Eracle aveva compiuto queste dieci Fatiche nello spazio di otto anni e un mese; ma Euristeo, che non riteneva valida la seconda e la quinta Fatica, gliene impose altre due. La undicesima Fatica fu di cogliere i frutti aurei di un melo, dono di nozze della Madre Terra a Era, e che la dea aveva tanto gradito da piantarlo nel proprio giardino. Questo giardino si trovava sulle pendici del monte Atlante, dove gli ansimanti cavalli del Sole terminavano la loro corsa e dove i greggi e le mandrie di Atlante vagavano liberamente sui pascoli che nessuno contendeva. Quando Era un giorno si accorse che le Esperidi, figlie di Atlante, cui essa aveva affidato il sacro albero, stavano cogliendone le mele, ordinò al sempre vigile drago Ladone di arrotolarsi attorno al tronco e di fare attenta guardia. Taluni dicono che Ladone era figlio di Tifone e di Echidna; oppure di Ceto e Porci; altri ancora, che egli era nato per partenogenesi dalla Madre Terra. Aveva cento teste e parlava con diverse lingue. È pure discusso se le Esperidi vivessero sul monte Atlante nella terra degli Iperborei o sul monte Atlante in Mauritania; in qualche luogo oltre il fiume Oceano o su due isole dinanzi al promontorio chiamato Corno Occidentale, che giace presso l’Esperia etiopica, alle frontiere dell’Africa. Benché le mele appartenessero a Era, Atlante, nella sua qualità di giardiniere, ne andava fiero, e Temi lo mise in guardia: «Un giorno, o Titano, il tuo albero sarà spogliato dalle mele d’oro da un figlio di Zeus». Atlante, che non era stato ancora punito con il terribile ordine di reggere il globo celeste sulle sue spalle, costruì solide mura attorno all’orto e scacciò tutti gli stranieri dalla sua terra; può darsi che fosse appunto Atlante colui che mise Ladone a guardia del melo. Eracle, che non sapeva quale direzione prendere per giungere al giardino delle Esperidi, camminò attraverso la Illiria fino al fiume Po, patria del profetico dio del mare Nereo. Strada facendo guadò l’Echedoro, un piccolo fiume macedone dove Cicno, figlio di Are e di Pirene, lo sfidò a duello. Are fece da secondo a Cicno e incitò i duellanti, ma Zeus scagliò una folgore tra di loro e interruppe il combattimento. Quando Eracle finalmente giunse al Po, le Ninfe del fiume, figlie di Zeus e di Temi, lo condussero presso Nereo addormentato. Eracle agguantò il canuto dio del Mare e senza lasciarselo sfuggire di mano nonostante le sue continue proteiche metamorfosi, lo costrinse a rivelargli il modo per impossessarsi delle mele d’oro. Altri invece dicono che Eracle ottenne da Prometeo le informazioni che desiderava. Nereo aveva consigliato a Eracle di non cogliere le mele con le proprie mani, ma di servirsi di Atlante, alleggerendolo nel frattempo dell’enorme peso che gravava sulle sue spalle. Appena giunto al giardino delle Esperidi, Eracle chiese dunque ad Atlante di fargli questo favore. Atlante avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di avere un’ora di respiro, ma Ladone gli incuteva paura; allora Eracle uccise il drago scoccando una freccia al di sopra del muro del giardino. Poi chinò le spalle per accogliere il peso del globo celeste; Atlante si allontanò e ritornò poco dopo con tre mele colte dalle sue figlie. Il Titano assaporava la gioia della recuperata libertà. «Porterò io stesso le mele a Euristeo», disse, «se tu reggerai il cielo sulle tue spalle per due o tre mesi ancora.» Eracle finse di acconsentire, ma poiché Nereo l’aveva avvertito di non accettare una simile proposta, pregò Atlante di sostenere il globo per pochi minuti soltanto, affinché egli potesse fasciarsi il capo. Atlante, tratto in inganno, posò a terra le mele e riprese il suo carico; subito Eracle raccattò i frutti e si allontanò con un ironico saluto. Alcuni mesi dopo Eracle portò le mele a Euristeo che gliele restituì; l’eroe le diede allora ad Atena che a sua volta le restituì alle Ninfe, poiché era ingiusto che i beni di Era passassero nelle sue mani. Tormentato dalla sete al termine di questa sua Fatica, Eracle batté il piede al suolo e ne fece scaturire un fiume, che in seguito salvò le vite degli Argonauti quando si trovarono stanchi e assetati nel bel mezzo del deserto libico. Frattanto Era, piangendo sulla sorte di Ladone, ne pose l’immagine fra le stelle come costellazione del Serpente.
Eracle non ritornò direttamente a Micene. Dapprima attraversò la Libia dove re Anteo, figlio di Poseidone e della Madre Terra, costringeva gli stranieri a lottare con lui finché fossero esausti, e poi li uccideva; infatti non soltanto egli era atleta forte e abile, ma ogni qual volta toccava terra riprendeva forza. Conservava i crani delle sue vittime per farne il tetto del tempio di Posidone. Non si sa se Anteo fu sfidato per primo da Eracle, che era ben deciso a por fine a questa barbara usanza, oppure se lo sfidò. Anteo comunque non era un avversario facile da battere; viveva in una grotta ai piedi di un picco roccioso, dove si nutriva di carne di leone e dormiva sulla nuda terra per conservare e aumentare la sua forza colossale. La Madre Terra, non ancora sterile dopo il parto dei Giganti, concepì Anteo in un antro libico ed era fiera di lui più di quanto non lo fosse dei suoi mostruosi figli maggiori: Tifone, Tizio e Briareo. Le cose si sarebbero messe male per gli Olimpi se egli si fosse schierato contro di loro nella Pianura Flegrea. Preparandosi alla lotta, ambedue i contendenti si liberarono delle loro pelli di leone, ma mentre Eracle si ungeva il corpo con olio alla maniera olimpica, Anteo si massaggiò le membra con sabbia calda, per timore che il solo contatto delle piante dei piedi con la terra non fosse sufficiente a rinvigorirlo. Eracle aveva pensato di risparmiare le proprie forze per atterrare Anteo, ma non appena ebbe steso il Gigante al suolo, con grande stupore vide i suoi muscoli enfiarsi e il sangue scorrergli benefico nelle membra, poiché la Madre Terra gli ridava forza. I contendenti si avvinghiarono di nuovo l’uno all’altro, e di nuovo Anteo si gettò a terra, questa volta di sua spontanea volontà, senza aspettare che Eracle lo sopraffacesse. Al che Eracle, rendendosi conto di ciò che stava accadendo, sollevò il Gigante alto tra le braccia e gli strizzò le costole, sordo ai profondi gemiti della Madre Terra, finché Anteo morì. Alcuni dicono che questa lotta si svolse a Lisso, una cittadina della Mauritania a circa cinquanta miglia da Tangeri, presso il mare, dove ancora si mostra una collinetta detta la tomba di Anteo. Se si scavano alcune palate di terra da questa collina, così credono gli indigeni, subito comincia a piovere e continuerà a piovere finché non si lascerà ricadere la terra al suo posto. C’è anche chi dice che il giardino delle Esperidi si trovasse su un’isola vicina, dove sorge un altare di Eracle; ma salvo pochi alberi d’olivo, non è rimasta traccia dell’antico frutteto. Quando Sertorio si impadronì di Tangeri, aprì la tomba di Anteo per vedere se il suo scheletro era davvero gigantesco come la leggenda lo descriveva. Con sua grande sorpresa trovò che misurava sessanta cubiti: subito richiuse la tomba e offrì ad Anteo sacrifici eroici. In quella regione si dice inoltre che Anteo fondò Tangeri, un tempo chiamata Tingis; oppure che Soface, figlio di Eracle e di Tinga, vedova di Anteo, regnò sulla città e le diede il nome di sua madre. Diodoro, figlio di Soface, conquistò molte nazioni africane con un esercito greco reclutato tra i coloni Micenei che Eracle aveva guidati laggiù.9 I Mauritani sono di origine orientale e, come i Farusi, discendono da certi persiani che accompagnarono Eracle in Africa; ma altri sostengono che essi discendono da quei Cananei che Giosuè l’israelita scacciò dalla loro terra.
In seguito Eracle si recò dall’oracolo di Ammone, dove chiese un colloquio con il padre suo Zeus. Ma Zeus era restio a mostrarsi e poiché Eracle insisteva, sventrò un ariete, ne indossò il vello e diede a Eracle certe istruzioni. Ecco per quale ragione nelle immagini degli Egiziani Zeus Ammone appare con la testa di ariete. I Tebani sacrificano un ariete una volta all’anno, al termine della festa di Zeus, e poi ricoprono col suo vello il simulacro del dio. Dopo di i presenti si battono il petto in segno di lutto per la vittima e la seppelliscono in una tomba sacra. Eracle in seguito si diresse verso sud e fondò la città dalle cento porte che chiamò Tebe in ricordo della sua città natale; ma altri dicono che Tebe era già stata fondata da Osiride. In quel tempo re dell’Egitto era Busiride, fratello di Anteo, figlio di Posidone e di Lisianassa, una figlia di Epafo o, come altri dicono, di Posidone e di Anippe, una figlia del fiume Nilo. Ora il regno di Busiride era già stato colpito da siccità e carestia per un periodo di otto o nove anni, ed egli aveva interrogato gli àuguri greci per averne consiglio. Suo nipote, un famoso veggente cipriota chiamato Frasio o Trasio o Tasio, figlio di Pigmalione, dichiarò che la carestia sarebbe cessata se ogni anno uno straniero fosse stato sacrificato in onore di Zeus. Busiride cominciò col sacrificare Frasio stesso e poi sacrificò altri ospiti occasionali fino all’arrivo di Eracle, il quale lasciò che il sacerdote lo trascinasse presso l’altare. Gli cinsero il capo con una benda e Busiride, invocando gli dei, si preparava ad alzare l’ascia sacrificale, quando Eracle spezzò le corde che lo legavanoe massacrò Busiride, Anfidamante, figlio di Busiride, e tutti i sacerdoti che assistevano al sacrificio. Poi Eracle attraversò l’Asia e sbarcò a Termidre, il porto di Lindo di Rodi, dove liberò un bue aggiogato al carro di un contadino, lo sacrificò e banchettò con la sua carne, mentre il contadino rifugiatosi su un monte lo malediceva da lontano. Ecco perché i Lindi ancor oggi mormorano maledizioni quando sacrificano a Eracle.
Infine raggiunse le montagne del Caucaso, dove Prometeo era incatenato da trent’anni, oppure mille o trentamila anni, mentre ogni giorno un avvoltoio, nato da Tifone e da Echidna, gli divorava il fegato. Zeus si era ormai pentito di avergli inflitto quella punizione: Prometeo infatti l’aveva generosamente avvertito di non sposare Teti, perché avrebbe potuto generare un dio più potente di lui stesso; e ora, quando Eracle implorò il perdono da Prometeo, glielo concesse senza esitare. Tuttavia, avendo condannato Prometeo a un tormento eterno. Zeus stabilì che, a perenne ricordo della sua prigionia, egli portasse un anello fatto col ferro delle sue catene, dove fosse incastonata una pietra del Caucaso, e quella fu la prima pietra incastonata in un anello. Ma era scritto che le sofferenze di Prometeo dovessero durare finché un immortale accettasse di scendere volontariamente al Tartaro in vece sua: Eracle allora rammentò a Zeus Chirone, che desiderava rinunciare al dono dell’immortalità dal giorno in cui si era aperta nel suo ginocchio una ferita incurabile. Superato così l’ultimo ostacolo. Eracle, invocando Apollo Cacciatore, colpì al cuore l’avvoltoio con una freccia e liberò Prometeo. L’umanità cominciò allora a portare anelli in onore di Prometeo, e anche corone; poiché, appena liberato. Prometeo ricevette l’ordine di cingersi il capo con una corona di salice ed Eracle, per associarsi a lui, ne cinse una di oleastro. Zeus onnipotente pose una freccia fra le stelle come costellazione della Sagitta; e ancor oggi gli abitanti delle montagne caucasiche considerano l’avvoltoio come nemico dell’umanità. Bruciano i suoi nidi con dardi infuocati e gli tendono trappole per vendicare le sofferenze di Prometeo.
ll mito di Eracle, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
Decima Fatica di Eracle fu impossessarsi del bestiame di Gerione in Erizia, un’isola presso il fiume Oceano, senza richiesta né pagamento. Gerione, figlio di Crisaore e di Callirroe, una figlia del Titano Oceano, era re di Tartesso in Spagna e reputato il più forte fra gli uomini viventi. Era nato infatti con tre teste, sei braccia e tre busti che si riunivano alla vita. La mandria di Gerione, che comprendeva bestie di pelo fulvo e di straordinaria bellezza, era sorvegliata dal mandriano Eurizione, figlio di Are, e da Ortro, cane a due teste, un tempo di proprietà di Atlante e nato da Tifone e da Echidna. Nel corso del suo viaggio attraverso l’Europa, Eracle uccise molte belve feroci e, giunto infine a Tartesso, eresse un paio di colonne, l’una di fronte all’altra, sulle due rive dello stretto: una in Europa, l’altra in Africa. Alcuni dicono che i due continenti erano dapprima uniti e che Eracle li separò aprendo un canale; altri invece dicono che egli rimpicciolì il canale già esistente per impedire il passaggio di balene o altri mostri marini. Elio fece splendere i suoi raggi su Eracle, e l’eroe, che non riusciva a lavorare con tale calura, incoccò una freccia nell’arco e la scagliò contro il dio. «Questo è troppo», gridò Elio furibondo. Eracle si scusò per quello scatto d’ira e subito allentò l’arco. Per non essere da meno in fatto di cortesia. Elio imprestò a Eracle il suo nappo d’oro a forma di giglio d’acqua, perché in esso navigasse fino a Erizia. Ma il Titano Oceano, per mettere Eracle alla prova, fece beccheggiare pericolosamente il nappo sui flutti. Eracle tese di nuovo l’arco e indusse così Oceano, spaventato, a placare la tempesta. Un’altra versione dice che Eracle navigò fino a Erizia in un’urna di bronzo, servendosi della sua pelle di leone a mo’ di vela. Al suo arrivo nell’isola. Eracle salì sul monte Abante. Il cane Ortro si precipitò su di lui abbaiando, ma Eracle lo abbatté con un colpo della sua clava; ed Eurizione, il mandriano di Gerione, correndo in aiuto di Ortro, morì allo stesso modo. Eracle allora cominciò a portar via il bestiame. Menete, che faceva pascolare la mandria di Ade lì nei pressi, benché Eracle non avesse toccato le sue bestie, andò ad avvertire Gerione. Sfidato a battersi. Eracle corse finché si trovò di fianco a Gerione e gli trapassò tutti e tre i corpi con una sola freccia; ma altri dicono che rimase fermo e scoccò tre frecce in rapida successione. Era si affrettò allora in aiuto di Gerione; ma Eracle la ferì con una freccia alla mammella destra e la dea fuggì. Così Eracle si impadronì della mandria, senza richiederla né pagarla, e si imbarcò sul nappo d’oro, che restituì a Elio con molti ringraziamenti non appena giunse sano e salvo a Tartesso. Dal sangue di Gerione germogliò un albero che ogni anno, quando le Pleiadi si alzano in ciclo, dà frutti senza nocciolo simili alle ciliegie. Gerione tuttavia non morì senza discendenti: sua figlia Erizia ebbe da Ermete un figlio, Norace, che guidò un gruppo di coloni in Sardegna, ancor prima di Ilio, e colà fondò Nora, la più antica città dell’isola. Non si sa con certezza dove fosse situata Erizia, detta anche Eritrea o Eritria. Alcuni la descrivono come un’isola presso il fiume Oceano, altri la situano al largo della costa della Lusitania. Altri ancora la identificano con l’isola del Leone, oppure con un’isoletta vicina, sulla quale sorse l’antica città di Cadice e dove verdeggiavano pascoli così ricchi che il latte era tutta panna e bisognava salassare il bestiame ogni cinquanta giorni perché non fosse soffocato da eccesso di sangue. L’isoletta, sacra a Era, è chiamata o Erizia o Afrodisia. Leone, l’isola dove si trova l’attuale città di Cadice, era un tempo chiamata Cotinusa per i suoi oliveti, ma i Fenici le diedero il nuovo nome di Gadira (Cadice) ossia «città cintata». Sul promontorio occidentale sorgono il tempio di Crono e la città di Cadice; a oriente un tempio di Eracle, celebre per una sorgente che sgorga copiosa quando la marea si abbassa e pare inaridirsi quando la marea si alza. E Gerione giace sepolto nella città, pure famosa per un albero misterioso che prende via via forme diverse.
Secondo un’altra versione la mandria di Gerione non si trovava affatto su un’isola, ma sulle pendici dei monti nella parte più remota della Spagna, di fronte all’Oceano; e «Gerione» era l’appellativo di re Crisaore, che governava su tutto il territorio e aveva tre figli forti e coraggiosi i quali lo aiutarono a difendere il regno guidando ciascuno un esercito reclutato tra le genti più bellicose. Per combattere contro costoro. Eracle organizzò una grande spedizione in Creta, patria di suo padre Zeus. Prima di partire ricevette splendidi omaggi dai Cretesi e in cambio liberò la loro isola da orsi, lupi, serpenti e altri animali nocivi, e Creta non ne fu mai più infestata. Dapprima Eracle veleggiò verso la Libia, dove uccise Anteo, cacciò altre belve dal deserto e rese la terra fertile come mai lo era stata prima. Poi si recò in Egitto, dove uccise Busiride e poi marciò verso occidente, attraverso il Nordafrica, annientando le Gorgoni e le Amazzoni libiche; fondò la città di Ecatompilo, ora Capsa, nella Numidia meridionale e raggiunse l’Oceano presso Cadice. Colà innalzò
le colonne ai due lati dello stretto e, trasportata la sua armata in Spagna, si accorse che i tre figli di Crisaore, con i loro tre eserciti, erano accampati a una certa distanza gli uni dagli altri. Li affrontò separatamente e li vinse, uccidendo i capi, e infine si portò via la mandria di Gerione, affidando il governo della Spagna ai più degni degli indigeni superstiti.
Le Colonne di Eracle sono di solito identificate con il monte Calpe in Europa e Abila o Abilice in Africa. Per altri tali colonne sono due isolette presso Cadice, la più grande delle quali è sacra a Era. Gli Spagnoli e i Libici tuttavia prendono alla lettera il termine «colonne» e ritengono che si tratti delle colonne erette a Cadice in onore di Eracle, alte otto cubiti e ciascuna con inciso sopra quanto costò. Colà i marinai che sono tornati sani e salvi da un viaggio offrono sacrifici. Secondo quanto raccontano gli stessi abitanti di Cadice, il re di Tiro ricevette da un oracolo l’ordine di fondare una colonia presso le Colonne di Eracle e a tale scopo fece partire da Tiro tre spedizioni. La prima, pensando che l’oracolo alludesse ad Abila e a Calpe, sbarcò nello stretto, dove ora sorge la città di Exitani; la seconda veleggiò per circa duecento miglia oltre lo stretto, fino a un’isola sacra a Eracle di fronte alla città spagnola di Onoba; ma ambedue furono scoraggiate da presagi sfavorevoli mentre offrivano sacrifici, e tornarono in patria. La terza spedizione raggiunse Cadice dove innalzò un tempio a Eracle sul promontorio orientale e fondò la città di Cadice sul promontorio occidentale. Altri tuttavia negano che fosse Eracle a innalzare quelle colonne e affermano che Abila e Calpe furono dapprima chiamate «Colonne di Crono» e in seguito «Colonne di Briareo», un gigante il cui potere si estese fin laggiù; ma che, svanito il ricordo di Briareo (chiamato anche Egeone), furono chiamate con nuovo nome in onore di Eracle, forse perché la città di Tartesso, che sorge a cinque miglia all’incirca da Calpe, era stata fondata dall’eroe ed era anche nota come Eraclea. Ancora vi si vedono resti di grandi mura e di cantieri. Ma non dobbiamo dimenticare che in origine Eracle fu anche chiamato Briareo. Di solito si ritiene che le Colonne di Eracle fossero due; ma altri parlano di tre o di quattro. Pare che ci siano delle cosiddette Colonne di Eracle anche sulla costa settentrionale della Germania, nel Mar Nero, nell’estremità occidentale della Gallia e in India. Un tempio di Eracle sorge sul Sacro Promontorio in Lusitania, il punto più occidentale del mondo. I visitatori non possono entrare nel recinto del tempio durante la notte, perché a quell’ora vi soggiornano gli dèi. Forse, quando Eracle innalzò le colonne per segnare il limite delle acque sicuramente navigabili, questo fu il luogo che elesse. Ancora si discute sui mezzi che Eracle adottò per trasportare il bestiame a Micene. Alcuni dicono che egli riunì temporaneamente Abila con Calpe e passando su quel ponte entrò in Libia; ma secondo una versione più probabile egli attraversò il territorio dove ora sorge Abdera, una colonia fenicia, e percorse la Spagna, dove alcuni dei suoi seguaci si fermarono per fondare colonie. Nei Pirenei egli corteggiò e poi seppellì Pirene, principessa dei Bebrici, dalla quale la catena di montagne prende il nome. Si dice che laggiù sorga il Danubio, presso una città chiamata pure Pirene in onore della principessa. Eracle visitò poi la Gallia, dove abolì la barbara usanza di uccidere i forestieri, e si guadagnò tante simpatie con le sue nobili imprese che fu autorizzato a fondare una grande città cui diede il nome di Alesia, ossia «Errante», in ricordo dei suoi lunghi viaggi. I Galli ancor oggi considerano Alesia come il cuore e la città madre di tutta la loro terra (fu conquistata sotto il regno di Caligola) e si vantano di discendere dalla unione di Eracle con una principessa di eccezionale statura chiamata Galata, che lo elesse suo amante e da lui generò una razza di guerrieri. Mentre Eracle percorreva la Liguria con la mandria di Gerione, due figli di Poseidone, chiamati Ialebione e Dercino, cercarono di rubargli il bestiame e furono ambedue uccisi, A un certo punto della battaglia combattuta contro forze liguri nemiche. Eracle si trovò sprovvisto di frecce e si inginocchiò piangente, ferito ed esausto. Poiché il terreno lì attorno era tutto di soffice creta, non trovò sassi da lanciare contro il nemico (Ligie, fratello di Ialebione, era capo dei Liguri), ma infine Zeus, commosso dalle lacrime dell’eroe, coprì il cielo con una nube dalla quale piovvero pietre; e così i Liguri furono messi in fuga. Zeus pose tra le stelle l’immagine di Eracle che combatte contro i Liguri, nella costellazione detta Engonaside. Un altro ricordo di tale battaglia rimase sulla terra, e cioè la larga pianura circolare che si estende tra Marsiglia e le bocche del fiume Rodano, a circa quindici miglia dal mare, chiamata «Pianura Sassosa» perché è cosparsa di pietre grandi quanto il pugno di un uomo. Vi si trovano anche sorgenti salate. Durante la traversata delle Alpi liguri Eracle tagliò una strada dove potessero comodamente passare il suo esercito e le sue salmerie; disperse anche le bande di briganti che infestavano il passo e poi entrò nell’attuale Gallia Cisalpina e in Etruria. Soltanto dopo aver vagato a lungo in Italia, ed esser giunto in Sicilia, Eracle si accorse di avere sbagliato strada. I Romani dicono che, giunto sulle rive dell’Albula, in seguito chiamato Tevere, Eracle fu accolto da re Evandro, un esule dall’Arcadia. Alla sera attraversò il fiume a nuoto, spingendo dinanzi a sé la mandria, e si sdraiò sulla riva erbosa per riposare. In una profonda grotta, lì nei pressi, viveva un enorme e orribile pastore con tre teste chiamato Caco, figlio di Efesto e di Medusa, che era il terrore della foresta dell’Aventino e sputava fiamme da ciascuna delle sue tre bocche. Crani e membra umane erano inchiodati alle travi di sostegno della grotta, e il suolo biancheggiava delle ossa delle sue vittime. Mentre Eracle dormiva. Caco rubò due dei più bei tori della mandria e quattro manzi, che trascinò nella sua grotta tirandoli per la coda. Alle prime luci dell’alba Eracle si destò e subito si accorse che alcuni capi di bestiame erano spariti. Dopo averli cercati invano, fu costretto a riprendere il cammino col resto della mandria, ma ecco che uno dei manzi rubati muggì lamentosamente. Eracle, seguendo quel muggito, giunse alla grotta di Caco, ma la trovò sbarrata da un masso che dieci coppie di buoi avrebbero a mala pena smosso. Ciò nonostante Eracle lo spostò come se si trattasse di un ciottolo e, senza arretrare dinanzi al fumo e alle fiamme che Caco stava ora vomitando, lo agguantò e gli maciullò il viso. Con l’aiuto di re Evandro, Eracle poi innalzò un altare a Zeus, cui sacrificò uno dei tori ricuperati, e in seguito organizzò anche il proprio culto, i Romani tuttavia raccontano questa storia in modo da rivendicarne la gloria: secondo loro non fu Eracle che uccise Caco e offrì sacrifici a Zeus, ma un mandriano gigantesco chiamato Garano o Recarano, alleato di Eracle. Re Evandro governava più per i suoi meriti personali che per la sua potenza: era particolarmente stimata la sua conoscenza delle lettere che gli era stata infusa dalla madre profetessa, l’arcade Ninfa Nicostrata o Temi; essa era figlia del fiume Ladone e, pur essendo già maritata a Echeno, generò Evandro da Ermete. Nicostrata indusse Evandro ad assassinare il suo presunto padre, e, quando gli Arcadi li bandirono ambedue, venne con lui in Italia, scortata da un gruppo di Pelasgi. Colà, circa sessant’anni prima della guerra di Troia, fondarono la piccola città di Pallanzio, su una collina presso il fiume Tevere, più tardi chiamata Monte Palatino. Quel luogo era stato scelto da Nicostrata, e ben presto non vi fu in Italia un re più potente di Evandro. Nicostrata, ora chiamata Carmenta, adattò l’alfabeto pelasgico di tredici consonanti, che Cadmo aveva portato dall’Egitto, all’alfabeto latino di quindici consonanti. Ma altri affermano che fu Eracle a insegnare al popolo di Evandro l’uso delle lettere, e per questo egli viene onorato sullo stesso altare delle Muse. Secondo i Romani, Eracle liberò re Evandro dal peso di un tributo che doveva pagare agli Etruschi; uccise re Fauno, che usava sacrificare gli stranieri sull’altare di suo padre Ermete; e generò Latino, l’antenato dei Latini, dalla vedova di Fauno, oppure dalla di lui figlia. Ma i Greci sostengono che Latino era figlio di Circe e di Odisseo. Eracle, in ogni caso, soppresse l’annuale sacrificio di due uomini che erano gettati nel Tevere come offerta a Crono, e costrinse i Romani a sostituirli con due fantocci. Ancor oggi, nel mese di maggio, quando la luna è piena, la prima delle vergini Vestali, ritta sul ligneo Pons Sublicius, getta nella bionda corrente del fiume i simulacri di due vegliardi chiamati «Argivi», dipinti in bianco e fatti con giunchi intrecciati. Si crede inoltre che Eracle abbia fondato Pompei ed Ercolano; che abbia sconfitto i giganti dei Campi Flegrei presso Cuma e che abbia costruito una diga lunga un miglio attraverso il golfo Lucrino, ora chiamata strada Eraclea; su di essa fece passare la mandria di Gerione.
Si dice inoltre che Eracle si sdraiò per riposare al confine tra il territorio di Reggio e quello di Locri Epizefiri e che, disturbato dal canto delle cicale, supplicò gli dei di farle tacere. La sua preghiera fu subito esaudita e da quel giorno non si sentirono più le cicale lungo la riva reggina del fiume Alece, mentre ancora cantano allegramente lungo la riva locrese. La sera stessa un toro si staccò dal branco e, tuffatesi nel mare, nuotò sino alla Sicilia. Eracle, inseguendo il toro, lo trovò tra il bestiame di Erice, re degli Elimi, figlio di Afrodite e di Bute. Erice, che era ottimo pugile e lottatore, lo sfidò a un combattimento in cinque riprese. Eracle accettò la sfida, alla condizione che Erice avrebbe messo in palio il suo regno contro il toro fuggito dalla mandria di Gerione, e vinse le prime quattro riprese; infine sollevò Erice alto sulle braccia, lo scaraventò a terra e lo uccise, e così insegnò ai Siciliani che chi è nato da una dea non è sempre immortale.
Eracle vinse dunque il regno di Erice e lo lasciò agli abitanti del luogo, perché ne godessero finché uno dei suoi discendenti non si presentasse per rivendicarlo. Altri dicono che Erice (il luogo dove egli lottò con Eracle ancora si vede) aveva una figlia chiamata Psofide che generò a Eracle due figli: Echefrone e Promaco. Condotti sull’Erimanto, essi gli diedero il nuovo nome di Psofide in onore della madre, e colà innalzarono il tempio ad Afrodite Ericina, di cui oggi rimangono soltanto le rovine. I santuari eroici di Echefrone e Promaco hanno da lungo tempo perduto la loro importanza, e Psofide è di solito considerata figlia di Xanto, nipote di Arcade. Proseguendo il suo viaggio attraverso la Sicilia, Eracle giunse al luogo dove ora sorge la città di Siracusa; colà offrì sacrifici e istituì una festa annuale presso la sacra gola del Ciane, dove emerse Ade per trascinare Core negli Inferi. Per coloro che lo onorano nella piana di Lentini, Eracle lasciò imperituri segni della sua visita. Presso la città di Agirlo, le impronte degli zoccoli del suo bestiame si impressero su una strada lastricata come se la pietra fosse cera; e considerando quel prodigio come una promessa di immortalità, Eraòle accettò dagli indigeni gli onori divini che sino a quel giorno aveva costantemente rifiutati. Poi, in segno di riconoscenza per tanti omaggi, scavò un lago di quattro stadi di circonferenza all’esterno delle mura, e innalzò i santuari di Iolao e di Gerione. Ritornando verso l’Italia per seguire un’altra strada che lo conducesse in Grecia, Eracle guidò la mandria lungo la costa orientale fino al promontorio Lacinie. Il re di quel territorio, Lacinie, si vantò in seguito di aver messo in fuga Eracle. Ma in verità egli si limitò a innalzare un tempio ad Era e a quella vista Eracle partì disgustato. Sei miglia più oltre uccise incidentalmente un certo Crotone, lo seppellì con tutti gli onori e profetizzò che, in tempi futuri, lì sarebbe sorta una grande città che avrebbe avuto il nome dell’ucciso. La profezia di Eracle si avverò dopo la sua divinizzazione: egli apparve in sogno a uno dei suoi discendenti, l’argivo Miscelo, minacciandolo di terribili punizioni se non avesse guidato un gruppo di coloni in Sicilia per fondarvi una città; e quando gli Argivi erano sul punto di condannare a morte Miscelo per aver contravvenuto alla loro legge contro l’emigrazione. Eracle miracolosamente tramutò tutti i sassolini neri del voto in sassolini bianchi. Eracle allora propose di guidare la mandria di Gerione attraverso l’Istria fino all’Epiro e di là nel Peloponneso passando per l’istmo. Ma quando fu sulle rive del golfo Adriatico, Era mandò un tafano che fece impazzire la mandria, spingendola nella Tracia e nel deserto scitico. Eracle si lanciò all’inseguimento e in una fredda notte tempestosa si avvolse nella pelle del leone e cadde addormentato sulla pendice di una collina. Quando si destò, vide che le cavalle del suo cocchio, che egli aveva lasciate libere di pascolare, erano sparite anch’esse. Eracle vagò in lungo e in largo alla ricerca delle cavalle finché raggiunse la boscosa regione di Ilea dove uno strano essere, metà donna e metà serpente, gli lanciò un richiamo dalla sua grotta. Essa si era impadronita delle cavalle e si disse disposta a restituirle se Eracle fosse divenuto il suo amante. Eracle acconsenti, sebbene con una certa riluttanza e la baciò tre volte. Al che la donna con la coda di serpente lo abbracciò con passione e quando, finalmente, egli fu libero di andarsene, gli chiese: «Che ne farò dei tre figli che ora porto nel mio seno? Quando saranno cresciuti debbo tenerli in questa terra dove io sono padrona, oppure mandarli da tè?» «Quando saranno cresciuti fai bene attenzione», rispose Eracle, «e se uno di essi tenderà l’arco così, come ora lo tendo io, e si cingerà i fianchi con questa cintura, così come ora io me ne cingo, eleggilo re di questo paese.» Dicendo tali parole le diede uno dei suoi due archi e la sua cintura che aveva un nappo d’oro appeso alla fibbia; poi proseguì il suo cammino. La donna ebbe tre gemelli che chiamò Agatirso, Gelone e Scita. I due primi si rivelarono impari al compito assegnato dal loro padre e la donna-serpente li scacciò; ma Scita riuscì in ambedue le prove e gli fu concesso di rimanere. Egli divenne così il capostipite di tutti i re sciti che da quel giorno hanno un nappo d’oro appeso alla cintura. Altri invece dicono che Zeus e non Eracle si giacque con la donna-serpente e che, quando i tre figli generati da lei furono in età di governare il paese, 1asciò cadere dal cielo quattro doni d’oro; un aratro, un giogo, un’ascia e una coppa. Agatirso corse per il primo a raccogliergli, ma appena si fu avvicinato gli oggetti presero fuoco e gli bruciarono le mani. La stessa sorte toccò a Gelone. Ma quando Scita si fece avanti, subito il fuoco si placò; egli si portò a casa i quattro doni e i suoi fratelli acconsentirono a cedergli il trono. Eracle, ritrovate le sue cavalle e gran parte della mandria dispersa, guadò il fiume Strimone gettandovi dentro dei massi a mo’ di diga, e non incappò in altre avventure finché il gigantesco mandriano Alcioneo, che si era impossessato dell’istmo di Corinto, fece rotolare un pezzo di roccia sull’esercito di nuovo riunitesi al seguito di Eracle, sfasciando dodici cocchi e uccidendo un numero doppio di uomini. Egli era quell’Alcioneo che rubò due volte i sacri bovini di Elio, da Erizia e dalla cittadella di Corinto. Scagliata la prima roccia ne afferrò un’altra e la scagliò contro Eracle che la rimandò indietro con un colpo della sua clava e uccise il Gigante; quella roccia ancora si vede sull’istmo.
ll mito di Eracle, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
Nona Fatica di Eracle fu di portare ad Admeta, la figlia di Euristeo, l’aurea cintura di Are usata da Ippolita, regina delle Amazzoni. Partito su una nave o, altri dicono, con una flotta di nove navi, in compagnia di volontari, fra i quali erano Iolao, Telamone di Egina, Peleo di Iolco e forse anche Teseo di Atene, Eracle salpò per il fiume Termodonte. Le Amazzoni erano figlie di Are e della Naiade Armonia, nate nelle segrete valli della frigia Acmonia; ma altri dicono che loro madre fu Afrodite, oppure Otrera, figlia di Are. Dapprima vissero lungo le rive del fiume Amazzonia, ora chiamato Tanai dal nome del figlio dell’Amazzone Lisippa che offese Afrodite col suo disprezzo per il matrimonio e il suo amore per la guerra. Smaniosa di vendicarsi, Afrodite fece sì che Tanai si innamorasse di sua madre; ma, piuttosto che cedere a quell’incestuosa passione, egli si gettò nel fiume e annegò. Per sfuggire alla sua ombra lamentosa, Lisippa allora guidò le sue figlie lungo le rive del Mar Nero, fino alla pianura bagnata dal Termodonte che nasce dagli altissimi monti Amazzoni. Colà esse si divisero in tre tribù e ogni tribù fondò una città. Allora come oggi, le Amazzoni ammettevano soltanto la discendenza matrilineare, e Lisippa stabilì che agli uomini toccasse di sbrigare le faccende domestiche, mentre le donne combattevano e governavano. Venivano perciò fratturate le gambe e le braccia dei bambini perché non fossero poi in grado di viaggiare o battersi in guerra. Queste donne anormali, che gli Sciti chiamano Eorpata, erano guerriere stupende e per prime usarono la cavalleria. Avevano archi di bronzo e piccoli scudi a forma di mezzaluna; i loro elmi, le loro vesti e le loro cinture erano fatti con le pelli di animali feroci. Lisippa, prima di morire in battaglia, fondò la grande città di Temiscira e sconfisse tutte le tribù nemiche fino al fiume Tanai. Con il bottino delle sue vittorie innalzò templi ad Artemide Tauropolo, di cui diffuse il culto. Le sue discendenti estesero a occidente l’impero delle Amazzoni, oltre il fiume Tanai, fino alla Tracia, e più a sud, oltre il fiume Termodonte, fino alla Frigia. Tre famose regine delle Amazzoni, Marpesia, Lampade e Ippo, si impadronirono di gran parte dell’Asia Minore e della Siria e fondarono le città di Efeso, Smirne, Cirene e Mirina. Altre città fondate dalle Amazzoni sono Tiba e Sinope. A Efeso innalzarono un simulacro ad Artemide sotto un faggio e Ippo le offrì sacrifici; poi le sue seguaci eseguirono la danza degli scudi e un’altra danza tutte in cerchio, agitandosi e battendo il suolo coi piedi all’unisono, al suono di zufoli, poiché Atena non aveva ancora inventato il flauto. Il tempio di Artemide Efesia, costruito poi attorno a questo simulacro e di una magnificenza tale che non può esser eguagliata nemmeno da quella del tempio apollineo a Delfi, è considerato una delle sette meraviglie del mondo; lo circondano due rivi, ambedue chiamati Seleno e che scorrono in opposte direzioni. Fu nel corso di quella spedizione che le Amazzoni invasero la terra di Troia, quando Priamo era ancora bambino. Ma mentre una parte dell’esercito delle Amazzoni ritornava in patria con il ricco bottino, le truppe rimaste per consolidare il dominio sull’Asia Minore furono sopraffatte da alcune tribù barbare e perdettero la loro regina Marpesia.
Al tempo in cui Eracle visitò le Amazzoni, esse erano tutte ritornate sulle rive del fiume Termodonte e le loro città erano governate da Ippolita, Antiope e Melanippa. Nel corso del viaggio Eracle si fermò all’isola di Paro, famosa per il suo marmo, che il re Radamanto aveva lasciato in eredità a un certo Alceo, figlio di Androgeo; ma vi si erano stabiliti anche quattro dei figli di Minosse, Eurimedonte, Crise, Nefalione e Filolao. Un paio degli uomini di Eracle, scesi a terra per far provvista d’acqua, furono assassinati da uno dei figli di Minosse e l’eroe allora, furibondo, li uccise tutti e quattro e minacciò i Pari con tanta violenza che essi proposero di scegliersi nell’isola due uomini che lo servissero come schiavi, in cambio dei due marinai periti. Soddisfatto da quella proposta, Eracle scelse re Alceo e suo fratello Stenelo e li prese a bordo della sua nave. Poi navigò attraverso l’Ellesponto e il Bosforo fino a Mariandine nella Misia, dove fu ospitato dal re Lieo di Paflagonia, figlio di Dascilo e nipote di Tantalo. In cambio diede il suo appoggio a Lieo nella guerra contro
i Bebrici e uccise molti di loro, compreso il re Migdone, fratello di Amico; riconquistò ai Bebrici gran parte della terra di Paflagonia e la restituì a Lieo, che la chiamò Eraclia in suo onore. In seguito l’Eraclia fu colonizzata dai Megaresi e dai Tanagresi per consiglio della Pizia di Delfi, che disse loro di fondare una colonia sulle rive del Mar Nero, in una regione sacra a Eracle. Arrivato alla foce del fiume Termodonte, Eracle gettò l’ancora nel porto di Temiscira, dove Ippolita gli fece visita e, attratta dal suo corpo muscoloso, gli offrì la cintura di Ares come pegno d’amore. Frattanto Era, travestita da Amazzone, girava per la città spargendo la voce che gli stranieri avevano intenzione di rapire Ippolita; al che le indignate guerriere balzarono a cavallo e si lanciarono all’assalto della nave. Eracle, che sospettò un tradimento, uccise Ippolita seduta stante, le sfilò la cintura, si impadronì della sua ascia e di altre armi e si preparò a difendersi. Uccise a una a una le Amazzoni che guidavano le attaccanti e infine mise il loro esercito in rotta, dopo grandissima strage. Altri tuttavia dicono che Melanippa era stata fatta prigioniera in un’imboscata e riscattata da Ippolita con la sua cintura o viceversa. Oppure che Teseo catturò Ippolita e donò la cintura a Eracle, che in cambio gli concesse di fare di Antiope la sua schiava. Oppure che Ippolita rifiutò di consegnare la cintura a Eracle e che lottarono aspramente tra loro; Ippolita cadde dal suo cavallo ed Eracle, ritto su di lei, con la clava in mano, si dichiarò disposto a concederle grazia: ma Ippolita preferì morire piuttosto che arrendersi. Si dice anche che la cintura appartenesse alla figlia del Centimane Briareo.
Al suo ritorno da Temiscira, Eracle sostò di nuovo a Mariandine dove partecipò ai giochi funebri in onore del fratello di re Lieo, Priola, che era stato ucciso da Misi; in suo onore si cantano ancor oggi canti funebri. Eracle si batté con Tizia, campione dei Mariandini, in una gara di pugilato: gli spaccò tutti i denti e poi lo uccise involontariamente con un pugno alla tempia. Spiacente per l’accaduto, combatté allora vittoriosamente contro i Misi e i Frigi in nome di Dascilo; respinse anche i Bitini fino alla foce del fiume Reba e le più alte pendici del monte Coione e si aggiudicò il loro regno. I Paflagoni di Pelope invece gli si arresero volontariamente. Ma non appena Eracle fu partito, i Bebrici, guidati da Amico, figlio di Posidone, si impadronirono di nuovo della terra di Lieo portando i loro confini fino alle rive del fiume Ipio. Eracle veleggiò poi verso Troia e salvò Esione da un mostro marino; continuò il suo viaggio fino a Eno in Tracia, dove fu ospitato da Poltide e mentre era sul punto di riprendere il mare uccise con una freccia, sul lido eneo, l’insolente fratello di Poltide, Sarpedone, figlio di Poseidone. In seguito soggiogò i Traci che si erano stabiliti a Taso, e affidò l’isola ad Androgeo, che aveva portato con sé da Paro. A Torone fu sfidato a una gara di lotta da Poligono e Telegono, figli di Proteo. Li uccise tutti e due. Giunto infine a Micene, Eracle consegnò la cintura a Euristeo, che la donò a Admeta. Per quanto riguarda il resto del bottino carpito alle Amazzoni, Eracle offrì le loro ricche vesti al tempio di Apollo a Delfi, e l’ascia di Ippolita alla regina Onfale, che la serbò nel tesoro dei re lidi. In seguito fu portata nel tempio cario di Zeus Labradio e posta nelle mani del suo divino simulacro.
Le Amazzoni vivono ancora in Albania, presso la Colchide, perché furono scacciate da Temiscira assieme ai loro vicini, i Gargarensi. Rifugiatisi sulle montagne albanesi, i due popoli si separarono: le Amazzoni si stabilirono ai piedi del Caucaso, lungo le rive del fiume Mermoda, i Gargarensi più a nord. In un giorno stabilito, a ogni primavera, le giovani Amazzoni e i giovani Gargarensi si ritrovano sulla sommità di una montagna che separa i due territori e, dopo aver sacrificato agli dèi, trascorrono due mesi assieme, abbandonandosi a promiscui amplessi col favore della notte. Non appena un’Amazzone si accorge di essere incinta ritorna a casa. Tra i piccoli nati le femmine diventano Amazzoni e i maschi vengono affidati ai Gargarensi i quali, non potendo stabilirne con esattezza la paternità, li distribuiscono come capita nelle varie capanne. In tempi recenti la regina Minizia abbandonò la sua corte albanese per incontrarsi con Alessandro Magno nell’Ircania infestata da tigri. Colà godette della sua compagnia per tredici giorni, sperando di avere un figlio; ma morì poco dopo senza prole.
Queste Amazzoni del Mar Nero non vanno confuse con le alleate libiche di Dioniso che un tempo abitarono in Espera, un’isola del lago Tritonide così ricca di alberi da frutto e di greggi che non era necessario coltivarvi il grano. Dopo aver conquistato tutte le città dell’isola, salvo la sacra Mene, patria degli Etiopi divoratori di pesce (che estraevano dalle miniere smeraldi, rubini, topazi e calcedonio), sconfissero i loro vicini libici e nomadi e fondarono la grande città di Chersoneso, così chiamata perché sorgeva su una penisola. Da questa base attaccarono gli Atlanzi, il popolo più civile a occidente del Nilo, che ha la sua capitale nell’isola atlantica di Cerne. Mirina, regina delle Amazzoni, radunò un esercito di trentamila cavalieri e tremila fanti. Tutte portavano archi e quand’erano costrette a battere in ritirata se ne servivano per scoccare contro i loro inseguitori frecce infallibili. Indossavano armature fatte con la pelle dei serpenti libici, di incredibili proporzioni. Invaso il territorio degli Atlanzi, Mirina inflisse loro una irrimediabile sconfitta. Poi sboccò a Cerne, conquistò la città, passò gli uomini a fil di spada, fece schiave le donne e rase al suolo le mura. Quando gli Atlanzi superstiti acconsentirono ad arrendersi li trattò con nobiltà e per compensarli della perdita di Cerne costruì la nuova città di Mirina, dove si stabilirono i prigionieri e chiunque altro desiderasse viverci. Gli Atlanzi le tributarono allora onori divini e Mirina acconsentì a proteggerli dalla vicina tribù dei Gorgoni: molti ne uccise in una furibonda battaglia, e inoltre catturò non meno di tremila prigionieri. La notte tuttavia, mentre le Amazzoni banchettavano per festeggiare la vittoria, i prigionieri rubarono le loro spade e, a un segnale convenuto, il grosso dell’esercito gorgonio, che si era radunato in un vicino bosco di querce, dilagò da ogni parte per massacrare i seguaci di Mirina. Mirina riuscì a fuggire (le sue compagne morte giacciono sotto tre grandi tumuli che sono ancor oggi chiamati Tombe delle Amazzoni) e dopo aver attraversato gran parte della Libia entrò in Egitto con un nuovo esercito, si alleò a re Oro, figlio di Iside, e passò a invadere l’Arabia. Taluni dicono che queste Amazzoni libiche, e non le Amazzoni del Mar Nero, conquistarono l’Asia Minore. E che Mirina, dopo avere scelto la sede che più le garbava nel suo nuovo impero, fondò molte città costiere, comprese Mirina, Cima, Pitana, Priene e altre ancora nell’entroterra. Conquistò anche molte isole egee, fra cui Lesbo, dove costruì la città di Miritene, così chiamata dal nome di sua sorella che partecipò alla campagna. Mentre Mirina era ancora impegnata nella conquista delle isole, una tempesta si abbatté sulla sua flotta; ma la Madre degli dèi guidò le navi sane e salve fino a Samotracia, allora disabitata, che Mirina le consacrò, innalzando altari e offrendo splendidi sacrifici. Mirina si recò poi nella Tracia continentale dove il re Mopso e il suo alleato, lo scita Sipilo, la sconfissero in leale combattimento, e Mirina fu uccisa. L’esercito delle Amazzoni non riuscì più a riprendersi dopo tale rovescio; sconfitte dai Traci in frequenti scaramucce, le superstiti si ritirarono infine in Libia.
ll mito di Eracle, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
Euristeo ordinò a Eracle, come sua settima Fatica, di catturare il toro di Creta; ma ancora si discute se si trattava del toro inviato da Zeus e che trasportò Europa fino a Creta, oppure dell’altro, che Minosse si rifiutò di sacrificare a Poseidone e che generò il Minotauro in Pasifae. A quel tempo devastava la terra cretese e specialmente la regione bagnata dal fiume Tetride, sradicando le piante e abbattendo i muri degli orti. Quando Eracle veleggiò verso Creta, Minosse gli offrì ogni aiuto in suo potere, ma Eracle preferì catturare il toro da solo, benché l’animale sputasse fiamme dalle nari. Dopo un’aspra lotta Eracle riportò il toro a Micene, dove Euristeo, dedicandolo a Era, lo rimise in libertà. Era tuttavia, considerando odioso un dono che le ricordava la gloria di Eracle, guidò il toro dapprima a Sparta e poi di nuovo attraverso l’Arcadia e oltre l’istmo sino a Maratona in Attica, donde poi Teseo lo trascinò ad Atene per sacrificarlo ad Atena. Tuttavia molti ancora negano l’identità tra il toro di Creta e quello di Maratona.
Euristeo ordinò a Eracle, come sua ottava Fatica, di catturare le quattro cavalle selvagge del tracio re Diomede (non si sa con certezza se egli fosse il figlio di Are e di Cirene, oppure se fosse nato dall’incestuoso amplesso di Asteria col fratello Atlante) che governava sui bellicosi Bistoni. Le sue stalle, poste nella ormai scomparsa città di Tirida, erano il terrore di tutta la Tracia. Diomede infatti teneva le sue cavalle legate con catene di ferro a mangiatoie di bronzo, e le nutriva con la carne dei suoi ospiti ignari. Un’altra leggenda vuole che si trattasse di stalloni e non di cavalle, ed elenca i loro nomi: Podargo, Lampone, Xanto e Dino. Con un piccolo gruppo di volontari. Eracle veleggiò verso la Tracia e si fermò a Fere a far visita al suo amico re Admeto. Giunto a Tirida sopraffece gli stallieri di Diomede e condusse le cavalle sulla riva del mare, dove le lasciò in custodia al suo amante Abdero e tornò indietro ad affrontare i Bistoni che si erano lanciati all’inseguimento. I Bistoni erano molto più numerosi, ma Eracle riuscì ad assicurarsi la vittoria con l’astuzia: tagliò infatti un canale e l’acqua del mare invase la bassa pianura. Fuggirono i Bistoni, terrorizzati. Eracle li raggiunse, stese al suolo Diomede con un colpo della sua clava, ne trascinò il corpo lungo le rive del lago artificiale e lo gettò alle cavalle, che divorarono la carne ancora palpitante. Placata così la loro fame, poiché durante l’assenza di Eracle avevano già divorato Abdero, l’eroe riuscì a domarle senza fatica. Secondo un’altra leggenda Abdero, benché nato a Opunte nella Locride, era al servizio di Diomede. Alcuni lo dicono figlio di Ermete, altri figlio dell’amico di Brade, l’opunzie Menezio, e dunque fratello del Patroclo che cadde a Troia. Dopo aver fondato la città di Abdera presso la tomba di Abdero, Eracle aggiogò al cocchio di Diomede le cavalle, che fino a quel giorno non avevano mai conosciuto morso o briglia. Poi le guidò a grande velocità attraverso le montagne, finché raggiunse Micene, dove Euristeo dedicò le cavalle a Era e le lasciò pascolare libere sull’Olimpo. Pare che fossero in seguito divorate da bestie feroci, ma altri affermano che sopravvissero fino alla guerra di Troia e fors’anche fino ai tempi di Alessandro Magno. Le rovine del palazzo di Diomede ancora si vedono a Cartera, e ad Abdera si celebrano giochi in onore di Abdero; tali giochi comprendono le solite gare, salvo la corsa dei cocchi. Taluni infatti dicono che Abdero fu ucciso quando le cavalle rovesciarono il cocchio al quale egli le aveva attaccate.
ll mito di Eracle, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
Quinta Fatica di Eracle fu di ripulire in un solo giorno le sozze stalle di Augia. Euristeo con gioia maligna già si immaginava Eracle costretto a raccogliere lo sterco in canestri e a portarseli via sulle spalle. Augia, re di Elide, era figlio di Elio o Eleo e di Naupiadama, una delle figlie di Anfidamante, benché altri pensino che sua madre fosse Ifiboe e altri ancora lo dicano figlio di Poseidone. In greggi e mandrie era l’uomo più ricco della terra; poiché, per divino favore, le sue bestie erano immuni da malattie e prodigiosamente fertili, né mai abortivano. Sia vacche sia pecore generavano quasi sempre femmine, tuttavia Augia possedeva trecento tori neri dalle candide zampe e duecento stalloni di pelo fulvo; inoltre, dodici eccezionali tori bianco-argentei sacri a suo padre Elio. Questi dodici tori difendevano le mandrie dall’assalto delle bestie feroci che a volte scendevano dalle boscose colline. Ora, per molti anni nessuno aveva mai ripulito dallo sterco le stalle e gli ovili di Augia e, benché il puzzo nefasto non fosse nocivo per le bestie, fece scoppiare una pestilenza nell’intero Peloponneso. Inoltre, le valli dove le mandrie pascolavano erano coperte da uno strato di sterco così alto che non si poteva più ararle per seminarvi il grano. Eracle chiamò Augia da lontano e gli propose di ripulirgli le stalle prima del calar del sole in cambio di un decimo del suo bestiame. Augia rise incredulo, e convocò Fileo, il suo figliolo maggiore, perché fosse testimone della proposta di Eracle. «Giura allora di compiere questa impresa prima del calar del sole», disse Fileo. Il giuramento che Eracle pronunciò in nome di suo padre fu il primo e l’ultimo della sua vita. Augia similmente giurò di tenere fede al patto. A questo punto Fetonte, il capo dei dodici tori bianchi, caricò Eracle scambiandolo per un leone. Eracle afferrò il toro per il corno sinistro, gli forzò il capo all’indietro e lo stese a terra. Seguendo il consiglio di Menedemo l’Eleo, e aiutato da Iolao. Eracle dapprima aprì due brecce nelle mura della stalla e poi deviò il corso dei vicini fiumi Alfeo e Peneo o Menio, di modo che le loro acque invasero le stalle e i cortili, ne spazzarono via tutto il sudiciume e avanzarono ancora impetuose per ripulire gli ovili e la vallata adibita a pascolo. Così Eracle compì la sua Fatica in un solo giorno, risanando l’intero paese e senza sporcarsi nemmeno il mignolo. Ma Augia, saputo che Eracle aveva già ricevuto da Euristeo l’ordine di ripulire le stalle, rifiutò di versargli la ricompensa promessa e osò persino negare di aver stretto un patto con lui. Eracle allora propose che il caso fosse sottoposto ad arbitrato. Tuttavia, quando i giudici si furono insediati e Fileo, citato da Eracle, testimoniò il vero, Augia balzò in piedi livido per la rabbia e li bandì ambedue dall’Elide, affermando che Eracle l’aveva tratto in inganno, poiché il lavoro era stato compiuto dagli dei Fiumi, e non da lui stesso. Peggio ancora Euristeo rifiutò di considerare valida quella fatica, perché Eracle era stato assoldato da Augia. Fileo allora si recò a Dulichio, ed Eracle alla corte di Dessameno, re di Oleno; più tardi salvò la figlia di Dessameno, Mnesimache, dagli assalti del Centauro Funzione.
Sesta Fatica di Eracle fu di cacciare gli innumerevoli uccelli dai becchi di bronzo, dagli artigli di bronzo, dalle ali di bronzo, divoratori di uomini e sacri ad Ade che, spaventati dai lupi del burrone dei lupi, lungo la strada di Orcomeno, avevano invaso la palude Stinfalia. Colà essi vivevano lungo le rive del fiume dallo stesso nome, e di quando in quando si alzavano nell’aria simili a oscura nube, uccidevano uomini e animali lasciando cadere una pioggia di piume di bronzo, e al tempo stesso defecando un escremento velenoso che bruciava le messi. Giunto alla palude che era circondata da fitte selve, Eracle si accorse che non poteva cacciare gli uccelli con le sue frecce, perché erano troppo numerosi. Inoltre, la palude non pareva né abbastanza bassa perché un uomo vi si potesse addentrare a piedi, né abbastanza profonda per permettere l’uso di una barca. Mentre Eracle indugiava incerto sulla riva, Atena gli diede un paio di nacchere di bronzo, fabbricate da Efesto; o forse si trattava di un sonaglio. Salito su uno sperone roccioso del monte Cillene, che sovrasta la palude. Eracle batté l’una contro l’altra le nacchere, oppure scosse il sonaglio, con tale clangore che gli uccelli si alzarono subito in volo, pazzi di terrore. Eracle li uccise a dozzine mentre volavano verso le isole di Are nel Mar Nero, dove più tardi furono trovati dagli Argonauti. Taluni dicono che Eracle era con gli Argonauti a quell’epoca e uccise molti altri uccelli. Gli uccelli Stinfali sono grandi pressappoco come gru e assomigliano molto agli ibis, ma i loro becchi diritti possono forare una corazza di metallo. Vivono anche nel deserto arabico e laggiù li considerano ancor più pericolosi dei leoni e dei leopardi, perché si abbattono sui petti dei viaggiatori e li trafiggono. I cacciatori arabi hanno imparato a indossare speciali corazze di corteccia intrecciata, dove i becchi esiziali di tali uccelli si impigliano e l’uomo aggredito può così stringerli per il collo. È probabile che uno stormo volasse dall’Arabia alla palude Stinfalia e l’intera specie ne prendesse il nome. Secondo altre versioni, i cosiddetti uccelli Stinfali erano donne, figlie di Stinfalo e di Ornite che Eracle uccise, perché gli rifiutarono l’ospitalità. A Stinfalo, nell’antico tempio di Artemide Stinfalia, simulacri di questi uccelli sono appesi al soffitto e dietro l’edificio si trovano statue di fanciulle con gambe di uccello. Colà Temeno, un figlio di Pelasgo, fondò tre templi in onore di Era; nel primo essa era onorata come Fanciulla, perché Temeno l’aveva allevata; nel secondo come Sposa, perché si era unita a Zeus; nel terzo come Vedova, perché aveva ripudiato Zeus ritirandosi a Stinfalo.
ll mito di Eracle, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
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