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Recensione a “Il mio nome è Nessuno” di Valerio Massimo Manfredi

Recensione a “Il mio nome è Nessuno” di Valerio Massimo Manfredi

downloadUn’amante della mitologia come me non poteva lasciarsi sfuggire il romanzo “Il mio nome è Nessuno – Il ritorno” di Valerio Massimo Manfredi, uscito per Mondadori un anno dopo la prima parte di questo dittico romanzesco, intitolata “Il mio nome è Nessuno – Il giuramento”. Se nel primo volume Manfredi ripercorre le esperienze di Ulisse a partire dall’infanzia e fino alla fine della guerra di Troia, nel secondo narra invece il viaggio di ritorno del re di Itaca da Troia fino alla sua isola. Viaggio che, come noto, dura dieci anni e contempla numerose e svariate avventure. Non riassumerò la vicenda, ai più nota, ma volevo spendere alcune parole sull’esperimento di Manfredi di rinarrare il mito di Ulisse-Odisseo.

Manfredi fa quello che ogni lettore dell’Odissea (e dell’Iliade) fa nella sua testa e nel suo cuore quando si immerge davvero nei testi di Omero: costella nella sua esperienza personale gli archetipi che le due epiche contengono e fanno danzare nella psiche di chi le ascolta (o legge). Manfredi lo fa nel suo modo personale: come già in altri suoi romanzi, per dare un tocco esotico alle vicende cambia leggermente i nomi dei personaggi (Kirke invece di Circe, Odysseo invece di Odisseo, e così via) e intesse la vicenda di Ulisse con quelle di altri personaggi di suoi romanzi (Diomede, per esempio, o il destino del Palladio). E soprattutto, colma il racconto con quello che possiamo definire l’”inchiostro bianco”, vale a dire quelle parti che il lettore immagina, gli spazi vuoti tra una frase e l’altra, le frasi non dette, i sentimenti non espressi, i dubbi che restano tali nella mente dei personaggi e del lettore. Come è giusto che sia, Manfredi spiega, interpreta, aggiunge pensieri e interpretazioni e dolori espressi dalla voce in prima persona di Ulisse. A volte suggerisce interpretazioni interessanti, e si ha la percezione che l’Ulisse che parla tramite Manfredi, parli la voce del ventunesimo secolo ed esprima dubbi e paure proprie del nostro tempo. Quando questo accade la lettura si fa interessante e ricca di spunti sui quali riflettere. A volte quando invece Manfredi tenta di descrivere dubbi e problemi che immagina dei greci antichi, e lo fa usando un linguaggio che scimmiotta un po’ quello di Omero, ecco che, secondo me, la voce di Manfredi si fa meno interessante. Anche la lunga parte finale, in cui l’Autore descrive l’ultimo viaggio di Ulisse (non quello dantesco descritto nella Divina Commedia!), viaggio profetizzato da Tiresia e in cui Ulisse dovrà andare alla ricerca del perdono da parte di Poseidone, sembra più un’epica da fumetto americano con il protagonista preda di dubbi esistenziali, che un’epopea mitologica.

Se la mitologia adempie al suo scopo, parla ai lettori-ascoltatori di cose importanti per loro, nel momento in cui vengono lette e lasciate danzare nella psiche. Il compito del mito è proprio questo: rimanere vago e interpretabile per continuare a sussurrare quello che la nostra interiorità ha bisogno di sentire e di elaborare. E deve farlo in modo ricco e pieno di significati simbolici assodati e che hanno funzionato per generazioni di esseri umani. Per questo motivo, il libro di Manfredi è parziale e ci racconta UNA versione, UNA visione del ricco mondo omerico. Al lettore giudicare se vale la pena affidarsi all’interpretazione di una persona singola o se affidarsi al ricco e simbolico linguaggio di Omero, e colmare personalmente gli spazi lacunosi della vicenda, soffrendo in modo personale e per motivi diversi quando Ulisse piange ma non spiega perché. Io ho letto volentieri il libro di Manfredi, come se fosse (e lo è) una variante su di un tema conosciuto, che è l’opera di Omero in versione originale. Se però non avete mai letto l’Odissea e pensate di approcciarvi al poema che è alla base della nostra cultura e civiltà, allora il mio suggerimento è quello di cominciare dall’originale. Per esempio nella leggibilissima versione in prosa a cura di Maria Grazia Ciani ed edito da Marsilio. Buona scoperta o riscoperta delle avventure di Ulisse, l’uomo dalla mente colorata.

Andreas

Manfredi, Valerio Massimo.  Il mio nome è Nessuno – Il Ritorno.  Milano: Mondadori, 2013.
Omero.  Odissea.  A cura di Maria Grazia Ciani.  Venezia: Marsilio, 1994.
Manfredi, Valerio Massimo.  Il mio nome è Nessuno – La Promessa.  Milano: Mondadori, 2012.

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Eneide: Venere vs Giunone

Eneide: Venere vs Giunone
La dea Giunone ("Era" per i greci)

La dea Giunone (“Era” per i greci)

Le due dee che si confrontano e scontrano nell’Eneide sono Giunone, moglie di Giove e acerrima nemica dei Troiani e Venere, dea della bellezza e dell’amore, madre di Enea. La scena che mi piace portare alla vostra attenzione è quella in cui Venere convince Vulcano, suo marito, a forgiare delle armi divine per il figlio Enea. L’episodio si situa nel libro VIII, dal verso 370 in avanti. Venere seduce Vulcano in una scena divertente ed erotica allo stesso momento, promettendo gioie amorose con tono languido mentre chiede l’aiuto del marito. Imperdibile! Per il resto Venere si presenta nell’Eneide come una madre premurosa. Segue il figlio, lo protegge (come già nell’Iliade), lo illumina nelle situazioni difficili. Addirittura ad un certo punto dice a Giove: se hai deciso di far morire Enea, fai pure. Ma lasciami suo figlio, Ascanio-Iulo, di cui mi occuperò personalmente. Venere è una madre della vita, la Madre che prosegue nelle generazioni, che si prende cura del futuro nella forma dei figli. Giunone è schiava del ruolo affibbiatole dai Greci, quando ancora si chiamava Era: donna gelosa e rancorosa, tramatrice di inganni. Si dice che questo ruolo (oltre a quello di moglie tradita e gelosa del padre degli dei, Zeus) le sia stato attribuito nel passaggio dal matriarcato a quello del patriarcato, trasformandola da Grande Dea Madre a Moglie del Padre e togliendole quel potere misterioso e indistinto che la caratterizzava. Nell’Eneide troviamo solo questo aspetto di donna ferita e incattivita, decisa a opporsi al volere dei fati (un po’ come Poseidone nell’Odissea con il suo contrapporsi al ritorno a Itaca di Ulisse). Peccato, perché l’autorevolezza femminile che emana da questa dea si percepisce anche così, e rimane un potenziale inespresso. Potere sommerso e ribollente.

Andreas Barella

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L’Eneide: il pio Enea

L’Eneide: il pio Enea
Enea, Ascanio, Venere e Didone

Enea, Ascanio, Venere e Didone

L’Eneide, in generale, mi lascia più freddo sia dell’Odissea che dell’Iliade. Perché? Forse perché è un’opera scritta da una sola mano, mentre i poemi omerici risentono di molte influenze e molte versioni, come si addice a un’opera orale che finisce su pergamena. Ma ci sono alcuni aspetti che vale la pena sottolineare lo stesso, nell’Eneide. Intanto il protagonista , il pio Enea, compie un viaggio che in qualche modo sembra speculare a quello di Ulisse. Enea parte da una terra in distruzione – Troia – e si avventura per mare per cercare una nuova sistemazione per lui, la sua gente e le insegne della sua civiltà. Lascia la guerra per cercare la pace. Ulisse, al contrario, lascia la pace per cercare la guerra quando parte da Itaca e si imbarca per Troia e tutta la sua storia parla di un tentato ritorno alla sua amata isola, alla sua casa. Seconda specularità: Enea parte “pio” (che qui sta per “colui che esegue quello che gli dèi comandano, colui che accetta con pazienza infinita quello che i fati gli impongono”) e termina sanguinario nelle battaglie del Lazio (dove sgozza chi implora pietà, compie sacrifici umani di giovinetti catturati e dimentica benevolenza e ragione); Ulisse riparte sanguinario da Troia (distrugge e razzia alcune città sulle coste mediterranee) e pian piano riconquista sudatamente la sua umanità grazie alla sofferenza. Enea non mi sembra crescere nel suo viaggio, le sue parti nobili, la sua sofferenza, la sua storia non riescono a coinvolgere e a commuovere… La scena per me più coinvolgente è quando i troiani approdano sull’isola dei Ciclopi e vi trovano un greco dimenticato da Ulisse durante la sua fuga. L’uomo, appena capisce che ha di fronte Enea, principe troiano, si dice contento di poter morire per mano di esseri umani come lui piuttosto che divorato dai mostri con un occhio solo. I troiani, turbati e commossi per la tragedia del marinaio-guerriero, non lo uccidono e lo imbarcano con loro. Del marinaio di Ulisse non si parlerà più, ma mi piace pensare che anche lui sbarcherà nel Lazio e concorrerà alla creazione della nuova stirpe che fonderà Roma. I troiani sanno leggere il dolore del nemico e capiscono che è identico al loro. Per questo perdonano e accettano. E questo me li rende simpatici e vicini al cuore! Di Venere e Giunone e degli déi in generale, di Didone e della sua tragedia, di Turno e dei suoi guerrieri, dei giovinetti che muoiono nelle battaglie cruentissime parlerò nei prossimi interventi. Per ora, buona lettura (o rilettura) dell’Eneide: spero che queste poche righe vi abbiano fatto venir voglia di riprenderla in mano! Diciamo la verità: ne vale proprio la pena!

Andreas Barella (2008)

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