figlio Latino, oltre ai gemelli Nausitoo e Nausinoo.
Calipso trattenne Odisseo a Ogigia per sette anni, o forse furono soltanto cinque, e cercò di fargli dimenticare Itaca; ma ben presto egli si stancò delle sue carezze e sedeva per ore sulla spiaggia, fissando malinconico il mare. Infine, approfittando dell’assenza di Poseidone, Zeus inviò Ermes a Calipso con l’ordine che essa lasciasse partire Odisseo. Calipso non poté far altro che obbedire. Disse dunque a Odisseo di costruirsi una zattera e gli fornì le provviste: un sacco di grano, otri di vino e d’acqua e carne disseccata. Benché Odisseo sospettasse un inganno, Calipso giurò sullo Stige che non aveva intenzione di tradirlo e gli consegnò ascia, scure, succhielli, insomma tutti gli attrezzi necessari. Odisseo non aveva bisogno di incoraggiamenti; costruì la zattera con tronchi d’albero legati gli uni agli altri, la spinse in mare su dei rulli, si congedò da Calipso con un bacio e partì col vento in poppa.
Poseidone si era recato a visitare i suoi fedeli amici etiopi e mentre tornava a casa galoppando sulle onde con il cocchio vide all’improvviso la zattera. Subito Odisseo fu gettato in mare da un’onda violenta, le ricche vesti che indossava lo trascinarono a fondo con il loro peso e già gli pareva che i suoi polmoni fossero lì lì per scoppiare. Ma poiché era un valente nuotatore, riuscì a sgusciare fuori dalle vesti e, risalito in superficie, a raggiungere nuovamente la zattera. La pietosa dea Leucotea, che un tempo era stata Ino, moglie di Atamante, si posò allora sulla zattera con l’aspetto di un gabbiano: portava nel becco un velo e disse a Odisseo di avvolgerselo attorno alle reni semmai fosse caduto ancora in mare. Il velo l’avrebbe salvato: così essa promise. Odisseo parve esitare, sospettoso, ma quando un’altra onda spazzò la zattera si cinse del velo e cominciò a nuotare. Poiché Poseidone era ormai ritornato al suo palazzo sottomarino, Atena osò suscitare un vento che placava le onde dinanzi a Odisseo e due giorni dopo egli approdava, esausto, all’isola di Drepane, allora abitata dai Feaci. Giacque all’ombra di due arbusti presso un ruscello, si ammucchiò foglie secche sul corpo e cadde in un sonno profondo.
II mattino seguente la bella Nausicaa, figlia di re Alcinoo e della regina Areta, la coppia reale che già si era dimostrata tanto cortese con Giasone e Medea, venne a lavare i panni nel ruscello. Terminato il lavoro giocò a palla con le sue compagne. La palla cadde nell’acqua, le fanciulle lanciarono un grido e Odisseo si destò. Non aveva vesti addosso, e coprendo la sua nudità con un fronzuto ramo di olivo si fece avanti e pronunziò parole così dolci che Nausicaa lo prese sotto la sua protezione e lo condusse al palazzo. Colà Alcinoo offrì a Odisseo doni ospitali e, udito il racconto delle sue avventure, lo rimandò a Itaca con una bella nave. I marinai feaci conoscevano bene l’isola. Gettarono l’ancora nel porto di Forcide e per non disturbare il sonno di Odisseo lo portarono a terra con cautela e lo deposero sulla spiaggia, ammucchiando i doni di Alcinoo presso un albero non lontano. Poseidone, tuttavia, era tanto irato con i Feaci per le cortesie usate a Odisseo che durante il viaggio di ritorno colpì la loro nave col piatto della mano e la trasformò in pietra, con l’equipaggio e tutto. Alcinoo tosto sacrificò dodici buoi a Poseidone, che minacciava ora di distruggere il porto dei Feaci facendo precipitare in mare una montagna. «Impareremo dunque a non essere più tanto ospitali in futuro», disse Alcinoo ad Areta con profonda amarezza.
I Viaggi di Odisseo, riassunti dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
Odisseo costrinse i suoi uomini a imbarcarsi, poiché a malincuore essi lasciavano l’isola di Eea per recarsi nella terra di Ade. Circe fece spirare un vento favorevole che li spinse verso il fiume Oceano e gli sperduti limiti del mondo dove i Cimmeri avvolti nella nebbia, cittadini del Perpetuo Crepuscolo, vivono senza godere della luce del sole. Quando avvistarono il bosco di Persefone, Odisseo sbarcò e fece esattamente ciò che Circe gli aveva consigliato di fare. La prima ombra ad apparire sui limite della fossa fu quella di Elpenore, uno dei marinai di Odisseo che pochi giorni prima, addormentatosi ubriaco sul tetto del palazzo di Circe, ne era rotolato giù e si era ucciso; Odisseo che, lasciata Eea in gran fretta s’era accorto troppo tardi dell’assenza di Elpenore, gli promise ora solenni esequie. «Se penso che tu sei giunto qui a piedi più rapidamente di noi con la nave!» esclamò. Ma non permise che Elpenore bevesse un solo sorso di sangue, sordo alle sue imploranti suppliche.
Una frotta d’ombre si riunì frattanto attorno alla fossa, uomini e donne d’ogni età, compresa la madre di Odisseo, Anticlea. Ma egli non volle che alcuno bevesse prima di Tiresia. E Tiresia infine apparve, bevve avidamente il sangue e ammonì Odisseo a tenere sotto stretto controllo i suoi uomini non appena avessero avvistato la Sicilia, perché non fossero tentati di rubare la mandria del Titano solare Iperione. In Itaca, poi, egli doveva attendersi ogni sorta di guai, e benché potesse sperare di vendicarsi dei mascalzoni che stavano dilapidando i suoi beni nell’isola natia, i suoi viaggi non sarebbero finiti. Doveva prendere un remo e caricarselo su una spalla e camminare nell’entroterra finché raggiungesse una regione dove gli uomini non mangiavano carne salata e ignoravano le cose del mare tanto da scambiare il remo per un ventilabro. Sacrificando allora a Poseidone, avrebbe potuto ritornare a Itaca e vivere sereno fino a tarda età. Ma la morte gli sarebbe giunta dal mare.
Ringraziato Tiresia e promessogli il sangue di un’altra pecora nera al suo ritorno in patria, Odisseo permise a sua madre di placare la sete. Essa gli diede notizie di Itaca ma tacque discretamente sul conto dei pretendenti di Penelope. Quando infine si congedò, le ombre di molte regine e principesse si strinsero attorno alla fossa per lambire il sangue. Odisseo fu onorato di conoscere personaggi famosi come Antiope, Giocasta, Doride, Pero, Leda, Ifimedea, Fedra, Procri, Arianna, Mera, Climene ed Erifile.
Si intrattenne poi con un gruppo di vecchi compagni: Agamennone, che gli consigliò di sbarcare a Itaca in segreto; Achille, che si rallegrò all’udire notizie delle imprese di suo figlio Nettolemo, e il Grande Aiace, che ancora gli serbava rancore e si allontanò cupo in volto. Odisseo vide inoltre Minosse che giudicava le ombre, Orione intento a cacciare, Tantalo e Sisifo torturati ed Eracle (o meglio l’ombra di Eracle, poiché Eracle stesso banchettava tra gli dei immortali) che lo commiserò per le sue fatiche, paragonandole alle proprie.
Odisseo ritornò dunque a Eea, dove diede sepoltura al corpo di Elpenore e piantò un remo sul tumulo in suo ricordo. Circe lo accolse sorridendo: «Quale ardire hai mostrato visitando la terra di Ade!» disse. «Una sola morte spetta alla maggior parte degli uomini, ma tu ora ne avrai due!» Lo avverti poi che sarebbe passato presso l’Isola delle Sirene, le cui belle voci incantano i marinai. Codeste figlie di Acheloo o di Forci e della Musa Tersicore o Sterope, figlia di Portaone, avevano volti di fanciulle ma zampe e piume d’uccello, e a proposito di questa loro caratteristica si raccontano varie storie: a esempio, che esse stavano giocando con Core quando Ade la rapì e che Demetra, irata perché non erano accorse in aiuto di sua figlia, fece spuntare penne sui loro corpi e ordinò: «Andate a cercare Core in tutto il mondo!» Oppure che Afrodite le trasformò in uccelli perché orgogliosamente rifiutavano di sacrificare la loro verginità a dei o a uomini mortali. Non avevano più la possibilità di volare dal giorno in cui le Muse le avevano sconfitte in una gara di canto, strappando poi loro le ali per farsene delle corone. Ora sedevano cantando in un prato, tra le ossa sbiancate dei marinai che avevano trascinato alla morte. «Tura con cera le orecchie dei tuoi uomini», consigliò Circe a Odisseo, «e se davvero sei curioso di udire i canti delle Sirene fatti legare dai marinai all’albero maestro e inducili a giurare di non scioglierti, per quanto tu li supplichi o li minacci». Quando Odisseo si congedò da lei, Circe lo mise in guardia contro altri pericoli che lo attendevano e infine egli salpò, di nuovo favorito dal vento.
I Viaggi di Odisseo, riassunti dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
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