Il racconto del mito di Sisifo è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 30: Sisifo – I grandi peccatori.
Sisifo, figlio di Eolo, sposò una figlia di Atlante, Merope, la Pleiade, che gli generò Glauco, Ornizione e Sinone; egli possedeva una bella mandria di bestiame sull’istmo di Corinto. Nei pressi viveva Autolico, figlio di Chione, il cui fratello gemello, Filammone, era stato generato da Apollo, benché Autolico si vantasse di avere per padre Ermes. Ora, Autolico era un vero maestro nell’arte del furto, poiché Ermes gli aveva conferito il potere di trasformare le bestie che rubava, mutando le bianche in nere e quelle senza corna in cornute o viceversa. E Sisifo, pur essendosi accorto che la propria mandria diveniva sempre più esigua, mentre i capi della vicina mandria di Autolico aumentavano sempre più, non riuscì a raccogliere le prove per accusarlo di furto; un giorno pensò dunque di incidere all’interno degli zoccoli dei suoi animali il monogramma SS o, come altri dicono, le parole «Rubata da Autolico». Quella notte Autolico fece man bassa come al solito, e all’alba le impronte degli zoccoli lungo il sentiero fornirono a Sisifo la prova che gli occorreva per denunciare il furto ai vicini. Tutti assieme si recarono alle stalle di Autolico, dove Sisifo riconobbe le sue bestie per via dei segni incisi sugli zoccoli e, lasciando i vicini a discutere col ladro, si precipitò nella casa, entrò dalla porta principale e, mentre fuori ferveva la disputa, sedusse Anticlea, figlia di Autolico e moglie di Laerte l’Argivo. Anticlea gli generò Odisseo, e le circostanze in cui costui fu concepito bastano a spiegare la sua straordinaria astuzia e il suo soprannome «Ipsipilo».
Sisifo fondò Efira, più tardi chiamata Corinto, e la popolò con uomini nati dai funghi, a meno che, come altri narrano, quel regno non gli fosse stato donato da Medea. I suoi contemporanei lo giudicavano il peggior furfante della terra, e gli riconoscevano soltanto il merito di aver sviluppato a Corinto il commercio e la navigazione. Quando, alla morte di Eolo, Salmoneo usurpò il trono tessalico. Sisifo, che era il legittimo erede, consultò l’oracolo di Delfi e gli fu detto: «Genera figli in tua nipote; essi ti vendicheranno!» Egli allora sedusse Tiro, figlia di Salmoneo, ma quando Tiro si accorse che Sisifo non era stato mosso da amore per lei, ma da odio per il padre suo, uccise i due figli che da lui aveva avuti.
Dopo che Zeus ebbe rapito Egina, suo padre, il fiume Asopo, giunse a Corinto in cerca di lei. Sisifo sapeva benissimo che cosa fosse accaduto a Egina ma non volle dire nulla finché Asopo non promise di far scaturire nella cittadella di Corinto una fonte d’acqua perenne. Asopo fece zampillare la fonte Pirene dietro il tempio di Afrodite, dove sorgono ora i simulacri della dea in armi, del Sole e di Eros l’arciere. E Sisifo gli narrò l’accaduto. Zeus, che era sfuggito a fatica alla collera di Asopo, ordinò a suo fratello Ade di trascinare Sisifo nel Tartaro e di infliggergli una punizione eterna per aver tradito i segreti degli dèi. Tuttavia, Sisifo riuscì a trarre in inganno Ade e lo chiuse nei ceppi a lui destinati pregandolo di mostrargli come funzionavano. Così Ade rimase prigioniero nella casa di Sisifo per alcuni giorni (e si creò una situazione gravissima perché nessuno poteva morire, nemmeno i decapitati) finché Ares, che vedeva minacciati i propri interessi, non giunse a liberarlo consegnandogli Sisifo prigioniero. Ma Sisifo aveva un altro trucco in mente. Prima di discendere al Tartaro, disse a sua moglie Merope di non seppellirlo e, appena varcata la soglia del palazzo di Ade, si recò immediatamente dinanzi a Persefone e le disse che, poiché il suo corpo non era stato sepolto, egli sarebbe dovuto rimanere sulla riva più remota dello Stige. «Lasciatemi ritornare nel mondo dei vivi», insistette, «provvederò al mio funerale e punirò l’incuria dei miei familiari. La mia presenza qui è illegittima. Tornerò fra tre giorni». Persefone si lasciò ingannare e concesse a Sisifo ciò che egli le chiedeva. Ma appena fu tornato alla luce del sole. Sisifo non mantenne la promessa fatta a Persefone e Ade fu costretto a ricondurlo al Tartaro con la forza.
ll mito di Sisifo, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
“Viene sempre il momento in cui bisogna scegliere fra la contemplazione e l’azione. Ciò si chiama diventare un uomo.” (Albert Camus, Il mito di SIsifo)
Dal risvolto di copertina: “Figlio di Eolo e di Enarete, Sisifo appartiene a una delle prime grandi stirpi sulla terra. Vive a Efira, città che lui stesso ha fondato , quella che poi diventerà Corinto. Qui sposa Merope, figlia di Atlante, una delle Pleiadi, che sorgono a segnare i lavori degli uomini, quando è ora di mietere il frumento e tramontano quando è il tempo dell’aratura. Un giorno Sisifo per caso vede Zeus rapire Egina, una delle dodici figlie del fiume Asopo. Dovrebbe tacere, invece rivela l’accaduto al padre. Zeus adirato gli manda per punizione Thanatos, la morte. Ma Sisifo, ed ecco la sua colpa, reagisce e la incatena, mutando gli assetti del mondo: se non muore Sisifo, non muore nessuno. Sisifo è il più astuto di tutti i mortali, ma per gli uomini è molto pericoloso sfidare il potere degli dèi. Così scenderà nell’Ade, condannato a spingere un masso su per un monte, in una pena senza fine.”
Dall’introduzione di Giulio Guidorizzi: “La nozione di ‘peccato’ è estranea alla religione greca. Sisifo ingannava; ma anche altri ingannarono, per esempio Ulisse, eppure non stanno tra i puniti. Clitemnestra sgozzò il marito, eppure nemmeno lei ribolle tra i tormenti infernali. Restano dunque questi ‘grandi colpevoli’ che hanno osato varcare i limiti dell’umano: la loro colpa è infatti avere tentato di oltraggiare la purezza degli dèi e le regole che mantengono in armonia l’universo.”
Oltre alla narrazione del mito, il volume contiene anche approfondimenti sulla sua fortuna nel corso dei secoli, in tutte le forme artistiche: letteratura (con una ricca antologia di testi classici sul mito), pittura, teatro, cinema. Inoltre vi è una tavola genealogica, e un ricco apparato bibliografico e sitografico. Il volume su Sisifo è curato da Alberto Camerotto, docente di Lingua e letteratura greca presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Qui gli ultimi volumi pubblicati.
L’intera collana di trenta volumi è a cura di Giulio Guidorizzi. Guidorizzi è grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e antropologia del mondo antico. Ha scritto numerosi libri sulla mitologia. Noi vi consigliamo, per iniziare, il suo bellissimo Il mito greco (in due volumi, usciti nel 2009 e nel 2012). Qui una lista di suoi volumi sul mito greco.
Il racconto del mito di Hermes è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 29: Hermes – Il dio dell’astuzia.
Quando Hermes nacque sul monte Cillene, sua madre Maia lo avvolse nelle fasce e lo depose in un canestro, ma con sorprendente rapidità egli si trasformò in un ragazzine, e non appena la dea gli voltò le spalle balzò fuori dalla culla e andò in cerca di avventure. Giunto nella Pieria, dove Apollo custodiva una magnifica mandria di vacche, decise di rubarle. E affinché Apollo non lo acciuffasse seguendo le tracce degli animali, fabbricò alla svelta grandi babbucce con la corteccia di una quercia caduta e le legò agli zoccoli delle vacche con fili d’erba intrecciati; poi si allontanò nottetempo guidando la mandria lungo un sentiero. Apollo, il mattino dopo, si accorse del furto, ma il trucco di Hermes funzionò a meraviglia, e benché il dio si spingesse fino a Pilo a occidente, e fino a Onchesto a oriente alla ricerca delle sue bestie, fu costretto a dichiararsi vinto e offrì una ricompensa a chi gli consegnasse il ladro. Sileno e i suoi Satiri, allettati dal premio, si sparsero per tutta la regione con la speranza di acciuffare il malfattore, ma per qualche tempo i loro sforzi non approdarono a nulla. Alla fine, passando dall’Arcadia, un gruppo di Satiri fu colpito dal suono di una musica mai udita prima e la ninfa Cillene, dalla bocca di una caverna, disse che era nato un portentoso fanciullo, di cui essa era nutrice: egli si era costruito un ingegnoso balocco musicale col guscio di una tartaruga e interiora di vacca, e traendone una dolce musica aveva cullato sua madre fino a farla addormentare. «Dove ha trovato le interiora di vacca?» chiesero i Satiri improvvisamente interessati, notando due pelli stese a disseccare dinanzi alla grotta. «Volete forse accusare di furto questo piccolo innocente?» chiese Cillene; e tra la ninfa e i Satiri volarono parole grosse.
Sopraggiunse Apollo, che era riuscito a identificare il ladro dopo aver osservato con attenzione lo strano comportamento di un uccello dalle lunghe ali. Entrato nella grotta egli svegliò Maia e le disse con voce severa che Hermes doveva restituirgli la mandria. Maia indicò il fanciullo, ancora avvolto nelle fasce e che fingeva di dormire tranquillamente. «Le tue accuse sono assurde» gridò. Ma Apollo aveva già visto che le pelli appese a disseccare appartenevano a due delle sue bestie. Agguantò dunque Hermes, lo portò sull’Olimpo e lo accusò formalmente di furto, presentando come prova le pelli. Zeus cui ripugnava di credere che il suo figlioletto appena nato fosse un ladro, invitò Hermes a dichiararsi innocente, ma Apollo non si lasciò abbindolare ed Hermes, alla fine, cedette e confessò. «Vieni con me», disse ad Apollo, «e riavrai le tue bestie. Ne ho uccise soltanto due, tagliandole in dodici parti uguali da sacrificare ai dodici dei». «Dodici dei?» chiese Apollo stupito, «e chi sarebbe il dodicesimo?» «Il tuo servo, signore», replicò Hermes con finta modestia, «e ti assicuro che ho mangiato soltanto la mia parte, benché avessi una gran fame, bruciando sull’altare le altre undici». Quello fu il primo sacrificio cruento in onore degli dei. I due dei ritornarono sul monte Cillene dove Hermes salutò sua madre e andò a frugare sotto una pelle di capra per prendere qualcosa che aveva nascosto. «Che hai lì?» chiese Apollo. Per tutta risposta, Hermes gli mostrò la lira che aveva appena ricavata da un guscio di tartaruga, e suonò una melodia così bella, servendosi del plettro, e cantò una canzone così lusinghiera elogiando l’intelligenza, la nobiltà e la generosità di Apollo, che ottenne subito il perdono. Sempre suonando e cantando, Hermes guidò verso Pilo il deliziato Apollo e gli restituì la mandria che aveva nascosta in una grotta. «Facciamo un baratto», disse Apollo, «io ti lascio la mandria in cambio della lira». «D’accordo», rispose Hermes, e suggellarono il patto con una stretta di mano. Mentre le vacche pascolavano pigramente, Hermes tagliò una canna, ne fece uno zufolo da pastore e suonò un’altra melodia. E Apollo, di nuovo deliziato, gridò: «Facciamo un baratto! Tu mi dai lo zufolo e io ti do il bastone dorato che uso per radunare il bestiame; in futuro tu sarai il dio di tutti i mandriani e di tutti i pastori». «II mio zufolo vale più del tuo bastone», replicò Hermes, «ma accetto di fare il baratto se mi insegni l’arte augurale, che mi sembra molto utile». «Questo non lo posso fare», replicò Apollo, «ma se andrai dalle mie vecchie nutrici, le Trie che vivono sul Parnaso, esse ti insegneranno a leggere il futuro nei sassolini». Si strinsero di nuovo la mano e Apollo, riportato il fanciullo sull’Olimpo, raccontò a Zeus l’accaduto.
Zeus invitò Hermes a rispettare d’ora in poi la proprietà altrui e a non dire spudorate bugie; ma non poté trattenersi dal sorridere. «Mi pare che tu sia un piccolo dio molto ingegnoso, eloquente e persuasivo», disse. «E allora fa’ di me il tuo araldo, o Padre», rispose Hermes. «Io custodirò i beni divini e non dirò mai bugie, benché non possa promettere di dire sempre tutta la verità.» «Da te non me la potrei aspettare», rise Zeus, «ma i tuoi compiti non si limiteranno a questo. Dovrai presiedere alla stipulazione dei trattati, favorire i commerci e proteggere i viaggiatori su tutte le strade del mondo». Hermes accettò le condizioni e Zeus gli diede una verga da araldo adorna di bianchi nastri, che tutti avrebbero dovuto rispettare; un berretto rotondo che gli riparasse il capo dalla pioggia e aurei sandali alati che l’avrebbero portato dovunque con la rapidità del vento. Egli fu accolto con entusiasmo dalla famiglia degli dèi olimpi e insegnò loro ad accendere il fuoco facendo roteare rapidamente un bastoncino nella fessura di un ceppo.
In seguito, le Trie insegnarono a Hermes come predire il futuro osservando la disposizione dei sassolini in un catino pieno d’acqua, ed egli stesso inventò poi il gioco divinatorio degli astragali. Anche Ade si servì di lui come araldo, perché facilitasse il trapasso dei morenti in modo eloquente, e gentile, appoggiando sui loro occhi la sua verga d’oro. Hermes aiutò le tre Moire a comporre l’alfabeto, inventò l’astronomia, la scala musicale, l’arte del pugilato e della ginnastica, la bilancia e le misure di capacità (invenzione che altri attribuiscono a Palamede) e la coltivazione dell’olivo. Taluni ritengono che la lira inventata da Hermes avesse sette corde; altri che ne avesse soltanto tre, corrispondenti alle stagioni o quattro, corrispondenti alle quattro parti dell’anno, e che Apollo portò il loro numero a sette. Hermes ebbe molti figli, fra i quali ricordiamo Echione, l’araldo degli Argonauti; Autolico, il ladro; e Dafni, l’inventore della poesia bucolica. Codesto Dafni era un bel giovane siciliano e sua madre, una ninfa, lo abbandonò in un bosco d’allori sulla montagna di Era; ecco il perché del nome che gli fu dato dai pastori, suoi genitori adottivi. Pan gli insegnò a suonare lo zufolo; egli era il beniamino di Apollo e cacciava spesso in compagnia di Artemide, che gradiva il suono della sua musica. Dedicava gran cura alla sua mandria, che era della stessa stirpe della mandria di Elio. Una ninfa chiamata Nomia gli fece giurare di non esserle mai infedele, sotto pena di venire accecato; ma la rivale di Nomia, Chimera, riuscì a sedurre Dafni ubriaco, e Nomia lo accecò mettendo in atto la sua minaccia. Dafni si consolò per la perdita della vista suonando tristi canzoni, ma non sopravvisse a lungo. Hermes lo trasformò in una pietra che ancora si vede presso la città di Cefalenitano; e fece sgorgare a Siracusa una fontana che porta il nome di Dafni: colà ogni anno si offrono sacrifici.
ll mito di Hermes, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
“Nato il mattino, a mezzogiorno già suonava la cetra, e la sera rubò le vacche di Apollo arciere; il giorno in cui Maia lo partorì era il quarto del mese.” (Inno omerico a Hermes)
Dal risvolto di copertina: “Protettore dei viaggiatori, dei pastori e dei commercianti ma anche dei ladri, non ignaro della divinazione, guida delle anime dei morti negli Inferi. Hermes è conosciuto come messaggero degli dèi presso gli uomini. I greci gli attribuivano, oltre all’invenzione di strumenti musicali, l’ideazione di molte competizioni sportive e la pratica del pugilato. Egli nacque da Zeus e dalla ninfa Maia, una delle sette pleiadi figlie di Atlante, in una grotta del monte Cillene in Arcadia. Hermes è una divinità particolarmente vicina agli esseri umani, ed è non a caso il dio della parola e della mediazione: a lui infatti si riconnette etimologicamente l’ermeneutica, ossia l’arte dell’interpretazione, che permette di comprendere parole, scritti, pensieri e mentalità di culture anche lontane fra loro nel tempo e nello spazio. Almeno a partire dal V secolo a.C. incontrò grande fortuna nel mondo romano, dove conservò parte delle sue caratteristiche originarie, sebbene parzialmente adattate al forte senso dello stato che caratterizzò ben presto lo sviluppo di quello che sarebbe divenuto il più grande impero dell’antichità.”
Dall’introduzione di Giulio Guidorizzi: “Nella grande solarità delle divinità greche, Hermes è una creatura notturna. SI manifesta in particolare nell’ombra, e la sua natura è dunque essenzialmente lunare: nacque di notte in un luogo segreto (una caverna), è colui che conduce i sogni e guida le anime nell’Ade. È anche un divino imbroglione, dato che sotto il suo patronato si trovano il furto (anch’esso operazione notturna) e il guadagno, lecito o illecito, e si diverte a imbrogliare anche i suoi seguaci. Una simpatica canaglia, si potrebbe dire. SI tratta di un dio popolare, non aristocratico, a portata di tutti, come l’indiano Ganesh. Per i greci, prima di andare a dormire, l’ultima libagione era per Hermes perché conducesse sogni belli.”
Oltre alla narrazione del mito, il volume contiene anche approfondimenti sulla sua fortuna nel corso dei secoli, in tutte le forme artistiche: letteratura (con una ricca antologia di testi classici sul mito), pittura, teatro, cinema. Inoltre vi è una tavola genealogica, e un ricco apparato bibliografico e sitografico. Il volume su Hermes è curato da Giuseppe Lozza, professore di Lingua e letteratura greca presso l’Università degli Studi di Milano. Qui gli ultimi volumi pubblicati.
L’intera collana di trenta volumi è a cura di Giulio Guidorizzi. Guidorizzi è grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e antropologia del mondo antico. Ha scritto numerosi libri sulla mitologia. Noi vi consigliamo, per iniziare, il suo bellissimo Il mito greco (in due volumi, usciti nel 2009 e nel 2012). Qui una lista di suoi volumi sul mito greco.
Acrisio, che aveva sposato Aganippe, non ebbe figli maschi, ma soltanto quella Danae che fu sedotta da Preto; e quando chiese all’oracolo come avrebbe potuto procurarsi un erede si sentì rispondere: «Tu non avrai figli e tuo nipote ti ucciderà». Per impedire che ciò si avverasse, Acrisio chiuse Danae in una torre dalle porte di bronzo, custodita da cani ferocissimi; ma, nonostante queste precauzioni. Zeus discese su Danae come una pioggia d’oro ed essa gli generò un figlio chiamato Perseo. Quando Acrisio fu informato dell’accaduto, non volle credere che Zeus fosse il padre di Perseo e sospettò suo fratello Preto di essersi giaciuto ancora con Danae; non ebbe tuttavia il coraggio di uccidere la propria figlia e la rinchiuse con il neonato in un’arca di legno che gettò in mare. Codesta arca fu spinta dalle onde presso l’isola di Serifo, dove un pescatore chiamato Ditti la ripescò, la portò a riva, l’aprì e vi trovò Danae e Perseo ancora in vita. Subito li portò a suo fratello, re Polidette, che allevò Perseo nella propria casa. Trascorsero gli anni e Perseo, raggiunta ormai l’età virile, difese Danae da Polidette il quale, con l’appoggio dei propri sudditi, voleva costringerla a sposarlo. Polidette riunì allora i suoi amici e, fingendo di aspirare alla mano di Ippodamia, figlia di Pelope, chiese che contribuissero con un cavallo a testa al suo dono nuziale. «Serifo è soltanto una piccola isola», disse, «ma non voglio fare brutta figura accanto ai ricchi pretendenti del continente. Vorrai aiutarmi anche tu, nobile Perseo?» «Ahimè!» rispose Perseo. «Io non possiedo cavalli, né oro per comprarne uno. Ma se tu vuoi sposa Ippodamia anziché mia madre, vedrò di procurarti qualunque dono tu chieda.» E aggiunse imprudentemente: «Anche la testa della Gorgone Medusa, se necessario». Tale dono mi piacerebbe davvero più di ogni altro», replicò pronto Polidette.
Ora, la Gorgone Medusa aveva serpenti in luogo di capelli, lunghissimi denti, lingua sporgente e un volto così orribile nell’insieme che chiunque l’avesse guardato rimaneva pietrificato dal terrore. Atena aveva udito il dialogo tra Polidette e Perseo, ed essendo nemica dichiarata di Medusa, del cui orrendo aspetto era essa stessa responsabile, accompagnò Perseo nella sua impresa. Dapprima lo condusse nella città di Dietterione nell’isola di Samo, dove oggi si possono vedere i simulacri delle tre Gorgoni, affinché imparasse a distinguere Medusa dalle sue immortali sorelle Steno ed Euriale; poi gli consigliò di non guardare mai direttamente Medusa, ma la sua immagine riflessa, e a tale scopo gli donò un lucentissimo scudo. Anche Ermes aiutò Perseo donandogli un falcetto taglientissimo con il quale avrebbe potuto decapitare Medusa. Ma a Perseo occorrevano ancora tre cose: un paio di sandali alati, una sacca magica per riporvi la testa recisa e l’oscuro elmo di Ade, che rende invisibili. Tutti questi oggetti erano custoditi dalle Ninfe Stigie e nessuno sapeva dove esse vivessero, all’infuori delle sorelle delle Gorgoni, le tre Graie dal corpo di cigno che avevano un solo occhio e un solo dente in comune. Perseo dunque raggiunse il monte Atlante, dove le Graie sedevano sui loro troni, e cogliendole di sorpresa strappò loro l’occhio e il dente mentre una delle sorelle li porgeva all’altra, né acconsentì a restituirli prima di aver saputo dove vivessero le Ninfe Stigie. Quando le Ninfe gli ebbero consegnato i sandali, la sacca e l’elmo, Perseo volò verso occidente, fino alla terra degli Iperborei, dove trovò le Gorgoni addormentate, fra grigie statue, consunte dalla pioggia, di uomini e belve pietrificati da Medusa. Perseo fissò lo sguardo sull’immagine di Medusa riflessa nello scudo, Atena guidò la sua mano e con un solo colpo di falcetto decapitò il mostro; allora, con sua grande sorpresa, vide balzar fuori dal cadavere il cavallo alato Pegaso e il guerriero Crisaore, con una falce dorata in mano. Perseo non sapeva che Poseidone aveva generato questi esseri in Medusa all’ombra di un tempio di Atena, ma decise di non affrontarli, e riposta in gran fretta la testa nella magica sacca si alzò in volo; benché Steno ed Euriale, destate dai loro nuovi nipoti, si lanciassero all’inseguimento, Perseo poté allontanarsi sano e salvo, protetto dall’elmo che rende invisibili.
Al tramonto Perseo atterrò presso il palazzo del Titano Atlante, cui mostrò la testa della Gorgone per punirlo d’essere stato inospitale, e lo trasformò così in montagna; il giorno seguente, dirigendosi a oriente, sorvolò il deserto libico, ed Ermes lo aiutò a reggere il peso della testa. Strada facendo lasciò cadere l’occhio e il dente delle Graie nel lago Tritonide e alcune gocce del sangue della Gorgone piovvero sulla sabbia del deserto dove diedero vita a molti serpenti velenosi: uno di essi, in seguito, uccise l’Argonauta Mopso. Perseo si fermò per riposarsi a Chemmi, in Egitto, dove ancora riceve onori, poi continuò il suo volo. Mentre superava da nord la costa della Filistia, vide una donna nuda incatenata a uno scoglio presso il mare e subito se ne innamorò. Costei era Andromeda, figlia di Cefeo, l’etiope re di Joppa, e di Cassiopea. Cassiopea si era un giorno vantata dicendo che la sua bellezza e la bellezza di sua figlia superavano quella delle Nereidi, e le Nereidi si lagnarono di quell’insulto invocando l’aiuto del loro protettore Poseidone. Poseidone scatenò contro la Filistia la furia delle acque e di un mostro marino; e quando Cefeo consultò l’oracolo di Ammone, gli fu risposto che la sua unica speranza stava nel sacrificare Andromeda al mostro. I sudditi furono perciò costretti a incatenarla a una roccia, nuda ma con certi gioielli addosso, perché il mostro la divorasse. Mentre si avvicinava in volo ad Andromeda, Perseo vide Cefeo e Cassiopea che lo seguivano ansiosi con lo sguardo dalla spiaggia, e scese accanto a loro per chiedere in gran fretta consiglio. Perseo ottenne dal re la promessa che, se fosse riuscito a salvare Andromeda, l’avrebbe potuta portare con sé in Grecia come moglie; poi Perseo, preso di nuovo il volo, decapitò il mostro che si era lasciato trarre in inganno dall’ombra di Perseo sulle onde. Il giovane aveva estratto la testa della Gorgone dalla sacca per servirsene semmai il mostro avesse alzato lo sguardo, e la depose ora capovolta su un letto di alghe (che subito si trasformarono in coralli) mentre si ripuliva le mani; poi innalzò tre altari e sacrificò un vitello, una vacca e un toro a Ermes, ad Atena e a Zeus. Cefeo e Cassiopea, seppure a malincuore, lo accolsero come genero e, per insistenza di Andromeda, ebbero subito luogo le nozze. Ma la festa fu interrotta bruscamente allorché Agenore, fratello gemello del re Belo, fece irruzione nella sala alla testa di un gruppo di armati, reclamando Andromeda come sua sposa. Egli era stato convocato, senza dubbio, da Cassiopea, che si riteneva sciolta dalla promessa fatta a Perseo in un momento di necessità e considerava Agenore il legittimo pretendente di Andromeda. «Perseo deve morire», gridò infatti Cassiopea. Nella battaglia che seguì Perseo abbatté molti dei suoi avversari, ma fu costretto a strappare la testa della Gorgone dal cespuglio di corallo e a tramutare in pietre i duecento guerrieri che ancora erano rimasti in vita. Poseidone pose tra le stelle le immagini di Cefeo e di Cassiopea, ma quest’ultima, in punizione del suo tradimento, è legata a una cesta della spesa che, in certe stagioni dell’anno, li capovolge mettendo Cassiopea in posizione ridicola. Atena in seguito immortalò Andromeda in una costellazione più illustre, poiché essa aveva insistito nel voler sposare Perseo nonostante l’opposizione dei suoi genitori. Su uno scoglio presso Joppa si vedono ancora i solchi lasciati dalle sue catene e le ossa pietrificate del mostro furono esposte nella stessa città di Joppa finché l’edile Marco Emilio Scauro le trasportò a Roma. Perseo ritornò a Serifo in gran fretta portando Andromeda con sé: là Danae e Ditti erano state costrette a rifugiarsi in un tempio per sfuggire a Polidette, che naturalmente non aveva mai avuto l’intenzione di sposare Ippodamia. Perseo si recò allora al palazzo dove Polidette stava banchettando con i suoi amici, e annunciò che aveva portato con sé il promesso dono nuziale. Mentre i convitati lo salutavano con una scarica di insulti, egli estrasse la testa della Gorgone, badando di distogliere lo sguardo da quell’orribile volto, e tramutò tutti in pietra; a Serifo si vedono ancora quei massi disposti in cerchio. Perseo donò poi la testa della Gorgone ad Atena che la fissò sulla sua egida; ed Ermes restituì i sandali, la magica sacca e l’elmo alle Ninfe Stigie, perché li custodissero.
Dopo aver posto Ditti sul trono di Serifo, Perseo salpò alla volta di Argo, accompagnato da sua madre, da sua moglie e da un gruppo di Ciclopi. Acrisio, avvertito del suo arrivo, fuggì a Larissa; ma Perseo fu per caso invitato colà per partecipare ai giochi funebri organizzati da re Teutamide in onore del suo defunto genitore, e gareggiò nel pentatlon. Mentre lanciava il disco, questo, spinto dal vento e dalla volontà degli dei, colpì Acrisio a un piede e lo uccise. Profondamente addolorato, Perseo seppellì suo nonno nel tempio di Atena che sovrasta l’Acropoli locale e poi, vergognandosi di regnare in Argo, si recò a Tirinto, dove Megapente era succeduto a Preto, e si accordò per scambiare i due regni. Megapente si trasferì dunque ad Argo, mentre Perseo regnava a Tirinto, e riuscì poi a riconquistare le altre due parti dell’antico regno di Preto. Perseo fortificò Midea e fondò Micene, così chiamata perché un giorno, tormentato dalla sete, Perseo poté dissetarsi a un ruscello sgorgato miracolosamente da un fungo (mycos).
ll mito di Perseo, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
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