Il racconto del mito delle Sirene collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 23: Le Sirene – Incanto e seduzione.
Dopo essere uscito dall’Ade, Odisseo ritornò a Eea, dove Circe lo accolse sorridendo: “Quale ardire hai mostrato visitando la terra di Ade!” disse. “Una sola morte spetta alla maggior parte degli uomini, ma tu ora ne avrai due!” Lo avverti poi che sarebbe passato presso l’Isola delle Sirene, le cui belle voci incantano i marinai. Codeste figlie di Acheloo o di Forci e della Musa Tersicore o Sterope, figlia di Portaone, avevano volti di fanciulle ma zampe e piume d’uccello, e a proposito di questa loro caratteristica si raccontano varie storie: a esempio, che esse stavano giocando con Core quando Ade la rapì e che Demetra, irata perché non erano accorse in aiuto di sua figlia, fece spuntare penne sui loro corpi e ordinò: “Andate a cercare Core in tutto il mondo!” Oppure che Afrodite le trasformò in uccelli perché orgogliosamente rifiutavano di sacrificare la loro verginità a dèi o a uomini mortali. Non avevano più la possibilità di volare dal giorno in cui le Muse le avevano sconfitte in una gara di canto, strappando poi loro le ali per farsene delle corone. Ora sedevano cantando in un prato, tra le ossa sbiancate dei marinai che avevano trascinato alla morte.
“Tura con cera le orecchie dei tuoi uomini”, consigliò Circe a Odisseo, “e se davvero sei curioso di udire i canti delle Sirene fatti legare dai marinai all’albero maestro e inducili a giurare di non scioglierti, per quanto tu li supplichi o li minacci”. Quando Odisseo si congedò da lei, Circe lo mise in guardia contro altri pericoli che lo attendevano e infine egli salpò, di nuovo favorito dal vento. Non appena la nave si avvicinò all’Isola delle Sirene, Odisseo seguì il consiglio di Circe; le Sirene cantavano in modo così suadente, promettendogli la possibilità di prevedere tutto ciò che sarebbe accaduto sulla terra, che Odisseo minacciò di morte i marinai se non lo avessero liberato.
Ma, fedeli alla consegna, essi invece rafforzarono le corde che assicuravano Odisseo all’albero maestro. Così la nave doppiò l’isola senza che nessuno scendesse a terra e le Sirene, per la rabbia, si uccisero. Taluni credono che vi fossero soltanto due Sirene; altri, che ve ne fossero tre e cioè Partenope, Leucosia e Ligea; oppure Pisinoe, Aglaope e Telsepea; oppure Aglaofone, Telsiope e Molpa. Altri ancora ne citano quattro: Telete, Redna, Telsiope e Molpa.
ll mito delle Sirene, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
“Devo essere una sirena. Non ho paura delle profondità e ho una gran paura della vita superficiale.” (Anais Nin, Le quattro stanze del cuore)
Dal risvolto di copertina: “Le Sirene sono fra le più affascinanti ed enigmatiche figure dell’immaginario collettivo. La loro presenza in uno dei più celebri episodi dell’Odissea le colloca nel cuore del sistema mitico del mondo antico. La loro ibrida natura (di donne-uccello prima e di donne-pesce poi) le rende temute e rispettate creature che marcano il passaggio fra il mondo culturale e il mondo altro. Dotate di conoscenza speciale, ma anche mostri micidiali che annientano e divorano chi cede al loro canto, divengono nel cristianesimo una rappresentazione del richiamo sessuale che può condurre alla perdizione. La loro immagine, segnata da una latente misoginia, diventa nel romanticismo un’espressione della femme fatale che mina gli equilibri sociali. Nel Novecento viene invece rielaborata, in chiave per lo più giocosa, dal cinema e dall’industria dell’intrattenimento per poi insinuarsi nei meandri della società postmoderna, della cui liquidità diventa un simbolo”
Dall’introduzione di Giulio Guidorizzi: “Alcuni narrano che in origine le Sirene erano state graziose fanciulle, amiche di Persefone; quando Ade rapì la ragazza, Demetra si adirò con le sue compagne che non avevano saputo difenderla e le trasformò in uccelli. Non erano immortali, un giorno morirono di una fine tragica e violenta. Avevano ricevuto la profezia che sarebbero morte quando un navigante fosse riuscito a passare indenne accanto alla loro isola, sopravvivendo al loro canto malioso. Così dopo che Ulisse le ebbe beffate, si uccisero precipitandosi in mare. Omero descrive minuziosamente l’isola delle Sirene: davanti agli occhi stupefatti dei marinai compaiono prati ameni pieni di fiori, ma dietro si nascondono le ossa marcite degli uomini che si lasciarono incantare dal canto e furono uccisi. Ma cosa cantavano queste misteriose creature per incantare i marinai? Nessuno lo seppe mai dire, nemmeno Ulisse.”
Oltre alla narrazione del mito, il volume contiene anche approfondimenti sulla sua fortuna nel corso dei secoli, in tutte le forme artistiche: letteratura (con una ricca antologia di testi classici sul mito), pittura, teatro, cinema. Inoltre vi è una tavola genealogica, e un ricco apparato bibliografico e sitografico. Il volume sulle Sirene è curato da Marxiano Melotti, professore di di Sociologia dei processi culturali e Sociologia del turismo all’Università Niccolò Cusano di Roma. Qui gli ultimi volumi pubblicati.
L’intera collana di trenta volumi è a cura di Giulio Guidorizzi. Guidorizzi è grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e antropologia del mondo antico. Ha scritto numerosi libri sulla mitologia. Noi vi consigliamo, per iniziare, il suo bellissimo Il mito greco (in due volumi, usciti nel 2009 e nel 2012). Qui una lista di suoi volumi sul mito greco.
Il racconto del mito di Fedra è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 11: Fedra – L’insana passione.
Dopo le sue nozze con Fedra, Teseo mandò il figlio bastardo Ippolito da Pitteo, che lo adottò come suo erede al trono di Trezene. In tal modo Ippolito non avrebbe avuto ragione di contestare il trono di Atene ai suoi legittimi fratelli, Acamante e Demofoonte, figli di Fedra. Ippolito, che aveva ereditato da sua madre Antiope un’accesa devozione per la casta Artemide, innalzò alla dea un nuovo tempio in Trezene, non lontano dal teatro. Al che Afrodite, ben decisa a punire ciò che considerava un insulto a lei diretto, fece in modo che, mentre Ippolito partecipava ai Misteri Eleusini, Fedra si innamorasse perdutamente di lui. Ippolito indossava una bianca veste, aveva una corona in capo e, benché la sua espressione fosse dura e arcigna, a Fedra egli apparve stupendo e austero.
Poiché a quell’epoca Teseo si trovava in Tessaglia con Piritoo o forse nel Tartaro, Fedra seguì Ippolito a Trezene. Colà essa edificò il tempio ad Afrodite che Spia, sovrastante la palestra, e ogni giorno, senza essere notata, poteva osservare Ippolito che, completamente nudo, si esercitava nella corsa, nel salto e nella lotta. Un antico albero di mirto sorge nel recinto del tempio e Fedra, nel furore dell’inane passione, si accaniva contro le sue fronde servendosi di uno spillone ingioiellato; ancor oggi si vedono i fori dello spillone nelle foglie. In seguito, quando Ippolito si recò ad assistere alle Panatenee e alloggiò nel palazzo di Teseo, Fedra spiò dal tempio di Afrodite sull’Acropoli. Fedra non svelò ad alcuno il suo incestuoso desiderio, ma toccava appena il cibo, dormiva male e tanto si indebolì che la vecchia nutrice, infine, indovinò la verità e supplicò la regina di inviare una lettera a Ippolito. Fedra seguì il consiglio e scrisse confessando il proprio amore, disse di essere ormai convertita al culto di Artemide, cui aveva riconsacrato i simulacri lignei portati da Creta. Ippolito avrebbe accettato di recarsi con lei a una partita di caccia? «Noi donne della real casa cretese», continuava la lettera, «siamo forse per destino condannate al disonore: pensa a mia nonna Europa, a mia madre Pasifae e infine a mia sorella Arianna! Ah infelice Arianna, abbandonata dal padre tuo, l’infedele Teseo, che in seguito uccise la tua real madre Antiope… (perché le Furie non punirono la tua filiale indifferenza alla sua triste sorte?) e forse un giorno ucciderà me pure! Conto su di te per vendicarti di Teseo rendendo omaggio ad Afrodite. Perché non ce ne andiamo a vivere assieme, per qualche tempo almeno, servendoci come pretesto della battuta di caccia? Nessuno sospetterà dei nostri veri sentimenti. Già alloggiamo sotto lo stesso tetto e il nostro affetto sarà considerato innocente o persino encomiabile».
Ippolito bruciò inorridito quella lettera e si recò nella camera di Fedra dando aspra voce ai suoi rimproveri; Fedra allora si lacerò le vesti, spalancò le porte, gridò: «Aiuto! Aiuto! Sono stata violentata!» e si impiccò a una trave del soffitto, lasciando un biglietto che accusava Ippolito di orrendi crimini. Teseo, ricevendo tale biglietto, maledisse Ippolito e diede ordini affinché il giovane lasciasse immediatamente Atene e mai più vi ritornasse. Più tardi si rammentò dei tre desideri che il padre suo Posidone aveva promesso di esaudire e pregò perché Ippolito morisse quel giorno stesso. «Padre», supplicò, «fa’ che una belva si pari dinanzi a Ippolito sulla strada di Trezene!»
Ippolito aveva abbandonato Atene in gran fretta. Mentre correva lungo la parte più stretta dell’istmo, un’enorme ondata, più alta della Roccia Moluride, si abbatté con un boato sulla spiaggia e dalla sua spuma emerse una grande foca maschio (o, come altri dicono, un toro bianco). I quattro cavalli di Ippolito fecero uno scarto verso la parte opposta della strada, pazzi di terrore, ma Ippolito, abile auriga qual era, impedì che precipitassero nel baratro sottostante. Tuttavia gli animali si lanciarono in un galoppo furioso. Non lontano dal santuario di Artemide Saronide si trova un olivo selvatico, chiamato il Rachos Contorto (poiché rachos termine trezenio per indicare l’oleastro) e le redini di Ippolito si impigliarono nei rami di quest’albero. Il suo cocchio si infranse su un mucchio di pietre, e Ippolito, imprigionato dal groviglio delle redini, andò a sbattere prima contro il tronco, poi contro le pietre, e infine fu calpestato a morte dai cavalli, mentre la foca pareva svanire nel nulla. Taluni ritengono improbabile che Artemide in quel momento rivelasse la verità a Teseo e lo trasportasse in un batter d’occhio a Trezene, dove egli ebbe appena il tempo di riconciliarsi con il figlio morente. È accertato tuttavia che la dea ordinò ai Trezeni di tributare a Ippolito onori divini e da quel giorno tutte le spose trezenie si tagliano una ciocca di capelli e gliela offrono. Fu Diomede che consacrò l’antico tempio e il simulacro di Ippolito a Trezene e che per il primo gli offrì un sacrificio annuale. Nel recinto di questo tempio, presso il mirto dalle foglie forate, si vedono le tombe di Fedra e di Ippolito, quest’ultima contrassegnata da un tumulo di terra.
I Trezeni negano che Ippolito fosse calpestato a morte dai cavalli e che egli giaccia sepolto nel recinto del tempio; ne vogliono rivelare dove si trovi la sua tomba. Tuttavia sostengono che gli dei ne posero l’immagine fra gli astri come costellazione dell’Auriga. Gli Ateniesi innalzarono un tumulo in memoria di Ippolito presso il tempio di Temi, poiché la sua morte era stata provocata dalle maledizioni. Taluni dicono che Teseo, processato per omicidio, fu giudicato colpevole, colpito da ostracismo ed esiliato a Sciro, dove chiuse la sua vita nel dolore e nella vergogna. Ma comunemente si ritiene che egli cadde in disgrazia perché tentò di violentare Persefone.
L’ombra di Ippolito discese al Tartaro e Artemide, indignata, chiese ad Asclepio di risuscitare il suo corpo. Asclepio aprì il suo stipo d’avorio e ne estrasse l’erba che aveva risuscitato il cretese Glauco. Per tre volte posò l’erba sul corpo di Ippolito, pronunciando frasi magiche, e la terza volta il cadavere alzò la testa dal suolo. Ma Ade e le tre Moire, irati per questo attentato ai loro privilegi, indussero Zeus a uccidere Asclepio con la sua folgore.
I Latini narrano che Artemide avvolse allora Ippolito in una fitta nube e gli fece assumere le sembianze di un vecchio. Dopo aver esitato tra Delo e Creta, decise di nasconderlo nel bosco a lei sacro ad Ariccia, in Italia. Colà, col consenso di Artemide, Ippolito sposò la Ninfa Egeria; egli vive ancora presso il lago, tra cupi boschi di querce che si affacciano su inaccessibili burroni. Affinché nulla gli ricordasse la sua morte, Artemide gli diede il nuovo nome di Virbio, che significa vir bis, due volte uomo; e nessun cavallo può avvicinarlo. Soltanto gli schiavi fuggiaschi possono divenire sacerdoti di Artemide Aricina. Nel bosco a lei sacro sorge un’antica quercia, i cui rami non si debbono spezzare; ma qualora uno schiavo osi compiere questo gesto, il sacerdote, che ha a sua volta ucciso il proprio predecessore e vive in un costante timore della morte, deve duellare con lui, spada contro spada, per la carica sacerdotale. Gli Arici dicono che Teseo supplicò Ippolito di rimanere con lui ad Atene, ma che Ippolito rifiutò. Una tavoletta nel santuario di Asclepio a Epidauro ricorda che Ippolito gli consacrò venti cavalli, in segno di gratitudine per averlo risuscitato.
ll mito di Fedra, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
Eccomi qua a recensire La Dea Bianca, il libro più complesso e discusso di Robert Graves. Comincio con il dire che questo libro NON si legge per avere un resoconto storico: meglio leggerlo come un’opera di fiction, come un tentativo di dare ordine e ispirazione al lettore nell’ambito della mitopoietica. Cosa si intende con mitopoiesi? Si intende la capacità di utilizzare l’attività spirituale creatrice dei miti, che già Platone considerava più particolarmente propria dei poeti, distinguendola dall’attività più specificamente teoretica, generatrice di verità e di conoscenza, propria dei filosofi. In altre parole Graves crea una visione mitologica di una realtà che non sappiamo se è vera storicamente ma che crea un universo affascinante e ricco di significato psichico. Un po’ come il mondo del Signore degli Anelli: non è reale ma “suona bene” e ci si può identificare e le idee contenute nel testo possono divenire parte del nostro modo di leggere il mondo e la nostra vita.
Dal punto di vista mitopoietico, Graves è un genio e un sopraffino poeta: la sua inventiva e ispirazione sono davvero ricche. Il suo fine è quello di trovare dei fili conduttori che leghino assieme la tradizione ebraica con quella greca, con quella celtica e con una miriade di civiltà più antiche di cui abbiamo soltanto degli accenni e dei frammenti di testi. Insomma, mettersi alla lettura di questo volume è una bella sfida e si ha sempre l’impressione di non saperne abbastanza. Graves prende spunto da un poema medievale gallese, la “Battaglia degli alberi” in cui ogni albero ha un particolare significato e nasconde un particolare segreto celato dal druido-poeta che ha esteso il testo. Tutti i segreti hanno a che fare con una antica religione matriarcale celtica che il poeta ha occultato per farla sopravvivere alla censura della chiesa cattolica. La chiave di lettura è data da un linguaggio segreto dei segni chiamato Ogham nel quale ogni albero rappresenta un simbolo, un significato, un suono, una serie di storie mitologiche e così via. Molto complesso, torno a dire! E molto denso di rimandi ad altri testi, tradizioni, mitologie. Il rischio, durante la lettura è quello di perdersi. Nonostante le difficoltà, i percorsi labirintici che segue l’Autore, il materiale complesso e ricchissimo, e anche una prosa a tratti oscura, le sue conclusioni e l’unione dell’alfabeto degli alberi con il calendario annuale con le stazioni del sole e della luna è affascinante e suona giusto per una strutturazione psichica dello scorrere del tempo e convince come possibile (non sicuro: possibile!) metodo per creare significato nei tempi remoti della nostra evoluzione e fornisce spiegazioni valide e plausibili per gli antichi rituali legati al passare delle stagioni.
Il tema centrale del libro è, come in altre opere di Graves a cominciare da I Miti Greci, la decadenza di una società matriarcale primitiva, che venera una divinità femminile unica e trina: la Dea Bianca o Triplice Dea. Civiltà decaduta a causa dell’avvento di popoli guerrieri nomadi (achei, semiti, accadi, ecc.). E questa divinità femminile si trasforma, poco alla volta, nell’immagine primordiale della Musa (e a noi che ci chiamiamo La Voce delle Muse, questo piace assai!!) e nel suo linguaggio che si è distillato ed è passato dalla pietra, agli indovinelli per giungere nel luogo principe del mistero: la poesia. Alcune domande a cui troverete la risposta durante la lettura de La Dea Bianca: chi è e quanti nomi possiede la Dea? Perché il dio dell’Antico Testamento ha creato prima gli alberi e le erbe e solo dopo il sole, la luna e le stelle? Quale segreto è nascosto nel nodo gordiano? Quando arrivarono in Britannia 50 Danaidi e perché? Oltre a mille altri quesiti meno noti e legati alla tradizione nord-europea.
Un libro consigliato a lettori pazienti, che conoscono già o sono affascinati dalla mitologia (qualsiasi mitologia va bene: nel libro le trovate tutte!), e che sono alla ricerca di perle preziose che danno ispirazione all’immaginazione mitologica e poetica. Non portate la bussola, durante la lettura: lasciatevi guidare dalla mano di Graves in un universo ricco e labirintico. E non preoccupatevi se non capite tutto: penso che al mondo non esista persona che possa affermare di essere in chiaro alla fine della lettura! Ma vi posso garantire che sarete felici di averlo letto e tornerete di tanto in tanto a sfogliarlo. Si tratta del libro di un Autore che crede che la letteratura e la poesia siano prima di tutto MAGIA! E che il suono delle parole crei un significato e una realtà separata da quella che vediamo con gli occhi. BUONA LETTURA, BUON MITO! (Andreas Barella)
Comincio col dire che tra tutti i libri di Graves che ho letto (e che trovate recensiti qua sul sito, vedi sotto per il link) Belisario è il più lento e quello che presenta più resistenza alla lettura. Per cui, se non avete mai letto nulla di Graves NON ve lo consiglio come prima opera. Il periodo storico descritto, il VI° secolo dopo Cristo, e i luoghi, la Costantinopoli di Giustiniano, la frontiera persiana, la Libia e una desolata Italia che ormai è lontana dai fasti anche del romano impero d’occidente, non è delle più accattivanti. Dopo un centinaio di pagine in cui Graves cerca di introdurci nelle diatribe religiose del periodo storico, diatribe del tipo se la persona di Cristo fosse solo divina o assieme umana e divina, ecco che la storia comincia a divenire appassionante, ricca di descrizione di battaglie e di strategie militari e di personaggi affascinanti. Belisario è un generale di Giustiniano e Robert Graves ci narra la sua vita attingendo, da quel maestro che è, alle fonti storiche classiche: Livio, Tucidide, Erodoto, Senofonte e anche alla sua fantasia e alla sua arte narrativa. Tanto che, se non si sono lette le opere degli storici antichi è davvero impossibile capire cosa sia vero e cosa sia inventato. Ma poco importa, a dire la verità, questo è un romanzo storico dove storia e romanzo si mischiano affrescando una vita straordinaria senza lasciare lacune. Belisario è l’ultimo generale fedele all’impero romano (d’oriente). È un cristiano ortodosso ma ha un’ammirevole tolleranza per gli altri credi religiosi e per le altre “sette” cristiane. Soprattutto, però, Belisario è un genio nell’ambito della tecnica militare. Il libro narra dei suoi successi in Persia, a Cartagine e nella campagna d’Italia e lo fa dilungandosi nel descrivere il rapporto con i soldati, sia i propri che quelli nemici, e nel descrivere un codice d’onore che commuove per la sua linearità e coerenza.
La voce narrante del libro è quella di Eugenio, uno schiavo eunuco al servizio di Antonina, che all’inizio del volume è una cortigiana e prostituta amica di Teodora (anche lei prostituta, ma che diverrà la moglie di Giustiniano e quindi il vero potere occulto dell’impero romano d’oriente). Antonina diverrà la moglie di Belisario e lo seguirà in tutte le sue campagne militari. I successi militari di Belisario si intrecciano con gli intrighi di palazzo e con la descrizione di luoghi e di avvenimenti storici poco noti ai più: un affresco notevole di un periodo storico buio e decadente ma ricco di fascino. Senza voler svelare troppo della trama devo però mettervi sull’attenti: Belisario cadrà vittima delle gelosie degli altri generali e dell’imperatore stesso che preferisce contornarsi di adulatori incompetenti e traditori piuttosto che riconoscere il valore del suo più fedele generale. La fine del romanzo, vi confesso, mi ha riempito di rabbia e di frustrazione, anche se il personaggio di Belisario ne esce quasi beatificato e si trasforma in un monumento alla “povertà e alla pazienza” come scritto sulla ciotola per elemosine di cui Belisario entra in possesso.
La storia di Belisario è un balsamo di coerenza e di semplicità, sia nelle azioni che nei sentimenti, e il personaggio Belisario rimane proprio per questo sempre un pochino misterioso. Il generale che Graves ci consegna è un esempio di saldezza nella burrasca della vita e della politica e vi confesso che farò tesoro della sua pazienza e del suo modo di reagire alle avversità della vita. Una lettura consigliata per gli amanti del romanzo storico. (Andreas Barella)
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