TU REGINA DELLE TENEBRE – La dea bianca di Robert Graves è il più singolare libro sulla mitologia che abbia mai letto (Adelphi, traduzione di Alberto Pelissero, lo potete acquistare qua). Robert Graves è una natura molto curiosa: sembra uno di quegli eruditi secenteschi, prodigiosi dilettanti, che dominavano venti lingue e quindici discipline: possiede una immensa biblioteca mentale, una meravigliosa memoria; ed è fantastico, estroso, dispettoso, folle come un elfo e un poeta irlandese. Ma il libro che ha scritto in molti anni di vita è più singolare di lui. Ho sempre creduto che i grandi libri sulla mitologia siano, essi stessi, dei libri mitologici: ereditano una grande tradizione mitica, la raccolgono, la interpretano; e la continuano, facendo echeggiare di nuovo tra noi quei miti, avvolgendoci nella loro melodia, contagiandoci coi loro suoni, come migliaia di anni fa o in quell’ istante miracoloso fuori dal tempo, in cui il mito per la prima volta esplose alla luce. Robert Graves ha portato questo principio sino in fondo. Con foga, con entusiasmo, con fantasia, con eccesso, talora con arbitrio mitologizza la mitologia: balza oltre la barriera che divide il vero e il falso; e il risultato è un libro straordinariamente ricco e vivo, che di colpo ci fa abitare vicino alla misteriosa Dea Bianca, a Eracle, alle sirene, alle mille divinità celtiche.
Secondo Graves, il carattere principale della mitologia è la fecondità. Un mito nasce, cresce, mette rami e foglie e frutti come gli alberi di una foresta tropicale: pullula e si moltiplica come gli arbusti di una macchia mediterranea: con una forza inarrestabile, accoglie in sé stesso altri miti, li abbraccia, li assorbe, li svuota, li trasforma in sé stesso; e continua a dilagare, fondendosi con tutte le altre invenzioni della fantasia collettiva, sino a generare un albero dalle infinite ramificazioni. La storia non incide su questa vicenda: essa, che sembra così forte, crudele e vittoriosa, non resiste al mito, che si impossessa qua di un evento là di una figura, e li identifica con i suoi rami. Non c’è nulla che Robert Graves prediliga più di queste metafore arboree. Con che amore ripete i nomi degli alberi e li descrive: la betulla, il frassino, il sorbo selvatico, l’ontano, il salice a rami rossi, il salice a foglie arrotondate, la quercia, il nocciolo, la vite, l’edera, il biancospino, il sambuco, l’abete d’ argento, il pioppo bianco, tutti sacri alla Dea Bianca. Da ogni parte fioriscono alfabeti arborei. Alle volte, potremmo leggere questo libro sulla mitologia come un libro sugli alberi, e sullo spirito degli alberi, e sull’ attenzione e sull’obbedienza che noi uomini dobbiamo portare alle loro parole.
Un fiuto da elfo – Come conosce una sola dea, così Graves conosce un solo principio interpretativo: l’analogia, che egli applica senza freno né limite. Niente può arrestare la dilatazione dell’onda analogica, che identifica dei e dee, fino a formare una sola mitologia europea, dal Mediterraneo all’ Europa del Nord all’ Irlanda. Graves procede da un mito all’altro con salti da capriolo: possiede una velocità mentale prodigiosa; e la sua gioia più grande è quando ritrova i Milesii in Irlanda o un dio irlandese in una piega dell’Antico Testamento. Noi, che lo leggiamo, veniamo talvolta assaliti da una specie di vertigine: ci sembra che tutte le distinzioni e le differenze e le antitesi su cui è fondata la nostra cultura si dissolvano all’ improvviso nell’aria, e non resti che una nuvola rossastra che cambia e si trasforma nel cielo. Questa caccia analogica insegue una meta. Nel profondo la mitologia è, per Graves, una scrittura cifrata, come quelle che affascinavano Poe. In ogni capitolo del suo libro, incontriamo una dottrina segreta, che i sacerdoti della Dea Bianca hanno mascherato o per amore dell’enigma, o per difendere la loro sapienza dagli assalti della cultura olimpica e cristiana. In apparenza, le chiavi del segreto si sono smarrite per sempre, nascoste tra i detriti della storia. Ma Graves è un grande appassionato di enigmi, di rebus e di scritture cifrate. Con la sua passione da erudito, con il suo fiuto da elfo, non ha pace fino a quando l’enigma non balza in piena luce. Forse il tranquillo amante dei miti vorrebbe che non tutto fosse spiegato, e l’ombra materna del segreto continuasse almeno in parte a proteggere il mondo silenzioso degli dèi e delle dee.
Non ho mai compreso le violentissime passioni culturali, che costringono le persone più acute a condividere con fanatismo una tradizione, e a rifiutarne un’altra, scegliendo l’Oriente contro l’Occidente o l’Occidente contro l’Oriente. La storia della cultura e della religione umana è così ricca, variegata e complessa, e ognuno dei suoi aspetti è così fecondo, che una persona dallo sguardo puro deve accettare tutto ciò che gli uomini hanno fantasticato e immaginato. Mi sembra deplorevole che Gottfried Benn abbia esecrato il mondo femminile egeo, per celebrare i Dori e Sparta. Ma non mi sembra meno deplorevole che Robert Graves esecri gli invasori indoeuropei, che nel secondo millennio avanti Cristo portarono in Grecia la loro civiltà virile, la religione olimpica e, quasi venti secoli dopo, il cristianesimo. Graves detesta soprattutto Apollo, con la stessa furia che potrebbe provare verso un ubriacone incontrato in un pub irlandese. “È probabile che il dio greco Apollo fosse in origine il demone di una confraternita del Topo nell’ Europa totemica pregreca, il quale fece carriera con la forza delle armi, con il ricatto e con la frode, sino a diventare patrono della musica, della poesia e delle arti”. I nemici di Apollo mi sono sempre sospetti. Non capiscono quella Luce esorbitante, che contiene in sé stessa tutta la profondità della tenebra: non capiscono la poesia epica e la tragedia; né la distanza, né la Legge, né la contemplazione, né la precisione della mente, né la pienezza della gioia.
Al contrario di Benn, Graves ama la civiltà del Mediterraneo orientale, che fioriva prima che arrivassero i greci: questo grembo religioso dell’umanità, questo fecondissimo mondo femminile, che adorava la Madre. Esso possedeva una estrema facoltà di irradiazione. Se, secondo Graves, i Greci stavano a casa, sotto le loro immobili statue di marmo e di gesso, le popolazioni pregreche, sconvolte dalle invasioni indoeuropee, attraversavano i mari e le terre, sciamavano per il Mediterraneo, costeggiavano le rive della Spagna e del Portogallo e della Francia, fino a raggiungere l’Inghilterra e l’Irlanda. Il grande bosco materno, che aveva ombreggiato le secche rive del Mediterraneo, tornava a rifiorire e a gettar rami, con le stesse credenze o credenze appena variate, tra le brume e le piogge dei paesi del Nord. Quello che rende così divertente il libro di Graves è la sua ottica. Parla di miti egiziani, o egei, o greci, o ebraici: ma non ne parla vivendo in mezzo a loro, condividendo lo sguardo degli egiziani e dei greci. Lui sta fuori: abita lontano, assieme ai Pelasgi, che le antiche navi avevano portato dal Mediterraneo in Irlanda. Tutta la mitologia universale è vista con occhi irlandesi: secondo la forma e il colore che ha assunto, quando è stata trasportata tra quei boschi. L’effetto è pittoresco e appassionato. Per una volta, Graves ha tutte le ragioni storiche dalla sua parte. All’inizio del Medioevo, l’Irlanda è stata un rifugio della cultura classica: Giovanni Scoto scriveva il più bel latino che sia mai stato scritto, e traduceva gli scritti greci dello Pseudo-Dionigi; mentre l’antica mitologia pagana continuava ad esservi tramandata quando veniva repressa nel resto dell’Europa cristiana. Gli eroi di Graves non sono gli omeridi, troppo compromessi con Apollo, e nemmeno i bardi anglosassoni: ma i menestrelli popolari del Galles e dell’Irlanda. Andavano di villaggio in villaggio, o di fattoria in fattoria, intrattenendo il pubblico sotto un albero o in un angolo del focolare: accompagnavano la recitazione dei poemi con mimica e capriole, come saltimbanchi; e se si avvicinavano ai castelli, i signori li bersagliavano con gli ossi dei loro arrosti, mentre i bardi sedevano a tavola accanto al re. I menestrelli cantavano: Sono l’acqua, sono un regolo, sono un lavoratore, sono una stella, sono un serpente, sono una cella, sono una fessura, sono un ricettacolo di canti. Oppure: Io sono un vento del mare, io sono un’onda del mare, io sono un suono del mare, io sono un grifone su una scogliera, io sono una lacrima del sole, io sono un cinghiale, io sono un salmone in una pozza, io sono una lancia che dà battaglia, io sono un colle di poesia… Con la stessa passione di Yeats, Graves ama l’allegria, l’estro, il colore, il lunatico, l’orgiastico, la follia di questa tradizione popolare. Egli sa che i menestrelli, non i bardi, sono i veri cultori della sapienza: perché la loro allegria è solo un velo colorato che cela la conoscenza degli antichi misteri. I menestrelli sono, per Graves, un’incarnazione dei fairies, i folletti, che popolano il paesaggio irlandese come un campo pieno di formiche. Alti meno di un metro, con le giacche rosse o verdi, danzavano in cerchio alla luce della luna. Facevano capriole, piroette e inchini: così leggeri che nemmeno le gocce di rugiada, pur tremando sotto i loro piedi, erano disturbate dalle capriole; oppure giocavano forsennatamente a calcio, senza giacca né cappotto. Nell’ ebbrezza della danza e del gioco, ridevano a voce altissima e stridula, come uno stormo di gabbiani sulla scogliera dove passa la notte. Come i menestrelli, i fairies erano angeli decaduti. Mentre gli angeli più gravemente colpevoli vennero cacciati nell’inferno, essi peccarono più lievemente – forse per distrazione o per leggerezza, come dei ragazzi che hanno dimenticato il dogma della Trinità o hanno mancato di rispetto ai Santi. Così essi stavano a metà, né angeli né diavoli: insieme aerei e ctonii, intessuti di luce e di tenebra, come i demoni antichi. Mediavano tra l’alto e il basso: tra la terra e il cielo più alto, dove abitano gli angeli; tra i crepacci superficiali e gli abissi più profondi, dove abitano le creature del male. Da questa condizione intermedia, i fairies derivavano la loro illimitata capacità di trasformazione. Mentre il bene e il male non cambiano volto, i folletti assumevano tutte le dimensioni, tutte le forme, tutti i corpi e i colori, perché il regno intermedio è il regno del movimento. Tutto questo movimento di desiderio e di nostalgia, che nasce nel cuore dei menestrelli, degli elfi e di Graves, si dirige verso il centro del libro: la Dea Bianca lunare.
Essa è la Signora delle creature selvagge, che frequenta le cime boscose dei colli: è la Madre della vita e della morte; è la Moira. Come Luna, è signora del cielo; come Diana, è signora della terra: come Persefone, regina dell’oltretomba; come Musa, dà l’ispirazione ai poeti. Mentre nella religione olimpica la figura femminile viene inseguita, la Dea Bianca è l’Inseguitrice e la Violentatrice. Se il maschio è lepre, lei è levriero: se lui è pesce, lei è lontra: se lui è uccello, lei è falcone; se il maschio è chicco di grano, lei è la gallina, nera, che lo inghiotte. Non ci può dunque meravigliare se la Dea Bianca ci appaia come una strega che uccide i bambini, o che riempie i nostri sogni di incubi, o come l’ape regina dal pungiglione assassino. Via via che la sua figura diventa più oscura e terrificante, una estasi voluttuosa, un desiderio di dissoluzione precipitano Graves verso l’abbraccio mortale. Con sempre nuovi colori e sfumature e parole e variazioni, Graves tenta di disegnare il ritratto della Dea Bianca. Il ritratto ci sfugge, perché nessuno più di lei si sottrae alla presa. Finché Graves afferma: la Dea Bianca è l’Iside di Apuleio – questa divinità unica, che si manifesta in ogni forma e in ogni nome. Dapprima la incontriamo nella sua forma nera: come strega e negromante, che trae giù il cielo, innalza la terra, impietra le fonti, liquefa le montagne, comanda agli Dei, spegne le stelle e il sole, illumina il Tartaro, fa rivivere i morti. Infine, la Dea si rivela. In una notte di plenilunio primaverile, il disco rotondo della luna emerge dai flutti del mare, scintillando di un abbagliante candore: il mare è quieto, il cielo senza nubi; e questa magica congiunzione tra l’umidità marina, la rugiada generatrice e i raggi lunari, è l’epifania prediletta di Iside. Mentre Lucio dorme, la dea gli appare in sogno, con i foltissimi capelli ondulati, una corona di fiori sul capo, la veste di lino cangiante, la sopravveste nerissima splendescens atro nitore e luccicante qua e là di stelle. Sappiamo che è la genitrice di tutte le cose, la signora della natura, l’inizio della storia: la madre dolcissima e misericordiosa, che aiuta e salva gli infelici; quella Madonna pagana, quella Regina coeli, quella Stella maris, che Gérard de Nerval inseguì invano per tutta la vita.
Notte di plenilunio – Non so se Iside sia veramente la Dea Bianca di Graves: dubito che la tenerezza materna, che attraeva tanto Nerval, affascinasse il suo spirito, che chiedeva agli dèi soltanto Venerazione e Terrore. È possibile che la Dea Bianca di Graves sia una dea molto più tarda: la Regina della Notte, che appare sulle scene del Flauto Magico di Mozart mentre i monti si spalancano sulla scena, o emerge all’ improvviso dall’abisso, tra il rombo furioso dei suoni. Certo, essa è ancora Iside: ha la stessa “nerissima sopravveste brillante di atro splendore” e luccicante di stelle; e conosce i dolori di Iside-Demetra, che percorre la terra coperta da un velo oscuro cercando le tracce della figlia scomparsa. Ma quando canta tra la tempesta dei suoni: Der Holle Rache kocht in meinem Herzen,Tod und Verzweiflung flammet um mich her!…… Hort, Rachegotter! Hort der Mutter Schwur! La vendetta dell’inferno arde nel mio cuore,morte e disperazione fiammeggiano intorno a me!…… Udite, dei della Vendetta! Udite il giuramento della madre!: allora essa diventa un’oscura Erinni, che lacera ogni legame della natura. Forse la Dea Bianca, che Graves ha inseguito attraverso tante incarnazioni e trasformazioni, è, nel profondo, una Regina della Tenebra.
Eccomi qua a recensire La Dea Bianca, il libro più complesso e discusso di Robert Graves. Comincio con il dire che questo libro NON si legge per avere un resoconto storico: meglio leggerlo come un’opera di fiction, come un tentativo di dare ordine e ispirazione al lettore nell’ambito della mitopoietica. Cosa si intende con mitopoiesi? Si intende la capacità di utilizzare l’attività spirituale creatrice dei miti, che già Platone considerava più particolarmente propria dei poeti, distinguendola dall’attività più specificamente teoretica, generatrice di verità e di conoscenza, propria dei filosofi. In altre parole Graves crea una visione mitologica di una realtà che non sappiamo se è vera storicamente ma che crea un universo affascinante e ricco di significato psichico. Un po’ come il mondo del Signore degli Anelli: non è reale ma “suona bene” e ci si può identificare e le idee contenute nel testo possono divenire parte del nostro modo di leggere il mondo e la nostra vita.
Dal punto di vista mitopoietico, Graves è un genio e un sopraffino poeta: la sua inventiva e ispirazione sono davvero ricche. Il suo fine è quello di trovare dei fili conduttori che leghino assieme la tradizione ebraica con quella greca, con quella celtica e con una miriade di civiltà più antiche di cui abbiamo soltanto degli accenni e dei frammenti di testi. Insomma, mettersi alla lettura di questo volume è una bella sfida e si ha sempre l’impressione di non saperne abbastanza. Graves prende spunto da un poema medievale gallese, la “Battaglia degli alberi” in cui ogni albero ha un particolare significato e nasconde un particolare segreto celato dal druido-poeta che ha esteso il testo. Tutti i segreti hanno a che fare con una antica religione matriarcale celtica che il poeta ha occultato per farla sopravvivere alla censura della chiesa cattolica. La chiave di lettura è data da un linguaggio segreto dei segni chiamato Ogham nel quale ogni albero rappresenta un simbolo, un significato, un suono, una serie di storie mitologiche e così via. Molto complesso, torno a dire! E molto denso di rimandi ad altri testi, tradizioni, mitologie. Il rischio, durante la lettura è quello di perdersi. Nonostante le difficoltà, i percorsi labirintici che segue l’Autore, il materiale complesso e ricchissimo, e anche una prosa a tratti oscura, le sue conclusioni e l’unione dell’alfabeto degli alberi con il calendario annuale con le stazioni del sole e della luna è affascinante e suona giusto per una strutturazione psichica dello scorrere del tempo e convince come possibile (non sicuro: possibile!) metodo per creare significato nei tempi remoti della nostra evoluzione e fornisce spiegazioni valide e plausibili per gli antichi rituali legati al passare delle stagioni.
Il tema centrale del libro è, come in altre opere di Graves a cominciare da I Miti Greci, la decadenza di una società matriarcale primitiva, che venera una divinità femminile unica e trina: la Dea Bianca o Triplice Dea. Civiltà decaduta a causa dell’avvento di popoli guerrieri nomadi (achei, semiti, accadi, ecc.). E questa divinità femminile si trasforma, poco alla volta, nell’immagine primordiale della Musa (e a noi che ci chiamiamo La Voce delle Muse, questo piace assai!!) e nel suo linguaggio che si è distillato ed è passato dalla pietra, agli indovinelli per giungere nel luogo principe del mistero: la poesia. Alcune domande a cui troverete la risposta durante la lettura de La Dea Bianca: chi è e quanti nomi possiede la Dea? Perché il dio dell’Antico Testamento ha creato prima gli alberi e le erbe e solo dopo il sole, la luna e le stelle? Quale segreto è nascosto nel nodo gordiano? Quando arrivarono in Britannia 50 Danaidi e perché? Oltre a mille altri quesiti meno noti e legati alla tradizione nord-europea.
Un libro consigliato a lettori pazienti, che conoscono già o sono affascinati dalla mitologia (qualsiasi mitologia va bene: nel libro le trovate tutte!), e che sono alla ricerca di perle preziose che danno ispirazione all’immaginazione mitologica e poetica. Non portate la bussola, durante la lettura: lasciatevi guidare dalla mano di Graves in un universo ricco e labirintico. E non preoccupatevi se non capite tutto: penso che al mondo non esista persona che possa affermare di essere in chiaro alla fine della lettura! Ma vi posso garantire che sarete felici di averlo letto e tornerete di tanto in tanto a sfogliarlo. Si tratta del libro di un Autore che crede che la letteratura e la poesia siano prima di tutto MAGIA! E che il suono delle parole crei un significato e una realtà separata da quella che vediamo con gli occhi. BUONA LETTURA, BUON MITO! (Andreas Barella)
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