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Il mito di Eracle (Parte 2 di 11): prime avventure e la pazzia

Il mito di Eracle (Parte 2 di 11): prime avventure e la pazzia

Il racconto del mito di Eracle è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 15: Eracle – L’eroe più popolare

Prima di questo post, se non l’hai ancora letto, leggi:  Il mito di Eracle (Parte 1 di 11): nascita e giovinezza

Giunto al diciottesimo anno di età. Eracle lasciò le mandrie e si preparò ad affrontare il leone del Citerone, che faceva strage tra il bestiame di Anfitrione e del suo vicino re Tespio, chiamato anche Testio. Il leone aveva un’altra tana sul monte Elicona, ai piedi del quale si trova la città di Tespia. L’Elicona fu sempre un monte gaio; i Tespi vi celebrano un’antica festa in onore delle Muse e si dilettano in giochi amorosi sulle sue pendici, attorno alla statua di Eros, loro patrono. Re Tespio ebbe cinquanta figlie da sua moglie Megamede, figlia di Arneo, gaia come tutte le donne tespie. Per timore che esse si unissero a uomini indegni di loro, Tespio decise che ciascuna avesse un figlio da Eracle, che era impegnato tutto il giorno nella caccia al leone. Eracle infatti dormì a Tespia per cinquanta notti di seguito. «Ti darò mia figlia maggiore Procri come compagna», disse Tespio a Eracle con cordialità ospitale. Ma poi fece in modo che a Procri si sostituissero le sorelle, una notte per ciascuna, finché tutte si giacquero con Eracle. Altri tuttavia dicono che Eracle le deflorò tutte in un’unica notte, e che soltanto una si rifiutò al suo amplesso e rimase vergine fino alla morte, servendo come sacerdotessa nel santuario di Tespia; perché ancor oggi la sacerdotessa tespia deve essere vergine. Tuttavia Eracle generò cinquantuno figli dalle figlie di Tespio, perché Procri, la maggiore, ebbe due gemelli, Antileone e Ippeo, e la più giovane altri due. Stanato finalmente il leone, lo uccise con una clava grezza fatta del legno di un olivo che aveva sradicato sull’Elicona. Eracle poi indossò la pelle della belva le cui fauci spalancate fungevano da elmo. Altri però dicono che egli si rivestì con la pelle del leone Nemeo, oppure di un’altra belva che uccise a Teumesso, presso Tebe, mentre il merito di aver ucciso il leone del Citerone spetta a Alcatoo.

Alcuni anni prima degli eventi ora narrati, durante la festa di Posidone a Onchesto, un incidente di poco conto suscitò la collera dei Tebani, e allora l’auriga Meneceo scagliò un sasso che ferì mortalmente il re Climeno, che discendeva da Minia. Climeno, agonizzante, fu riportato a Orcomeno e laggiù, mentre esalava l’ultimo respiro, ingiunse ai propri figli di vendicarlo. Il maggiore di costoro, Ergine, che ebbe come madre la principessa beota Budea o Buzige, raccolse un esercito, marciò contro i Tebani e rovinosamente li sconfisse, Secondo i termini della resa, confermati da solenni giuramenti, i Tebani avrebbero dovuto pagare a Ergino un tributo annuale di cento capi di bestiame, per venti anni di seguito, in espiazione dell’assassinio di Climeno. Eracle, di ritorno dall’Elicona, si imbatté negli araldi mini che venivano a raccogliere il bestiame in terra tebana. Eracle chiese quale fosse la meta del loro viaggio, ed essi con tono sprezzante risposero che dovevano ricordare ai Tebani l’atto di clemenza di Ergino, il quale si era limitato a esigere una mandria di cento capi invece di mozzare le orecchie, il naso e le mani di ogni cittadino di Tebe. «Un simile tributo sta davvero tanto a cuore a Ergine?» replicò Eracle furibondo. Poi mutilò gli araldi nel modo da essi descritto, e li rimandò a Orcomeno, le estremità sanguinanti legate con una corda attorno al collo. Quando Ergino pretese che gli si consegnasse l’autore di così oltraggioso misfatto, re Creonte sarebbe stato disposto a obbedire, perché i Mini avevano disarmato i Tebani; ne egli poteva sperare nell’amichevole intervento dei suoi vicini in una situazione tanto grave. Ma Eracle convinse i camerati più giovani a battersi per la libertà. Si recò allora in tutti i templi della città, raccolse le lance, gli scudi, gli elmi, le corazze, gli schinieri e le spade che erano stati offerti agli dei in ricordo di vittoriose battaglie, e Atena, che molto apprezzò quel gesto, li adattò alla corporatura di Eracle e dei suoi amici. Così Eracle poté equipaggiare ogni Tebano in età di combattere, gli insegnò l’uso delle armi ed egli stesso assunse il comando dell’esercito. Un oracolo gli promise la vittoria se la persona che avesse i più nobili natali in Tebe si fosse tolta la vita. Tutti gli sguardi si appuntarono allora su Antipeno, un discendente degli Sparti, ma visto che egli indugiava a morire per il bene comune, le sue figlie Androclea e Aloide si sacrificarono in vece sua, e furono in seguito onorate come eroine nel tempio di Artemide. I Mini frattanto si preparavano a marciare su Tebe, ma Eracle tese loro un’imboscata in uno stretto valico, uccise Ergino e la maggior parte dei capitani. Questa vittoria, ottenuta con un pugno d’uomini, fu subito sfruttata da Eracle che calò su Orcomeno, ne abbatté le porte, saccheggiò il palazzo reale e obbligò i Mini a pagare a Tebe un doppio tributo. Inoltre ostruì i due canali, costruiti dagli antichi Mini per irrigare i loro ricchi campi di grano con le acque del Cefiso. Scopo principale di questo attacco fu immobilizzare la cavalleria dei Mini, loro arma più temibile, e di condurre la guerra sulle colline, dove Eracle poteva battersi con eguale vantaggio; ma poiché egli era sinceramente amico di tutto il genere umano, in seguito sgombrò di nuovo quei canali. Il tempio di Eracle Legatore di cavalli a Tebe ricorda un episodio di quella campagna: Eracle si introdusse di notte nel campo nemico e, dopo aver rubato i cavalli che legò a degli alberi in una località molto lontana, passò i guerrieri addormentati a fil di spada. Sventuratamente Anfitrione, suo padre putativo, fu ucciso nella battaglia. Al suo ritorno a Tebe, Eracle dedicò un altare a Zeus Protettore, un leone di pietra ad Artemide e due altri simulacri pure di pietra ad Atena Armata. Dato che gli dei non avevano punito Eracle per il trattamento inflitto ai messaggeri di Ergine, i Tebani si permisero di onorarlo con una statua, detta di Eracle che mozza i nasi. Secondo un’altra versione, Ergine sopravvisse alla sconfitta dei Mini e fu uno degli Argonauti che riportarono il Vello d’Oro dalla Colchide. Per molti anni egli si adoperò a ricostituire la perduta fortuna, e alla fine si ritrovò di nuovo ricchissimo, ma vecchio e senza prole. Un oracolo gli consigliò di mettere un nuovo coltellaccio sul logoro coltro dell’aratro, e allora Ergine sposò una giovane moglie, che gli generò Trofoni e Agamede, i famosi architetti, e anche Azeo.

La vittoria sui Mini fece di Eracle l’eroe più famoso di tutta la Grecia e come ricompensa re Creonte gli diede in sposa sua figlia Megara o Megera e lo nominò protettore della città, mentre Ificle sposò la figlia più giovane. Alcuni dicono che Eracle ebbe due figli da Megara; altri, che ne ebbe tre, quattro e persino otto. Essi sono chiamati gli Alcaldi. Eracle in seguito sconfisse Pirecmo, re degli Eubei, che aveva marciato su Tebe a fianco dei Mini; e sparse il terrore in Grecia ordinando che il suo corpo fosse legato a due cavalli che galoppavano in opposte direzioni e, così dilaniato, fosse poi esposto senza sepoltura sulle rive del Eracleo, in un punto detto dei Puledri di Pirecmo, ancora si sente l’eco di un nitrito quando vi si portai cavalli all’abbeverata. Era, seccata dai successi di Eracle, lo fece impazzire. Dapprima egli assalì il suo carissimo nipote Iolao, il figlio maggiore di Ificle, che riuscì a sfuggire ai suoi attacchi; poi, scambiando sei dei propri figli per dei nemici, li passò a fil di spada e ne gettò i corpi su un rogo, con i cadaveri di altri due figli di Ificle: tutti assieme, i ragazzi stavano facendo esercizi militari. I Tebani celebrano ogni anno una festa in onore di queste otto vittime. Il primo giorno si offrono sacrifici e i fuochi ardono per tutta la notte; il secondo si svolgono i giochi funebri e il vincitore è incoronato con bianco mirto. I celebranti piangono al ricordo del brillante destino che attendeva i figli di Eracle. Uno di essi avrebbe governato su Argo, occupando il trono di Euristeo, ed Eracle avrebbe gettato la pelle del leone sopra le sue spalle; un altro sarebbe divenuto re di Tebe, e nella sua destra Eracle avrebbe posto la mazza della difesa, equivoco dono di Dedalo; a un terzo era stata promessa Ecalia, che in seguito Eracle rase al suolo; le spose più degne erano state scelte per ciascuno di loro e garantivano alleanze con Atene, Tebe e Sparta. Così grande affetto Eracle nutriva per questi suoi figli, che taluni ora negano che egli li abbia uccisi e preferiscono supporre che i giovani fossero assassinati a tradimento da qualcuno degli ospiti di Eracle: da Lieo, forse; o, come pensa Socrate, da Augi.

Quando Eracle ricuperò la ragione, si chiuse in una camera buia per alcuni giorni, evitando il contatto con i suoi simili; poi, purificato da re Tespio, si recò a Delfi per chiedere che cosa dovesse fare. La Pizia si rivolse a lui chiamandolo per la prima volta Eracle e non Palemone e gli consigliò di fissare la sua residenza a Tirinto, di servire Euristeo per dodici anni e di compiere tutte le Fatiche che Euristeo stesso ritenesse opportuno di imporgli. Come compenso gli sarebbe stata concessa l’immortalità. A tale annuncio Eracle cadde in una cupa disperazione, poiché gli ripugnava di servire un uomo che sapeva essergli di molto inferiore; tuttavia non osava opporsi al volere di Zeus. Molti amici lo confortarono in quella circostanza; e infine, quando il passar del tempo ebbe in qualche modo alleviato il suo dolore, egli si mise a disposizione di Euristeo. Altri tuttavia ritengono che soltanto al suo ritorno dal Tartaro Eracle impazzì e uccise i suoi figli; secondo costoro egli uccise anche Megara e la Pitonessa gli disse: «Tu non sarai più chiamato Palemone! Apollo ti da il nome di Eracle, poiché Era ti concede fama imperitura tra i mortali!» Come se egli avesse reso alla dea un grande servigio. Altri ancora dicono che Eracle fu l’amante di Euristeo e che compì le dodici Fatiche per fargli piacere; e altri, infine, che egli accettò di addossarsi tali fatiche purché Euristeo annullasse la sentenza di esilio pronunciata contro Anfitrione. Fu detto che, quando Eracle iniziò le sue Fatiche Ermete gli donò una spada. Apollo un arco con frecce ben levigate e adorne di piume d’aquila, Efesto una corazza d’oro e Atena un mantello. Oppure che Atena gli donò la corazza ed Efesto bronzei schinieri e un elmo adamantino. Atena ed Efesto, a quanto pare, gareggiarono nel beneficare Eracle: l’una gli concesse di apprezzare le gioie domestiche, l’altro gli assicurò protezione nei pericoli della guerra. Una coppia di cavalli fu il dono di Poseidone; quello di Zeus un magnifico e infrangibile scudo. Molte leggende nacquero attorno a questo scudo che era di smalto, avorio, elettro, oro e lapislazzuli. Inoltre, le teste di dodici serpenti incise tutt’attorno alla fascia dello scudo facevano scattare le fauci ogni qualvolta Eracle iniziava una battaglia, terrificando i suoi avversari. Eracle, in verità, disprezzava le armature e, dopo la sua prima Fatica, non portava con sé nemmeno la lancia: si affidava alla clava, all’arco e alle frecce. Raramente si servì della clava dalla bronzea punta che gli aveva donato Efesto, preferendole quelle che egli stesso aveva ricavate da un tronco di oleastro: la prima sull’Elicona, nei pressi di Nemea, la seconda sulle spiagge del mare Saronico. Quest’ultima fu la clava che, nel corso della sua visita a Trezene, egli lasciò ai piedi del simulacro di Ermete. Il legno attecchì, germogliò, ed è ora un albero maestoso. Iolao, nipote di Eracle, partecipò alle sue Fatiche come auriga o come reggitore di scudo.

Vai a: Le dodici fatiche di Eracle: 1) Il leone di Nemea; 2) L’idra di Lerna

ll mito di Eracle, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves

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Il mito di Eracle (Parte 1 di 11): nascita e giovinezza

Il mito di Eracle (Parte 1 di 11): nascita e giovinezza

Il racconto del mito di Eracle è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 15: Eracle – L’eroe più popolare

Prolegomena –  Elettrione, figlio di Perseo, gran re di Micene e marito di Anasso, marciò assetato di vendetta contro i Tafi e i Telebani. Essi si erano riuniti per razziare il bestiame di Elettrione, seguendo il consiglio di un certo Pterelao, pretendente al trono di Micene; e nello scontro che seguì perirono gli otto figli di Elettrione. Durante la sua assenza, suo nipote, Anfitrione, re di Trezene, assunse la carica di reggente. «Governa con saggezza e, quando tornerò vittorioso, potrai sposare mia figlia Alcmena», disse Elettrione salutandolo. Anfitrione, informato dal re dell’Elide che la mandria rubata era in suo possesso, pagò il forte riscatto richiesto e poi mandò a chiamare Elettrione perché identificasse il bestiame. Elettrione, per nulla soddisfatto all’idea di dover rifondere ad Anfitrione la somma del riscatto, gli chiese bruscamente quale diritto avessero gli Elei di vendere la roba rubata, e perché mai Anfitrione aveva ammesso tale frode. Senza degnarsi di rispondere, Anfitrione diede sfogo alla propria ira scagliando un bastone contro una delle vacche che si erano scostate dalla mandria; il bastone le batté contro le corna, rimbalzò e uccise Elettrione. Anfitrione allora fu bandito dall’Argolide da suo zio Stenelo, che si impadronì di Micene e di Tirinto e affidò il resto del regno, con Midea come capitale, ad Atreo e a Tieste, figli di Pelope.

Anfitrione accompagnato da Alcmena fuggì a Tebe, dove re Creonte lo purificò e diede in sposa sua sorella Perimeda all’unico figlio superstite di Elettrione, Licinnio, un bastardo nato da una donna frigia chiamata Midea. Ma la pia Alcrnena non volle giacersi con Anfitrione finché egli non avesse vendicato la morte degli otto fratelli di lei. Creonte gli concesse di reclutare un esercito di Beoti, a patto che egli liberasse i Tebani dalla volpe Teumessia; e Anfitrione vi riuscì, chiedendo a prestito il famoso cane Leiape a Cefalo l’Ateniese. Poi, aiutato da contingenti ateniesi, focesi, argivi e locresi, Anfitrione sopraffece i Telebani e i Tafì e consegnò le loro isole ai suoi alleati, tra i quali era anche lo zio di Anfitrione, Eleo.

Frattanto, approfittando dell’assenza di Anfitrione, Zeus ne assunse l’aspetto e si presentò ad Alcmena, le assicurò che i suoi fratelli erano ormai vendicati (infatti Anfitrione aveva ottenuto la sospirata vittoria quel mattino stesso) e giacque con lei per una notte che egli fece durare quanto tre. Ermete, per ordine di Zeus, aveva indotto Elio a spegnere i fuochi solari e a trascorrere il dì seguente a casa, mentre le Ore staccavano i cavalli dal suo carro; la procreazione di un grande eroe quale Zeus aveva in mente non era infatti cosa che si potesse sbrigare in fretta. Elio obbedì, rimpiangendo tuttavia i vecchi tempi, quando il giorno era il giorno e la notte la notte e quando Crono, allora dio onnipotente, non abbandonava la moglie fedele per andarsene a Tebe in cerca di avventure. Ermete poi ordinò alla Luna di rallentare il suo corso, e al Sonno di intorpidire le menti degli uomini affinché non si accorgessero di quanto stava accadendo. Alcmena, tratta in inganno, ascoltò con gioia quanto Zeus le raccontava sulla clamorosa sconfitta inflitta a Pterelao a Ecalia, e godette innocentemente delle gioie coniugali col suo supposto marito per trentasei ore intere. Il giorno seguente, quando Anfitrione ritornò, esaltato dalla vittoria e dalla passione per Alcmena, non fu accolto nel letto coniugale col trasporto che si aspettava. «Non abbiamo dormito affatto la scorsa notte», si lagnò Alcmena, «e spero che tu non voglia raccontarmi daccapo la storia delle tue gloriose imprese». Anfitrione, che non riusciva a capire il significato di quella frase consultò il veggente Tiresia e seppe di essere stato cornificato da Zeus; in seguito non osò più giacere con sua moglie, per paura di incorrere nella gelosia divina.

Nascita di Eracle – Nove mesi dopo, sull’Olimpo, Zeus si vantò di aver procreato un figlio, ora sul punto di nascere, che sarebbe stato chiamato Eracle, e cioè «gloria di Era» e avrebbe governato sulla nobile casa di Perseo. Era allora gli fece promettere che il primo principe della casa di Perseo nato anzi il calar del sole sarebbe stato gran re. Quando Zeus ebbe pronunciato un solenne giuramento a questo proposito. Era si recò subito a Micene, dove affrettò le doglie di Nicippe, moglie di re Stenelo. Poi si precipitò a Tebe e sedette a gambe incrociate dinanzi alla porta di Alcmena, con i lembi della veste annodati e le dita congiunte; in tal modo riuscì a ritardare la nascita di Eracle, finché fu certa che Euristeo figlio di Stenelo, un bimbo nato settimino, fosse già nella culla. Quando Eracle venne alla luce, un’ora troppo tardi, si scoprì che aveva un gemello, che fu chiamato Ificle, figlio di Anfitrione e più giovane di lui di una notte. Ma altri dicono che Eracle, e non Ificle, era più giovane di una notte; e altri ancora, che i due gemelli furono generati la medesima notte e nacquero assieme e il padre loro Zeus illuminò di luce divina la stanza del parto. Dapprima Eracle fu chiamato Alceo o Palemone. Quando Era risalì all’Olimpo e soddisfatta si vantò di essere riuscita a tenere lontana Ilizia, dea del parto, dalla soglia di Alcmena, Zeus fu colto da una collera violentissima; afferrata sua figlia maggiore Ate, che l’aveva reso cieco all’inganno di Era, giurò solennemente che non avrebbe mai più rivisto l’Olimpo; poi la fece roteare sopra la propria testa stringendone fra le dita la bionda chioma e la scaraventò sulla terra. Benché Zeus non potesse rimangiarsi il giuramento e permettere a Eracle di governare sulla casa di Perseo, persuase tuttavia Era ad acconsentire che, dopo aver compiuto dodici fatiche impostegli da Euristeo a suo piacimento, il giovane sarebbe divenuto un dio.

Ora, contrariamente a quanto era accaduto per i suoi precedenti amori mortali, da Niobe in poi, Zeus non scelse Alcmena soltanto per il suo piacere, benché essa superasse tutte le contemporanee per bellezza, dignità e saggezza, ma con il proposito di generare un figlio tanto forte da impedire lo sterminio degli uomini e degli dei. Alcmena, la sedicesima discendente della stessa Niobe, fu l’ultima donna mortale con la quale Zeus si giacque, poiché in nessun’altra egli sperava di generare un eroe che eguagliasse Eracle; e tenne Alcrnena in così gran conto che, invece di violentarla bruscamente, si prese la briga di assumere le sembianze di Anfitrione e di sedurla con parole affettuose e carezze. Egli sapeva che Alcmena era incorruttibile e quando, all’alba, le offrì una coppa carchesia, essa l’accettò con naturalezza, come parte del bottino di guerra: un dono che Telebo aveva avuto da suo padre Posidone.

Altri dicono che Era non scese dall’Olimpo per ritardare il parto di Alcmena, ma affidò quel compito alle streghe, e che Istoride, figlia di Tiresia, le ingannò lanciando un grido di gioia nella camera del parto, che ancor oggi si può visitare a Tebe. Le streghe allora se ne andarono e permisero al bimbo di nascere. Secondo altri, fu Ilizia che ostacolò il travaglio per ordine di Era; la fedele serva di Alcmena, la bionda Galantide, o Galena, lasciò la camera del parto per annunciare, mentendo, che Alcmena si era sgravata. Quando Ilizia balzò in piedi stupita, allargando le dita e raddrizzando le ginocchia. Eracle nacque e Galantide rise per la buona riuscita del suo inganno; Ilizia, infuriata, l’afferrò per i capelli e la tramutò in donnola. Galantide continuò a frequentare la casa di Alcmena, ma Era la punì per aver mentito: fu condannata per sempre a partorire dalla bocca. Quando i Tebani tributano a Eracle onori divini, offrono sacrifici preliminari a Galantide, chiamata anche Galintiade e descritta come la figlia di Preto; dicono che essa fu la nutrice di Eracle e che Eracle stesso le eresse un santuario. Gli Ateniesi ridono di questa leggenda tebana e sostengono che Galantide era una prostituta, tramutata in donnola da Era per aver indulto a pratiche lussuriose contro natura; per caso capitò dinanzi alla casa di Alcmena in travaglio e la spaventò tanto da accelerare il parto di Eracle. L’anniversario della nascita di Eracle è festeggiato il quarto giorno di ogni mese; ma taluni sostengono che egli nacque quando il Sole entrò nella decima costellazione; e altri che la Grande Orsa, inclinandosi a mezzanotte verso Orione, cosa che accade quando il Sole esce dalla dodicesima costellazione, abbassò lo sguardo su Eracle che aveva allora dieci mesi.

Eracle diviene immortale – Alcmena, che temeva la gelosia di Era, abbandonò il suo bimbo neonato in un campo, fuori delle mura di Tebe; e colà, per istigazione di Zeus, Atena condusse Era a passeggiare. «Guarda, mia cara, che bimbo eccezionalmente robusto!» disse Atena simulando sorpresa mentre si chinava per prendere Eracle tra le braccia. «Sua madre deve aver perduto il senno per abbandonarlo così in questo campo sassoso! Suvvia, tu hai del latte, danne a questa povera creatura!» Sconsideratamente, Era prese il bambino e si denudò il petto, ed Eracle vi si attaccò con tanta forza che la dea gemendo per il dolore lo allontanò da sé; un getto di latte volò verso il cielo e divenne la Via Lattea. «Quale mostro è mai questo bambino!» gridò Era. Ma ormai Eracle era immortale e Atena sorridendo lo restituì ad Alcmena, raccomandandole di averne cura e di farlo crescere bene. I Tebani ancor oggi mostrano il luogo dove Era fu così ingannata; il campo è chiamato «Pianura di Eracle». Taluni tuttavia dicono che Ermete portò Eracle neonato sull’Olimpo; che Zeus stesso lo posò sul petto di Era mentre la dea dormiva; e che la Via Lattea si formò quando Era, destatasi, lo allontanò da sé, oppure quando Eracle, avendo succhiato più latte di quanto la sua bocca ne potesse contenere, lo rigurgitò. In ogni caso, Era fu la madre adottiva di Eracle, seppure per breve tempo, e i Tebani perciò lo considerano addirittura suo figlio e dicono che egli si chiamava Alceo prima che la dea lo allattasse, e gli fu poi mutato il nome in onore di lei.

I serpenti e la culla – Una sera, quando Eracle aveva otto o dieci mesi o, come altri sostengono, un anno, e non era ancora svezzato, Alcmena, dopo aver lavato e allattato i gemelli, li coricò sotto una coperta di vello di agnello in una culla di bronzo che Anfitrione aveva riportato come bottino dalla sua vittoria su Pterelao. A mezzanotte Era mandò due prodigiosi serpenti dalle scaglie azzurrine nella casa di Anfitrione, col severo ordine di uccidere Eracle. Le porte si aprirono dinanzi a loro ed essi scivolarono sui marmorei pavimenti sino alla camera dei bambini; fiamme schizzavano dai loro occhi e veleno gocciolava dalle loro fauci. I gemelli si destarono e videro i serpenti inarcarsi dinanzi a loro, dardeggiando le lingue biforcute: poiché Zeus di nuovo illuminò la camera di luce divina. Ificle strillò, gettò via le coperte scalciando e nel tentativo di fuggire cadde dalla culla. Le sue grida atterrite, la strana luce che brillava nella camera dei bambini, destarono Alcmena. «Alzati, Anfitrione!» essa gridò. Senza nemmeno indugiare per infilarsi i sandali. Anfitrione balzò dal letto di legno di cedro, afferrò la spada che stava appesa alla parete e la sfilò dal lucido fodero. In quel momento la luce nella camera dei bambini si spense. Gridando agli schiavi addormentati di portare delle torce, Anfitrione varcò la soglia: ed Eracle, che non aveva lanciato nemmeno un gemito, tutto
fiero gli mostrò i serpenti che egli stava strangolando, uno per mano. Appena furono morti, Eracle rise, fece balzi di gioia e gettò i rettili ai piedi di Anfitrione. Mentre Alcmena confortava l’atterrito Ificle, Anfitrione fece coricare Eracle, gli rimboccò le coperte e tornò a letto. All’alba, quando il gallo ebbe cantato tre volte, Alcmena fece venire il vecchio Tiresia e gli parlò del prodigio. Tiresia, dopo aver previsto future glorie per Eracle, consigliò ad Alcmena di innalzare un rogo con legna secca di erica, pruno selvatico e rovo, e di bruciarvi sopra a mezzanotte i serpenti. Il mattino seguente un’ancella doveva raccogliere le loro ceneri, portarle sulla roccia dove un tempo stava accoccolata la Sfinge e spargerle ai quattro venti, per poi fuggire senza voltarsi mai. Al suo ritorno bisognava purificare il palazzo con fumi di zolfo e acqua di sorgente salata, e corornarne il tetto con rami di ulivo selvatico. Infine, dovevasi sacrificare un cinghiale sul sommo altare di Zeus. E Alcmena fece tutto ciò. Ma altri dicono che i serpenti erano innocui, e posti nella culla da Anfitrione stesso che voleva sapere quale dei due gemelli fosse suo figlio, e lo seppe.

Giovinezza di Eracle – Quando Eracle non fu più un bambino. Anfitrione gli insegnò a guidare il cocchio e a girare attorno alla meta senza sfiorarla. Castore gli diede lezioni di scherma, lo istruì nell’arte di maneggiare le armi e nella tattica di cavalleria e fanteria. Uno dei figli di Ermete fu il suo maestro di pugilato: o Autolico o Arpalico, così orrendo a vedersi quando combatteva che nessuno osava affrontarlo. Eurito gli insegnò a maneggiare l’arco, o forse lo fu scita Teutaro, uno dei mandriani di Anfitrione, o forse lo stesso Apollo,5 Ma Eracle superò tutti gli arcieri che fossero mai esistiti e persino il suo compagno Alcone, padre di Palerò l’Argonauta, che sapeva trapassare una serie di anelli posti sugli elmi dei soldati in fila o fendere una freccia in bilico sulla punta di una lancia. Un giorno, quando suo figlio fu attaccato da un serpente che lo avvolse nelle proprie spire, Alcone scoccò una freccia con tanta abilità da uccidere il serpente senza nemmeno scalfire il ragazzo. Eumolpo insegnò a Eracle a cantare e a suonare la lira; mentre Lino, figlio del dio del fiume Ismenio, lo introdusse allo studio della letteratura. Un giorno, durante l’assenza di Eumolpo, Lino volle dare a Eracle lezioni di lira; il ragazzo si rifiutò di seguire princìpi diversi da quelli impartitigli da Eumolpo e, fustigato in punizione della sua caparbietà, uccise Lino con un colpo di lira. Processato per assassinio, Eracle citò la legge di Radamanto che giustificava l’uso della violenza contro un aggressore, e si assicurò così l’assoluzione. Anfitrione, tuttavia, temendo che il ragazzo potesse commettere altri crimini, lo mandò a pascolare le mandrie in un suo possedimento agreste, e colà egli visse fino al suo diciottesimo anno, sopravanzando tutti i coetanei per statura, forza e coraggio. Fu prescelto per reggere l’alloro durante la processione di Apollo Ismenio e i Tebani ancora conservano 11 tripode che Anfitrione consacrò per lui in quella occasione. Non si sa chi insegnò a Eracle l’astronomia e la filosofia, però egli era assai dotto in ambedue gli argomenti.

Aspetto fisico di Eracle – Di solito si attribuisce a Eracle una statura di quattro cubiti. Ma poiché egli misurò col proprio passo lo stadio di Olimpia, fissandone la lunghezza in seicento piedi, e poiché gli stadi greci di epoca più tarda, lunghi teoricamente seicento piedi, risultarono molto più corti di quello di Olimpia, il saggio Pitagora ne dedusse che la lunghezza del passo di Eracle, e di conseguenza la sua statura, stavano al passo e alla statura, degli altri mortali come la lunghezza dello stadio olimpico stava alla lunghezza degli altri stadi. In base a questo calcolo stabilì che Eracle era alto quattro cubiti e un piede, ma altri sostengono che egli non superava la statura normale. Gli occhi di Eracle lampeggiavano come fuoco ed egli aveva una mira infallibile, sia col giavellotto sia con l’arco. Mangiava parcamente a mezzogiorno; per cena il suo cibo favorito era carne arrostita e ciambelle d’orzo cotte alla maniera dorica; e ne divorava tante (seppur la storia è credibile) da indurre uno dei suoi mandriani a borbottare: «Basta!» Indossava una tunica corta e linda, e preferiva trascorrere la notte sotto la volta stellata anziché al coperto.Una profonda conoscenza della scienza augurale lo induceva a salutare con gioia il passaggio di avvoltoi nel cielo, ogni volta che egli dovesse iniziare una nuova Fatica. «Gli avvoltoi», pare dicesse, «sono i più onesti fra gli uccelli: non attaccano mai le creature viventi.» Eracle si vantava di non aver mai iniziato un litigio, ma di aver sempre trattato i suoi aggressori così come essi volevano trattare lui. Un certo Termero usava uccidere i viandanti sfidandoli a battersi con lui a testate; il cranio di Eracle si dimostrò il più solido ed egli spaccò la testa di Termero come se fosse un uovo. Eracle, tuttavia, era cortese per natura, e fu il primo mortale che spontaneamente restituì ai nemici le spoglie dei loro morti perché le seppellissero.

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ll mito di Eracle, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves

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Recensione: Eracle – L’eroe più popolare

Recensione: Eracle – L’eroe più popolare

“Dice un proverbio antico, diffuso tra i mortali, che il bilancio di una vita, se sia misera o felice, si può fare soltanto quando è ormai finita.” (Sofocle, Trachinie, vv. 1-3)

Dal risvolto di copertina: “Non legato a una città o a una stirpe, Eracle (divenuto Hercules nel pantheon romano) è in verità l’unico “eroe nazionale” dei Greci, il più popolare, il più raffigurato, il protagonista di miti innumerevoli. Dotato di una forza e di un coraggio eccezionali, va in giro da cittadino del mondo a liberare la terra dai mostri e gli uomini dalla soggezione a essi, a sterminare gli animali che devastano il territorio dell’uomo, a eliminare malfattori, sacrileghi, tracotanti, a ristabilire la giustizia violata. È un benefattore e un civilizzatore (si deve a lui l’istituzione delle Olimpiadi), ma è anche violento, distruttivo, portato all’eccesso e alla dismisura. Conosce anche le cocenti sconfitte, l’ingiusta persecuzione della dea Hera nei suoi confronti, l’abisso del dolore nel momento in cui uccide senza volerlo la moglie e i figli. La compresenza, anche varia e discorde, di tanti aspetti dell’esistenza umana trova il suo sigillo positivo nell’assunzione tra gli dèi dell’Olimpo, un destino a lui riservato, unico fra gli eroi..”

Dall’introduzione di Giulio Guidorizzi: “Eracle incarna alcuni valori fondamentali della società aristocratica più antica: il coraggio intrepido, la forza smisurata, la lealtà verso gli amici, la spietatezza verso i nemici, il rispetto delle leggi dell’onore. C’è un Eracle primitivo, tutto forza e ardimento, guerriero; un Eracle sofferente (raffigurato, tra l’altro, da Euripede), più aperto a valori umani; un Eracle civilizzato, che esprime la prospettiva di una società evoluta.”

Oltre alla narrazione del mito, il volume contiene anche approfondimenti sulla sua fortuna nel corso dei secoli, in tutte le forme artistiche: letteratura (con una ricca antologia di testi classici sul mito), pittura, teatro, cinema. Inoltre vi è una tavola genealogica, e un ricco apparato bibliografico e sitografico. Il volume su Eracle è curato da Salvatore Nicosia, professore emerito di Lingua e Letteratura greca presso l’università di Palermo. Qui gli ultimi volumi pubblicati.

L’intera collana di trenta volumi è a cura di Giulio Guidorizzi. Guidorizzi è grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e antropologia del mondo antico. Ha scritto numerosi libri sulla mitologia. Noi vi consigliamo, per iniziare, il suo bellissimo Il mito greco (in due volumi, usciti nel 2009 e nel 2012). Qui una lista di suoi volumi sul mito greco.

Il racconto del mito di Eracle.
Il piano dell’opera “Grandi Miti Greci” e recensioni agli altri volumi.

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Il mito di Ade e Persefone

Il mito di Ade e Persefone

Il racconto del mito di Ade e Persefone è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 12: Ade e Persefone – Gli dèi degli Inferi.

Quando le ombre scendono al Tartaro, il cui ingresso principale si trova in un bosco di bianchi pioppi presso il fiume Oceano, ciascuna di esse è munita di una moneta, che i parenti le hanno posto sotto la lingua. Possono così pagare Caronte, il tristo nocchiero che guida la barca al di là dello Stige. Questo lugubre fiume delimita il Tartaro a occidente e ha come suoi tributari l’Acheronte, il Flegetonte, il Cocito, l’Averno e il Lete. Le ombre prive di denaro debbono attendere in eterno sulla riva, a meno che non riescano a sfuggire a Ermes, la loro guida, introducendosi nel Tartaro da un ingresso secondario, come Tenaro in Laconia o Aorno nella Tesprozia. Un cane con tre teste (o con cinquanta teste, come altri sostengono), chiamato Cerbero, monta la guardia sulla sponda opposta dello Stige, pronto a divorare i viventi che tentino di introdursi laggiù, o le ombre che tentino di fuggire. Nella prima zona del Tartaro si trova la triste Prateria degli Asfodeli, dove le anime degli eroi vagano senza meta tra la turba dei morti meno illustri che svolazzano qua e là come pipistrelli, e dove soltanto Orione ha ancora cuore di cacciare ombre di daini. Ciascuna di loro preferirebbe vivere come servo di un umile contadino anziché soggiornare come sovrano nel Tartaro. Unico loro piacere è bere il sangue delle libagioni offerte dai vivi: poi si sentono ancora uomini, almeno in parte. Oltre questa prateria si trovano l’Erebo e il palazzo di Ade e di Persefone. Alla sinistra del palazzo, un bianco cipresso ombreggia la fonte di Lete, dove le ombre comuni si radunano per bere. Ma le ombre iniziate evitano quelle acque e preferiscono dissetarsi alla fonte della Memoria, ombreggiata da un pioppo bianco, e la cui acqua da loro “certi vantaggi sugli altri compagni di sventura.” Lì accanto, le ombre appena scese nel Tartaro vengono giudicate da Minosse, Radamante e Baco, in un punto dove tre strade si incrociano. Radamante giudica gli asiatici ed Eaco gli europei; i casi più difficili vengono sottoposti a Minosse. Al termine di ogni giudizio le ombre vengono indirizzate lungo una delle tre strade: la prima conduce alla Prateria degli Asfodeli dove si riuniscono coloro che non furono né virtuosi né malvagi; la seconda al campo di punizione del Tartaro, destinata ai malvagi; la terza ai Campi Elisi destinati ai virtuosi.
I Campi Elisi, su cui impera Crono, si trovano presso il palazzo di Ade e il loro ingresso è accanto alla fonte della Memoria; essi sono un luogo di gioia dove splende perpetuo il giorno, non vi è mai gelo ne cade la neve, ma si svolgono (vaghi a suon di musica e le ombre che vi trovano possono rinascere e tornare sulla terra se ciò loro aggrada. Poco più oltre si trovano le Isole Beate, riservate a coloro che nacquero tre volte e ogni volta vissero virtuosamente. Taluni dicono che un’altra isola fortunata, chiamata Leuce, si trovi nel Mar Nero, di fronte alle foci del Danubio; essa è boscosa e ricca di selvaggina. Colà albergano le ombre di Elena e di Achille e declamano versi di Omero agli eroi che presero parte agli eventi da lui celebrati.

Ade, che è orgoglioso e geloso delle proprie prerogative, sale raramente nel Mondo Superiore, e soltanto per sbrigare faccende urgenti o mosso da improvvisa brama lussuriosa. Un giorno abbacinò la Ninfa Minta con lo splendore del suo cocchio dorato trainato da quattro cavalli neri, e l’avrebbe sedotta senza difficoltà se la regina Persefone non fosse apparsa appena in tempo per trasformare Minta in un’erba menta dal dolce profumo. In un’altra occasione Ade tentò di violentare la Ninfa Leuce, che fu trasformata nel bianco pioppo presso la fontana della Memoria. Ade non permette ad alcuno dei suoi sudditi di fuggire, e pochi di coloro che visitano il Tartaro possono tornare vivi sulla terra per descriverlo. E ciò fa di Ade il più odiato di tutti gli dei. Ade non sa che cosa accade nel Mondo Superiore o sull’Olimpo; gli giungono soltanto frammentarie notizie quando i mortali tendono la mano sopra la terra e lo invocano con giuramenti o maledizioni. Tra le cose a lui più care vi è un elmo che lo rende invisibile, dategli in segno di gratitudine dai Ciclopi quando egli consentì a liberarli per ordine di Zeus. Tutte le ricche gemme e i preziosi metalli celati sottoterra appartengono ad Ade, ma egli non ha possedimenti sopra la superficie terrestre, salvo certi oscuri templi in Grecia e, forse, una mandria di bestiame nell’isola Erizia; mandria che, secondo altri, apparterrebbe invece a Elio.

La regina Persefone sa essere benigna e misericordiosa. Essa è fedele ad Ade, ma non ha avuto figli da lui e gli preferisce la compagnia di Ecate, dea delle streghe. Zeus stesso onora Ecate tanto che non le tolse l’antica prerogativa di cui sempre godette: di poter concedere o negare ai mortali qualsiasi dono desiderato. Essa ha tre corpi e tre teste: di leone, di cane e di giumenta.
Tisifone, Aletto e Megera, le Erinni o Furie, vivono nell’Erebo e sono più vecchie di Zeus e di tutti gli olimpi. Loro compito è ascoltare le lagnanze mosse dai mortali contro l’insolenza dei giovani nei riguardi dei vecchi, dei figli nei riguardi dei genitori, degli ospitanti nei riguardi degli ospiti e delle assemblee dei cittadini nei riguardi dei supplici, e di punire tali crimini inseguendo senza posa i colpevoli, di città in città, di regione in regione. Le Erinni sono vegliardo, anguicrinite, con teste di cane, corpi neri come il carbone, ali di pipistrello e occhi iniettati di sangue. Stringono nelle mani pungoli dalle punte di bronzo e le loro vittime muoiono in preda ai tormenti. Non conviene citare il loro nome nel corso di una conversazione; ecco perché di solito le si chiama Eumenidi, che significa «le gentili», e si parla di Ade come di Plutone o Pluto, cioè il «ricco».

Demetra perdette tutta la naturale gaiezza quando le fu rapita la figlia Core, in seguito chiamata Persefone. Ade si innamorò di Core e si recò da Zeus per chiedergli il permesso di sposarla. Zeus temeva di offendere il fratello maggiore con un rifiuto, ma sapeva d’altronde che Demetra non l’avrebbe mai perdonato se Core fosse stata confinata nel Tartaro; rispose dunque diplomaticamente che non poteva ne negare ne concedere il suo consenso. Ade si sentì allora autorizzato a rapire la fanciulla mentre essa coglieva fiori in un prato, forse presso Enna in Sicilia o a Colono in Attica o a Ermione o in qualche punto dell’isola di Creta o presso Pisa o presso Lerna o presso Feneo in Arcadia o presso Nisa in Beozia, insomma in una delle molte regioni che Demetra percorse nella sua affannosa ricerca. Ma i sacerdoti della dea sostengono che il ratto avvenne a Eleusi. Demetra cercò Core per nove giorni e nove notti, senza mangiare ne bere e invocando incessantemente il suo nome. Riuscì a sapere qualcosa soltanto da Ecate, che un mattino all’alba aveva udito Core gridare «Aiuto! Aiuto!» ma, accorrendo in suo soccorso, non vide più traccia di lei. Il decimo giorno, dopo lo sgradevole incontro con Poseidone tra il branco di cavalli di Onco, Demetra giunse in incognito a Eleusi, dove re Celeo e sua moglie Metanira la accolsero ospitalmente, invitandola a rimanere presso di loro come nutrice di Demofoonte, il principino appena nato. La loro figlia zoppa, Giambe, cercò di consolare Demetra declamando versi lascivi e la balia asciutta, la vecchia Baubo, la indusse con un trucco a bere acqua d’orzo profumata alla menta: poi cominciò a gemere come se avesse le doglie e inaspettatamente tirò fuori di sotto le sottane il figlio di Demetra, Iacco, che balzò tra le braccia della madre e la baciò. «Oh, come bevi avidamente!» esclamò Abante, il figlio maggiore di Celeo; Demetra gli lanciò un’occhiataccia e Abante fu trasformato in lucertola. Pentita e un po’ vergognosa per l’accaduto, Demetra decise di fare un favore a Celeo rendendo immortale Demofoonte. La notte stessa lo tenne alto sopra il fuoco per bruciare tutto ciò che in lui era mortale. Metanira, che era figlia di Anfizione, entrò per caso nella stanza prima che la cerimonia fosse finita e ruppe l’incantesimo; così Demofoonte morì. «La mia casa è la casa della sventura!» gridò Celeo, piangendo l’amara fine dei suoi due figli, e per questo in seguito fu chiamato Disaule. «Asciuga le tue lacrime. Disaule», disse Demetra, «ti rimangono tre figli, tra i quali Trittolemo, cui io farò tali doni che scorderai la duplice perdita». Trittolemo infatti, che custodiva il bestiame del padre, aveva riconosciuto Demetra dandole le notizie che sperava: dieci giorni prima i suoi fratelli, Eumolpo, pastore, ed Eubuleo, porcaro, si trovavano nei campi; intenti a pascolare le loro bestie, quando la terra all’improvviso si squarciò, inghiottendo i maiali di Eubuleo sotto i suoi stessi occhi. Poi, con un pesante tambureggiar di zoccoli, apparve un carro trainato da cavalli neri e sparì nella voragine. Il volto del guidatore del carro era invisibile, ma egli stringeva saldamente sotto il braccio destro una fanciulla che lanciava alte strida. Eubuleo aveva narrato l’accaduto a Eumolpo. Avuta questa prova, Demetra mandò a chiamare Ecate e insieme si recarono da Elio che vede ogni cosa, costringendolo ad ammettere che Ade si era macchiato di quell’ignobile ratto, probabilmente con la connivenza di Zeus. Demetra era così furibonda che invece di risalire all’Olimpo continuo a vagare sulla terra impedendo agli alberi di produrre frutti e alle erbe crescere, tanto che la razza umana minacciava di perire. Zeus, che non osava recarsi da Demetra a Eleusi, le mandò dapprima un messaggio a mezzo di Iride (e Demetra disdegnò di riceverla), poi una deputazione di dei olimpi che recavano doni propiziatori. Ma Demetra rifiutò di tornare sull’Olimpo e giurò che la terra sarebbe rimasta sterile finché Core non le fosse stata restituita.

Un’unica soluzione si presentava ormai a Zeus. Egli affidò dunque a Ermete un messaggio per Ade: «Se non restituisci Core, siamo tutti rovinati»; e un altro a Demetra: «Potrai riavere tua figlia, purché essa non abbia ancora assaggiato il cibo dei morti». Poiché Core aveva rifiutato di mangiare sia pure una briciola di pane dal giorno del ratto. Ade fu costretto a mascherare la propria sconfitta e le disse con voce melliflua: «Mia cara, poiché mi sembra che tu sia tanto infelice, ti riporterò sulla Terra». Core subito cessò di versare lacrime e Ade la aiutò a salire sul carro. Ma nel momento in cui essa si preparava a partire per Eleusi, uno dei giardinieri di Ade, chiamato Ascalafo, cominciò a gridare in tono derisorio: «Ho visto la mia signora Core cogliere una melagrana nell’orto e mangiarne sette chicchi! Sono dunque pronto a testimoniare che essa ha assaggiato il cibo dei morti!» Ade sogghignò e disse ad Ascalafo di arrampicarsi dietro il cocchio di Ermete. A Eleusi, Demetra abbracciò felice la figlia; ma, udita la storia della melagrana ricadde in un profondo abbattimento e disse: «Non tornerò mai più sull’Olimpo e la mia maledizione continuerà a pesare sulla terra». Zeus indusse allora Rea, che era madre sua nonché di Ade e di Demetra, a interporre i suoi buoni uffici, e si giunse così a un compromesso: Core avrebbe trascorso ogni anno tre mesi in compagnia di Ade, come regina del Tartaro e col titolo di Persefone, e gli altri nove mesi in compagnia di Demetra. Ecate si assunse il compito di fare rispettare i patti e di sorvegliare costantemente Core. Demetra acconsentì finalmente a risalire sull’Olimpo. Prima di lasciare Eleusi, iniziò ai misteri Trittolemo, Eumolpo e Celeo, unitamente a Diocle, re di Fere, che l’aveva assiduamente aiutata nelle sue ricerche. Ma punì Ascalafo per aver riferito l’episodio della melagrana imprigionandolo in una fossa chiusa da un masso pesantissimo; Ascalafo fu in seguito liberato da Eracle, e Demetra allora lo trasformò in un barbagianni. La dea ricompensò anche con messi, abbondanti i Feneati dell’Arcadia, che l’avevano ospitata dopo l’oltraggio fattole da Posidone, ma proibì loro di raccogliere fave. Un certo Ciamite fu il primo che osò infrangere il divieto, e ora è a lui dedicato un tempio presso il fiume Cefiso.

ll mito di Ade e Persefone, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves

Il piano dell’opera “Grandi Miti Greci” e recensioni agli altri volumi.

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Il mito di Fedra

Il mito di Fedra

Il racconto del mito di Fedra è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 11: Fedra – L’insana passione.

Dopo le sue nozze con Fedra, Teseo mandò il figlio bastardo Ippolito da Pitteo, che lo adottò come suo erede al trono di Trezene. In tal modo Ippolito non avrebbe avuto ragione di contestare il trono di Atene ai suoi legittimi fratelli, Acamante e Demofoonte, figli di Fedra. Ippolito, che aveva ereditato da sua madre Antiope un’accesa devozione per la casta Artemide, innalzò alla dea un nuovo tempio in Trezene, non lontano dal teatro. Al che Afrodite, ben decisa a punire ciò che considerava un insulto a lei diretto, fece in modo che, mentre Ippolito partecipava ai Misteri Eleusini, Fedra si innamorasse perdutamente di lui. Ippolito indossava una bianca veste, aveva una corona in capo e, benché la sua espressione fosse dura e arcigna, a Fedra egli apparve stupendo e austero.

Poiché a quell’epoca Teseo si trovava in Tessaglia con Piritoo o forse nel Tartaro, Fedra seguì Ippolito a Trezene. Colà essa edificò il tempio ad Afrodite che Spia, sovrastante la palestra, e ogni giorno, senza essere notata, poteva osservare Ippolito che, completamente nudo, si esercitava nella corsa, nel salto e nella lotta. Un antico albero di mirto sorge nel recinto del tempio e Fedra, nel furore dell’inane passione, si accaniva contro le sue fronde servendosi di uno spillone ingioiellato; ancor oggi si vedono i fori dello spillone nelle foglie. In seguito, quando Ippolito si recò ad assistere alle Panatenee e alloggiò nel palazzo di Teseo, Fedra spiò dal tempio di Afrodite sull’Acropoli. Fedra non svelò ad alcuno il suo incestuoso desiderio, ma toccava appena il cibo, dormiva male e tanto si indebolì che la vecchia nutrice, infine, indovinò la verità e supplicò la regina di inviare una lettera a Ippolito. Fedra seguì il consiglio e scrisse confessando il proprio amore, disse di essere ormai convertita al culto di Artemide, cui aveva riconsacrato i simulacri lignei portati da Creta. Ippolito avrebbe accettato di recarsi con lei a una partita di caccia? «Noi donne della real casa cretese», continuava la lettera, «siamo forse per destino condannate al disonore: pensa a mia nonna Europa, a mia madre Pasifae e infine a mia sorella Arianna! Ah infelice Arianna, abbandonata dal padre tuo, l’infedele Teseo, che in seguito uccise la tua real madre Antiope… (perché le Furie non punirono la tua filiale indifferenza alla sua triste sorte?) e forse un giorno ucciderà me pure! Conto su di te per vendicarti di Teseo rendendo omaggio ad Afrodite. Perché non ce ne andiamo a vivere assieme, per qualche tempo almeno, servendoci come pretesto della battuta di caccia? Nessuno sospetterà dei nostri veri sentimenti. Già alloggiamo sotto lo stesso tetto e il nostro affetto sarà considerato innocente o persino encomiabile».

Ippolito bruciò inorridito quella lettera e si recò nella camera di Fedra dando aspra voce ai suoi rimproveri; Fedra allora si lacerò le vesti, spalancò le porte, gridò: «Aiuto! Aiuto! Sono stata violentata!» e si impiccò a una trave del soffitto, lasciando un biglietto che accusava Ippolito di orrendi crimini. Teseo, ricevendo tale biglietto, maledisse Ippolito e diede ordini affinché il giovane lasciasse immediatamente Atene e mai più vi ritornasse. Più tardi si rammentò dei tre desideri che il padre suo Posidone aveva promesso di esaudire e pregò perché Ippolito morisse quel giorno stesso. «Padre», supplicò, «fa’ che una belva si pari dinanzi a Ippolito sulla strada di Trezene!»

Ippolito aveva abbandonato Atene in gran fretta. Mentre correva lungo la parte più stretta dell’istmo, un’enorme ondata, più alta della Roccia Moluride, si abbatté con un boato sulla spiaggia e dalla sua spuma emerse una grande foca maschio (o, come altri dicono, un toro bianco). I quattro cavalli di Ippolito fecero uno scarto verso la parte opposta della strada, pazzi di terrore, ma Ippolito, abile auriga qual era, impedì che precipitassero nel baratro sottostante. Tuttavia gli animali si lanciarono in un galoppo furioso. Non lontano dal santuario di Artemide Saronide si trova un olivo selvatico, chiamato il Rachos Contorto (poiché rachos termine trezenio per indicare l’oleastro) e le redini di Ippolito si impigliarono nei rami di quest’albero. Il suo cocchio si infranse su un mucchio di pietre, e Ippolito, imprigionato dal groviglio delle redini, andò a sbattere prima contro il tronco, poi contro le pietre, e infine fu calpestato a morte dai cavalli, mentre la foca pareva svanire nel nulla. Taluni ritengono improbabile che Artemide in quel momento rivelasse la verità a Teseo e lo trasportasse in un batter d’occhio a Trezene, dove egli ebbe appena il tempo di riconciliarsi con il figlio morente. È accertato tuttavia che la dea ordinò ai Trezeni di tributare a Ippolito onori divini e da quel giorno tutte le spose trezenie si tagliano una ciocca di capelli e gliela offrono. Fu Diomede che consacrò l’antico tempio e il simulacro di Ippolito a Trezene e che per il primo gli offrì un sacrificio annuale. Nel recinto di questo tempio, presso il mirto dalle foglie forate, si vedono le tombe di Fedra e di Ippolito, quest’ultima contrassegnata da un tumulo di terra.

I Trezeni negano che Ippolito fosse calpestato a morte dai cavalli e che egli giaccia sepolto nel recinto del tempio; ne vogliono rivelare dove si trovi la sua tomba. Tuttavia sostengono che gli dei ne posero l’immagine fra gli astri come costellazione dell’Auriga. Gli Ateniesi innalzarono un tumulo in memoria di Ippolito presso il tempio di Temi, poiché la sua morte era stata provocata dalle maledizioni. Taluni dicono che Teseo, processato per omicidio, fu giudicato colpevole, colpito da ostracismo ed esiliato a Sciro, dove chiuse la sua vita nel dolore e nella vergogna. Ma comunemente si ritiene che egli cadde in disgrazia perché tentò di violentare Persefone.

L’ombra di Ippolito discese al Tartaro e Artemide, indignata, chiese ad Asclepio di risuscitare il suo corpo. Asclepio aprì il suo stipo d’avorio e ne estrasse l’erba che aveva risuscitato il cretese Glauco. Per tre volte posò l’erba sul corpo di Ippolito, pronunciando frasi magiche, e la terza volta il cadavere alzò la testa dal suolo. Ma Ade e le tre Moire, irati per questo attentato ai loro privilegi, indussero Zeus a uccidere Asclepio con la sua folgore.

I Latini narrano che Artemide avvolse allora Ippolito in una fitta nube e gli fece assumere le sembianze di un vecchio. Dopo aver esitato tra Delo e Creta, decise di nasconderlo nel bosco a lei sacro ad Ariccia, in Italia. Colà, col consenso di Artemide, Ippolito sposò la Ninfa Egeria; egli vive ancora presso il lago, tra cupi boschi di querce che si affacciano su inaccessibili burroni. Affinché nulla gli ricordasse la sua morte, Artemide gli diede il nuovo nome di Virbio, che significa vir bis, due volte uomo; e nessun cavallo può avvicinarlo. Soltanto gli schiavi fuggiaschi possono divenire sacerdoti di Artemide Aricina. Nel bosco a lei sacro sorge un’antica quercia, i cui rami non si debbono spezzare; ma qualora uno schiavo osi compiere questo gesto, il sacerdote, che ha a sua volta ucciso il proprio predecessore e vive in un costante timore della morte, deve duellare con lui, spada contro spada, per la carica sacerdotale. Gli Arici dicono che Teseo supplicò Ippolito di rimanere con lui ad Atene, ma che Ippolito rifiutò. Una tavoletta nel santuario di Asclepio a Epidauro ricorda che Ippolito gli consacrò venti cavalli, in segno di gratitudine per averlo risuscitato.

ll mito di Fedra, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves

Il piano dell’opera “Grandi Miti Greci” e recensioni agli altri volumi.

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