Durante il viaggio di ritorno da Troia, Agamennone fu protetto da Era (o Latona), moglie di Zeus, che salvò la sua nave da una violenta tempesta, che invece aveva investito le navi dei principi greci e aveva spinto Menelao fino in Egitto.
Clitemnestra, la moglie di Agamennone, aveva precedentemente persuaso il marito ad accendere un falò sul monte Ida non appena avesse espugnato Troia. Una sentinella stava in piedi sul tetto del palazzo di Micene in attesa di scorgere quel fuoco; e quando lo vide, corse a comunicarlo a Clitemnestra. Questa indisse grandi festeggiamenti con ricchi sacrifici agli dèi, simulando riconoscenza e gioia; Egisto, cugino di Agamennone intanto, approntava il suo piano, mise uno degli uomini più fidati di guardia sulla torre presso il mare e gli promise una generosa ricompensa non appena gli avesse annunciato lo sbarco di Agamennone.
Dopo il viaggio fortunoso, Agamennone sbarcò in patria. Portava con sé, come parte del bottino e come sua concubina, la principessa Cassandra, sorella di Paride e sacerdotessa di Apollo, che aveva il dono della preveggenza ma anche la maledizione divina di non essere mai creduta. All’ingresso del palazzo ella ammonì il re di non entrare presagendo l’attentato, ancora una volta non fu creduta e il re non l’ascoltò.
Secondo Pindaro e i tragici greci, Agamennone venne ucciso con un lábrys (λάβρυς), mentre si trovava solo nel bagno. Su istigazione di Egisto, la moglie lo imbrigliò prima nella rete che gli aveva gettato addosso, poi lo colpì. Subito dopo, Clitemnestra si scagliò anche contro Cassandra e, con la stessa arma, la uccise. Il suo sordo rancore per il sacrificio di Ifigenia e la gelosia per Cassandra, avevano finalmente attuato la vendetta di Tieste, come era stato predetto dall’oracolo di Delfi.
ll mito di Agamennone, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
“Nessun altro portò a Troia tante navi come lui, tanti soldati e carri da guerra. Cento navi piene dei guerrieri più forti, scelti dalle molte città; Agamennone li guidava combattendo avvolto nella siua armatura di bronzo rilucente nel sole.” (Giulio Guidorizzi, Io, Agamennone)
Dal risvolto di copertina: “È famosa nell’immaginario comune la maschera funeraria in oro ritrovata a Micene e identificata come quella di Agamennone, ma cosa si nasconde dietro questo volto? Le origini del personaggio si perdono nel tempo: una stirpe maledetta, quella di Pelope, signore della città di Pisa, figlio di Tantalo e padre di Atreo avuto dalla moglie Ippodamia. Atreo, insieme al fratello Tieste, avrebbe poi ucciso il fratellastro Crisippo, un delitto che gli attirò l’ira paterna e la condanna all’esilio. Così i due fratelli si rifugiarono a Micenee successivamente ne assunsero il governo. Agamennone eredita il regno e la condanna. Eroe dell’Iliade, valoroso combattente del “poema della forma”, come lo definì Simone Weil, infine vincitore della guerra ma destinato a una morte violenta per mano della moglie Clitemnestra, che vendica così la morte della figlia Ifigenia da lui sacrificata per consentire la partenza della flotta greca verso Troia. Una vicenda complessa che, come molta della mitologia greca, è soprattutto lotta contro il destino.
Dall’introduzione di Giulio Guidorizzi: “Agamennone esprime, nei racconti, tutta la forza torva e grandiosa del mondo miceneo, rivelato dalle sue rovine: la porta dei leoni che segna l’ingresso in una cittadella possente, con mura fatte di enormi blocchi di pietra, un nido d’aquila in cui si percepisce il fascino di un’epoca grande e terribile. Il re dei re dipinge la cecità dei grandi: camminano come fossero onnipotenti, eppure dalla grandezza alla rovina il passo è brevissimo. Sembra che il destino di Agamennone, con l’ombra di potere funesto che si allarga sulla sua stirpe, sia quello di rappresentare appunto la grandezza e i limiti del potere, e insieme il ritmo inesorabile del destino che attende di compiersi su tutti, e nel modo più crudele, travolgendo gloria e grandezza.”
Oltre alla narrazione del mito, il volume contiene anche approfondimenti sulla sua fortuna nel corso dei secoli, in tutte le forme artistiche: letteratura (con una ricca antologia di testi classici sul mito), pittura, teatro, cinema. Inoltre vi è una tavola genealogica, e un ricco apparato bibliografico e sitografico. Il volume su Agamennone è curato da Caterina Barone, docente di Storia del teatro antico greco e latino e Drammaturgia antica presso l’Università degli studi di Padova. Qui i suoi ultimi volumi pubblicati.
L’intera collana di trenta volumi è a cura di Giulio Guidorizzi. Guidorizzi è grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e antropologia del mondo antico. Ha scritto numerosi libri sulla mitologia. Noi vi consigliamo, per iniziare, il suo bellissimo Il mito greco (in due volumi, usciti nel 2009 e nel 2012). Qui una lista di suoi volumi sul mito greco.
Il racconto del mito di Giasone è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 26: Giasone – La verità su un eroe.
Pelia, figlio del dio del mare Poseidone e di Tiro, era assetato di potere e ambiva a dominare l’intera Tessaglia. Dopo un’aspra contesa detronizzò Esone, uccidendo tutti i suoi discendenti, ma Alcimede, moglie di Esone, che aveva appena avuto un piccolo di nome Giasone, lo salvò da Pelia, facendo raggruppare le donne intorno al neonato e facendole piangere per far credere che il bambino fosse nato morto. Alcimede mandò il figlio dal centauro Chirone perché badasse alla sua educazione e per sottrarlo alla violenza di Pelia; questi, sempre timoroso che qualcuno potesse usurpargli il trono, consultò un oracolo che lo avvertì di stare attento all’uomo con un solo sandalo. Molti anni dopo, mentre a Iolco si tenevano dei giochi in onore di Poseidone, arrivò Giasone, che perse uno dei sandali nel fiume Anauro mentre aiutava un’anziana (che era in realtà la dea Era travestita) ad attraversarlo; la donna lo benedisse perché sapeva cosa Pelia gli avrebbe riservato. Quando entrò nella città, fu annunciato come l’uomo con un solo sandalo: Giasone reclamò il trono del padre, ma Pelia gli disse che l’avrebbe ottenuto solo dopo aver conquistato il vello d’oro. Giasone accettò la sfida e radunò un gruppo di eroi, noti con l’appellativo di Argonauti dal nome della nave Argo con cui partì per compiere la missione.
La prima tappa fu l’isola di Lemno, situata al largo della costa occidentale dell’Asia Minore, era abitata da donne che avevano ucciso i loro mariti: esse avevano trascurato di venerare Afrodite, la quale le aveva punite rendendole maleodoranti al punto da essere ripudiate dai maschi dell’isola. Gli uomini si erano allora legati a delle concubine provenienti dalla prospiciente terraferma, la Tracia, e le donne, furibonde, uccisero tutti i maschi mentre dormivano. Il re Toante venne salvato dalla figlia Ipsipile, che lo fece fuggire su una piccola nave, e le donne di Lemno vissero per qualche tempo senza uomini con Ipsipile come loro regina. Durante la visita degli Argonauti, le donne si unirono con loro creando una nuova razza denominata Mini: lo stesso Giasone divenne padre di due gemelli avuti dalla regina. Eracle li spinse a ripartire, disgustato dalla loro ridicolaggine, e restò fuori dai bagordi, fatto strano se si considerano le tante relazioni che ebbe con altre donne. Dopo Lemno gli Argonauti approdarono nella terra abitata dai Dolioni, venendo amichevolmente accolti dal loro giovanissimo re Cizico, che era figlio di un amico defunto di Eracle. Poi ripartirono ma persero l’orientamento, riapprodando nuovamente nello stesso luogo in una notte senza luna; ciò fece sì che Dolioni e Argonauti non si riconoscessero. Cizico e i suoi uomini scambiarono gli Argonauti per pirati e li assalirono ma ebbero la peggio e tra le vittime ci furono lo stesso re e il grande guerriero Artace. Solo all’alba gli Argonauti si resero conto del terribile errore che avevano commesso e non rimase altro da fare che seppellire i Dolioni morti. Clite, la moglie di Cizico, si suicidò per il dolore.
Quando gli Argonauti giunsero nella Misia, alcuni di essi, tra cui Eracle e il suo servo Ila, andarono in perlustrazione alla ricerca di cibo e acqua. Le ninfe, che abitavano il corso d’acqua da dove si stava rifornendo Ila, furono attratte dal suo bell’aspetto e lo attirarono nel fiume. Eracle udì le sue grida di aiuto e si mise a cercarlo disperatamente: era così intento nella ricerca che lasciò che gli Argonauti ripartissero senza di loro. Di Ila, tuttavia, non si seppe più nulla. Giasone giunse quindi alla corte di Finea nella Tracia dove Zeus mandava le Arpie, donne alate, a rubare ogni giorno il cibo del re. Giasone ebbe pietà dello scheletrico sovrano e uccise le Arpie al loro arrivo; in altre versioni, Calaide e Zete le scacciarono. In cambio del favore Finea rivelò a Giasone la posizione della Colchide e come superare le Simplegadi, isole in perenne collisione. Gli Argonauti ripresero dunque il loro cammino. L’unico modo per raggiungere la Colchide era quello di passare attraverso le Simplegadi, enormi scogli in perenne collisione che stritolavano tutto ciò che passasse attraverso loro. Fineo aveva raccomandato a Giasone di liberare una colomba mentre si avvicinavano a queste isole: se la colomba fosse riuscita a passare avrebbero dovuto remare con tutte le loro forze, mentre se fosse stata stritolata la sorte della spedizione sarebbe stata destinata al fallimento. Giasone liberò la colomba, che riuscì a passare perdendo solo qualche piuma dalla coda: gli Argonauti allora remarono con tutte le loro forze, riuscendo a passare e riportando solo un lieve danno alla poppa della nave. Da quel momento le isole in collisione rimasero unite per sempre, lasciando libero il passaggio.
Giasone arrivò nella Colchide (sull’attuale costa georgiana del Mar Nero) per conquistare il vello d’oro, che il re Eeta aveva avuto da Frisso. Eeta promise di darlo a Giasone a patto di superare tre prove, ma una volta saputo di cosa si trattava Giasone si disperò. Era ne parlò con Afrodite, la quale chiese al figlio Eros di far innamorare di Giasone la figlia di Eeta, Medea, così da aiutarlo. Nella prima Giasone doveva arare un campo facendo uso di due tori dalle unghie di bronzo che spiravano fiamme dalle narici e che doveva aggiogare all’aratro. Medea gli diede una pomata che lo protesse dalle fiamme dei tori, consentendogli di superare la prova. Nella seconda Giasone doveva seminare nel campo appena arato i denti di un drago, i quali, germogliando, generavano un’armata di guerrieri. Ancora una volta Medea istruì Giasone su come poteva fare per avere la meglio: egli lanciò un sasso in mezzo ai guerrieri che, incapaci di capirne la provenienza, si attaccarono tra di loro annientandosi. Nella terza Giasone doveva sconfiggere il drago insonne che era a guardia del vello d’oro. Gli spruzzò una pozione ricavata da alcune erbe, datagli sempre da Medea: il drago si addormentò ed egli poté conquistare il vello d’oro.
Giasone scappò con l’Argo insieme a Medea, che aveva rapito il fratellino Apsirto. Inseguiti da Eeta, Medea uccise il fratello, lo fece a pezzi e lo gettò in acqua: Eeta si fermò a raccoglierli, perdendo di vista la Argo. Zeus, per punirli dell’uccisione di Apsirto, inviò una serie di tempeste che mandarono fuori rotta l’Argo: quest’ultima parlò e disse che dovevano purificarsi recandosi da Circe, l’antica maga che viveva sull’isola di Eea. Una volta purificati, gli Argonauti ripresero il viaggio verso casa. Chirone aveva raccontato a Giasone che senza l’aiuto di Orfeo gli Argonauti non sarebbero riusciti a superare il luogo abitato dalle sirene, le stesse incontrate da Ulisse. Le Sirene vivevano su tre piccoli isolotti rocciosi e cantavano bellissime melodie che attiravano i naviganti, facendoli schiantare contro gli scogli. Appena Orfeo sentì le loro voci prese la lira e suonò delle melodie ancora più belle e più forti di quelle delle sirene, surclassandole. La Argo arrivò quindi nell’isola di Creta, protetta dal gigante di bronzo Talo. Quando la nave cercava di avvicinarsi, Talo scagliava enormi sassi, tenendola alla larga. Il gigante aveva una vena che partiva dal collo e arrivava alla caviglia, tenuta chiusa da un chiodo di bronzo. Medea gli fece un incantesimo: Talo impazzì e rimosse il chiodo, facendo fuoriuscire l’unica vena, e morì dissanguato. L’Argo poté riprendere il suo cammino. Medea, usando i suoi poteri magici, convinse le figlie di Pelia che era in grado di ringiovanirne il padre tagliandolo a pezzi e bollendolo in un calderone pieno di acqua e erbe magiche. Per dimostrare le sue capacità, Medea operò questa magia su un agnello, che saltò fuori dal calderone. Le ragazze, molto ingenuamente, fecero a pezzi il padre, mettendolo nel calderone e condannandolo così alla morte, dal momento che Medea non aggiunse le erbe magiche. Il figlio di Pelia, Acasto, mandò in esilio Giasone e Medea per l’uccisione del padre e i due si stabilirono a Corinto.
A Corinto, Giasone si innamorò di Glauce figlia del re Creonte e la sposò. Quando Medea gli rinfacciò la sua ingratitudine, Giasone replicò che non era lei che doveva ringraziare bensì Afrodite che l’aveva fatta innamorare di lui. Inferocita con Giasone per essere venuto meno alla promessa di amore eterno, Medea si vendicò dando a Glauce un vestito incantato come dono di nozze e che prese fuoco facendola morire insieme al padre accorso in suo aiuto e uccidendo, inoltre, Mermero e Fere, i due figli che la stessa Medea aveva avuto da Giasone. Quando quest’ultimo venne a saperlo, Medea era già andata via, in volo verso Atene su un carro mandatole dal nonno, il dio del sole Elio. In seguito, Giasone con l’aiuto di Peleo (il padre di Achille), attaccò e sconfisse Acasto, riconquistando il trono di Iolco. Avendo disatteso la promessa di fedeltà fatta a Medea, Giasone perse i favori della dea Era e morì solo ed infelice. Mentre dormiva a poppa della ormai fatiscente Argo, rimase ucciso all’istante da un suo cedimento: fu questa la maledizione degli dèi per essere venuto meno alla parola data. Secondo una variante l’eroe morì di crepacuore dopo aver appreso la notizia dell’uccisione dei figlioletti.
“Afrodite suscitò in Medea la passione amorosa, e lei insegnò a Giasone il modo per compiere le prove richieste dal padre; con erbe mescolate nell’olio preparò poi un unguento, rimedio contro i dolori più forti, perché lo spalmasse sul corpo. E convennero di unirsi in un mutuo soave connubio.” (Pindaro, Pitica IV)
Dal risvolto di copertina: “Gli eroi greci, pur essendo molti di loro umani, hanno in sé un qualcosa di divino: questo vale anche per Giasone, uno dei personaggi più famosi di tutta la mitologia greca, protagonista di un viaggio dalle mille avventure insieme agli Argonauti per la conquista del Vello d’oro. Figlio bello e amato del re di Iolco, Esone e della regina Alcimede, presto fu vittima della violenza di Pelia che spodestò il re e fece strage dei suoi figli. Giasone si salvò grazie alla madre che lo affidò alle cure del centauro Chirone perché lo educasse saggiamente. A un inizio turbolento, non poteva che seguire una giovinezza avventurosa: l’eroe sarebbe poi tornato a rivendicare il trono, Pelia lo avrebbe sfidato alla conquista del Vello d’oro e così l’impresa degli Argonauti avrebbe avuto inizio. Infine l’incontro che avrebbe segnato tutta la storia: quello con Medea, la principessa maga, la donna che per lui avrebbe sacrificato tutto. Una fase tragica attendeva Giasone, il gesto violento di Medea, quindi una vecchiaia silenziosa e ritirata, forse nel pensiero costante delle tante avventure vissute con gli Argonauti.”
Dall’introduzione di Giulio Guidorizzi: “Bello e forte nel corpo, coraggioso e cavalleresco nell’anima: sembra impossibile che questo splendido giovinetto descritto da Pindaro diventi poi il marito fedifrago e ipocrita dipinto da Euripide: si tratta in realtà di due visioni alternative della figura maschile (quella aristocratica esaltatrice dei valori tradizionali, e quella cittadina espressa dall’universo della tragedia). Il mito di Giasone segue la consueta trama dei miti di fondazione: fga dalla famiglia, salvataggio prodigioso, isolamento in un luogo selvaggio, dove il giovane prescelto dal destino si forma inaugurando i poteri con cui tornerà, più forte, nella comunità umana.”
Oltre alla narrazione del mito, il volume contiene anche approfondimenti sulla sua fortuna nel corso dei secoli, in tutte le forme artistiche: letteratura (con una ricca antologia di testi classici sul mito), pittura, teatro, cinema. Inoltre vi è una tavola genealogica, e un ricco apparato bibliografico e sitografico. Il volume su Giasone è curato da Franco Maiullari, medico e psicoanalista adleriano. Qui gli ultimi volumi pubblicati.
L’intera collana di trenta volumi è a cura di Giulio Guidorizzi. Guidorizzi è grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e antropologia del mondo antico. Ha scritto numerosi libri sulla mitologia. Noi vi consigliamo, per iniziare, il suo bellissimo Il mito greco (in due volumi, usciti nel 2009 e nel 2012). Qui una lista di suoi volumi sul mito greco.
Il racconto del mito di Artemide è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 25: Artemide – La natura selvaggia.
Artemide, sorella di Apollo, se ne va armata d’arco e di frecce e, come Apollo, ha il potere sia di provocare pestilenze o morti improvvise, sia di porvi rimedio. Essa è la protettrice dei bambini e di tutti gli animali da latte, ma ama anche la caccia, specialmente la caccia al cervo.
Un giorno, mentre era ancora una bimba di tre anni, suo padre Zeus la prese sulle ginocchia e le chiese quali doni avrebbe gradito. E subito Artemide rispose: «Concedimi, ti prego, l’eterna verginità; tanti nomi quanti ne ha mio fratello Apollo; un arco e delle frecce come i suoi; il compito di portare la luce; una tunica da caccia color zafferano con un bordo rosso, che mi giunga sino alle ginocchia; sessanta giovani Ninfe oceanine, tutte della stessa età, come mie damigelle di onore; venti Ninfe dei fiumi, che farai giungere da Amniso in Creta, perché si curino dei miei calzari e nutrano i miei cani quando io non sono impegnata nella caccia; tutte le montagne del mondo; e infine tutte le città che vorrai scegliere per me, ma una sola mi basta, perché intendo vivere quasi sempre sulle montagne. Purtroppo, le donne in travaglio mi invocheranno spesso, poiché mia madre Latona mi ha partorita senza dolore, e le Moire dunque hanno già fatto di me la patrona delle nascite». Artemide allungò la mano per accarezzare la barba di Zeus che sorrise con orgoglio e disse: «Con una figliola come te non avrò mai da temere della gelosia di Era! Tu avrai tutto questo e altro ancora: non una, ma trenta città e una parte di molte altre, sia sul continente sia nell’arcipelago; e io ti nomino custode delle strade e dei porti». Artemide lo ringraziò, saltò giù dalle sue ginocchia e si recò subito sul Monte Leuco in Creta, e poi nel fiume Oceano, dove scelse molte Ninfe di nove anni come sue ancelle; le loro madri furono felici di affidargliele.
Dietro invito di Efesto, la dea si recò in seguito a visitare i Ciclopi nell’isola di Lipari e li trovò intenti a martellare un truogolo per i cavalli di Poseidone. Bronte, cui era stato detto di fare tutto ciò che Artemide volesse, la prese sulle sue ginocchia; ma non apprezzando le sue carezze, la giovane dea gli strappò una manciata di peli dal petto; quei peli non ricrebbero più e Bronte ebbe sempre una macchia bianca sul petto, sì che chiunque avrebbe potuto crederlo malato di rogna. Le Ninfe erano atterrite dall’orrendo aspetto dei Ciclopi e dal fragore della fucina; la cosa è comprensibile, poiché quando una bimba è disobbediente subito la mamma minaccia di chiamare Brente, Arge o Sterope. Ma Artemide sfacciatamente disse ai Ciclopi di trascurare per qualche tempo il truogolo di Poseidone e di farle invece un arco d’argento e un bei fascio di frecce; in cambio essa avrebbe loro offerto in pasto la prima preda abbattuta. Con queste armi Artemide si recò in Arcadia, dove Pan era intento a smembrare una lince per darla in pasto alle sue cagne e ai loro cuccioli. Pan diede ad Artemide tre cani segugi dalle orecchie mozze, due bicolori ed uno macchiettato, tutti assieme capaci di trascinare un leone vivo nel canile: e sette agili segugi spartani. Avendo catturato vive due coppie di cerve cornute, Artemide le aggiogò a un cocchio d’oro con redini d’oro e le guidò a settentrione verso l’Emo, monte della Tracia. Giunta sull’Olimpo Misio la dea tagliò una torcia da un pino e l’accese nelle braci di un albero colpito dal fulmine. Per quattro volte provò il suo arco d’argento, le prime due mirando agli alberi, la terza a una bestia selvatica, la quarta a una città abitata da uomini ingiusti. Poi ritornò in Grecia dove le Ninfe Amnisie staccarono le cerve dal cocchio, le strigliarono, le nutrirono con quello stesso trifoglio, rapido a crescere, che è il cibo favorito dei destrieri di Zeus, e le abbeverarono in truogoli d’oro.
Un giorno il dio-fiume Alfeo, figlio di Teti, osò innamorarsi di Artemide e inseguirla attraverso la Grecia; ma essa giunse a Letrini in Elide (o, secondo altri, all’isola di Ortigia presso Siracusa), dove impiastricciò di bianco fango il proprio volto e quello delle Ninfe, tanto che non fosse più possibile distinguere l’una dalle altre. Alfeo fu costretto a ritirarsi, inseguito dall’eco di risate di scherno. Artemide vuole che le sue compagne rispettino la castità come essa stessa la rispetta. Quando Zeus sedusse una di loro, Callisto, figlia di Licaone, Artemide notò che era incinta. Trasformatala in orsa, le scatenò contro i cani e l’infelice sarebbe senz’altro perita se Zeus non l’avesse trasportata in cielo, ponendone l’immagine tra le stelle. Ma altri dicono che Zeus stesso trasformò Callisto in orsa e che Era, ingelosita, indusse Artemide a darle la caccia senza saperlo. Il figlio di Callisto, Arcade, fu salvato e divenne l’antenato degli Arcadi. In un’altra occasione, Atteone, figlio di Aristeo, stava appoggiato a una roccia nei pressi di Orcomeno, quando vide per caso Artemide che si bagnava in un fiume poco lontano e rimase a guardare. Poiché in seguito si vantò con gli amici che la dea gli si era mostrata nuda senza alcun pudore, Artemide lo tramutò in cervo e lo fece divorare dalla sua muta di cinquanta cani.
Il mito di Artemide, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
Qui trovata un approfondimento sulla dea e sulle sue similitudini con Atalanta la cacciatrice, tratto dal volume Adolescenza, il giardino nascosto scritto da Andreas Barella.
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