Il racconto del mito di Atena è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 21: Atena – La dea invincibile.
Secondo i Pelasgi, la dea Atena nacque presso il lago Tritonide in Libia, dove fu raccolta e nutrita da tre ninfe di quella regione, che vestivano pelli di capra. Ancora fanciulla uccise incidentalmente la sua compagna di giochi Pallade mentre si era impegnata con lei in uno scherzoso combattimento, armata di lancia e di scudo, e in segno di lutto aggiunse il nome di Pallade al proprio. Taluni Elleni, invece, dicono che Atena ebbe un padre chiamato Pallade, un gigante alato a forma di caprone, che in seguito tentò di usarle violenza; ma la dea, strappategli le ali che si applicò alle spalle, e la pelle con cui si fabbricò l’egida, aggiunse il nome di Pallade al proprio, a meno che, come altri sostengono, l’egida non fosse stata fatta con la pelle della Gorgone Medusa, che Atena scorticò dopo che Perseo l’ebbe decapitata.
Altri dicono che suo padre fosse un certo Itono, re di Itone nella Ftiotide, e che Atena uccise inavvertitamente Iodama, figlia di codesto re, lasciando che vedesse la testa della Gorgone mentre oltrepassava di notte il sacro recinto: e subito Iodama si trasformò in pietra. Altri ancora sostengono che il padre di Atena fosse Poseidone, ma che la dea lo rinnegò e chiese di essere adottata da Zeus, e Zeus volentieri acconsentì. Ma i sacerdoti di Atena narrano così la storia della sua nascita: Zeus inseguiva voglioso la Titanessa Metis che per sfuggirgli assunse diverse forme, ma infine fu raggiunta e fecondata. Un oracolo della Madre Terra disse che sarebbe nata una figlia e che, se Metis avesse concepito una seconda volta, sarebbe nato un figlio destinato a detronizzare Zeus così come Zeus aveva detronizzato Crono, e come Crono aveva detronizzato Urano. Zeus allora, dopo aver indotto Metis, con melate parole, a giacere accanto a lui, improvvisamente spalancò la bocca e la inghiottì, e questa fu la fine di Metis, né più si seppe nulla di lei, benché Zeus sostenesse che dal fondo del suo ventre essa gli dava a volte preziosi consigli. A tempo debito. Zeus fu colto da un terribile dolore di capo mentre camminava lungo le rive del lago Tritone, e gli parve che il suo cranio dovesse scoppiare, e ululò per il dolore tanto da destare gli echi del firmamento. Subito accorse Ermes, che indovinò la causa della pena di Zeus. Egli indusse dunque Efesto o, come altri sostengono. Prometeo, a munirsi di ascia e di maglio per aprire una fessura nel cranio di Zeus, ed ecco balzar fuori Atena, tutta armata, con un potente grido.
Atena inventò il flauto, la tromba, il vaso di terracotta, l’aratro, il rastrello, il giogo per i buoi, la briglia per i cavalli, il cocchio e la nave. Fu la prima a insegnare la scienza dei numeri e tutte le arti femminili, come il cucinare, il filare e il tessere. Benché dea della guerra, essa non gode delle sanguinose battaglie, come invece accade ad Ares e a Eris ma preferisce appianare le dispute e far rispettare la legge con mezzi pacifici. Non porta armi in tempo di pace e qualora ne abbia bisogno le chiede in prestito a Zeus. La sua misericordia è grande. Se nei processi che si svolgono all’Areopago i voti dei giudici sono pari, essa di solito aggiunge il proprio per ottenere l’assoluzione dell’accusato. Ma se si trova impegnata in guerra non perde mai una battaglia, sia pure contro lo stesso Ares, perché più esperta di lui nell’arte strategica; i capitani accorti si rivolgono sempre a lei per avere consiglio. Molti dei. Titani o Giganti avrebbero volentieri sposato Atena, ma essa rifiutò tutte le loro proposte.
In una certa occasione, durante la guerra troiana, non volendo chiedere in prestito le armi a Zeus che si era dichiarato neutrale, pregò Efesto di fabbricarle un’armatura. Efesto rifiutò di essere pagato, dicendo astutamente che si sarebbe assunto l’incarico per amore; Atena non afferrò il significato di quella frase e, quando si recò nella fucina di Efesto per vederlo battere col martello sul metallo arroventato, il dio all’improvviso si volse e cercò di usarle violenza. Efesto, che di solito non si comportava in modo tanto grossolano, era vittima di uno scherzo crudele: Poseidone l’aveva informato che Atena stava dirigendosi verso la fucina, col consenso di Zeus, sperando che Efesto facesse all’amore con lei. Quando Atena si divincolò da Efesto, questi eiaculò sulla sua coscia, un po’ al disopra del ginocchio. La dea si ripulì dallo sperma con una manciata di lana, che gettò via disgustata: la lana cadde al suolo presso Atene e casualmente fecondò la Madre Terra che si era recata in visita colà. Ribellandosi all’idea di avere un figlio che Efesto avrebbe voluto generare in Atena, la Madre Terra rifiutò ogni responsabilità per la sua educazione. «E va bene», disse Atena, «me ne occuperò io». Prese infatti sotto la sua protezione il bimbo appena nato, lo chiamò Erittonio e, per evitare che Poseidone ridesse del successo della sua burla grossolana, lo celò in un cesto che affidò ad Aglauro, figlia maggiore del re d’Atene, Cecrope, raccomandandole di averne cura.
Atena, modesta quanto Artemide, è molto più generosa. Quando Tiresia, un giorno, la sorprese per caso intenta a fare il bagno, essa gli posò le mani sugli occhi e lo accecò, compensandolo tuttavia col dono della chiaroveggenza. Si dice che in una sola occasione Atena diede prova di incontrollata invidia. Aracne, una principessa di Colofone in Lidia, città famosa per la sua porpora, era così esperta nell’arte della tessitura che nemmeno Atena poteva competere con lei. Quando le mostrarono un mantello dove Aracne aveva intessuto scene d’amore tra gli olimpi, Atena lo scrutò attentamente per scoprirvi degli errori, e non trovandone alcuno lo lacerò furibonda. Quando Aracne, avvilita e atterrita, si impiccò a una trave, Atena la trasformò in un ragno (l’insetto che più le è inviso) e tramutò la corda in una ragnatela; Aracne vi si arrampicò salvandosi la vita.
ll mito di Atena, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
“Comincio a cantare Pallade Atena, la gloriosa dea dagli occhi splendenti, ingegnosa, dal cuore inflessibile, vergine casta, signora dell’Acropoli, intrepida Tritogenia; il saggio Zeus la generò da sola, dal suo capo venerabile, rivestita già delle armi di guerra dorate e lucenti.” (Inni Omerici)
Dal risvolto di copertina: “Divinità guerriera dall’incredibile origine: Zeus infatti temendo la nascita di un figlio che avrebbe potuto divenire più potente di lui, ingoiò la prima moglie Metis, figlia dell’Oceano e personificazione della ragione e dell’intelligenza, incinta di Atena che così nacque dalla testa del padre, aperta all’uopo da Efesto con un’accetta. Atena, figlia prediletta del padre degli dèi, nacque già adulta, armata di lancia e scudo, e i simboli sacri che le vennero riferiti sono la civetta e l’ulivo. La dea, infatti, ha sempre con sé la sua civetta, o nottola, e indossa una corazza, realizzata con la pelle della capra Amaltea, chiamata egida e donatale dal padre Zeus. Platone rifersice, nel dialogo Cratilo, un’etimologia del nome che significherebbe “la mente di dio”. Atena, inoltre, è legata indissolubilmente alla città di Atene, che, non solo ha preso il suo nome dalla dea, ma i suoi valori religiosi, civici e politici sono come rappresentati in maniera simbolica nelle vicende mitiche che la riguardano.”
Dall’introduzione di Giulio Guidorizzi: “L’epiteto più noto con cui è descritta Atena, quanto meno in Omero, è “Glaucopide”, cioè “dagli occhi verdeazzurro”, come le civette (ed è possibile che in epoche molto remote fosse identificata con una dea-civetta): una civetta simboleggiante Atena era appunto stampata sulle dracme ateniesi. Atena è una divinità civilizzatrice, colei che accompagna gli esseri umani verso forme superiori di cultura: fu lei a favorire la costruzione della prima nave che abbia solcato i mari, Argo, su cui si imbarcò Giasone con i suoi compagni; è sempre lei che ispira e protegge artisti, orefici e vasai, che la invocano come patrona della loro arte.’”
Oltre alla narrazione del mito, il volume contiene anche approfondimenti sulla sua fortuna nel corso dei secoli, in tutte le forme artistiche: letteratura (con una ricca antologia di testi classici sul mito), pittura, teatro, cinema. Inoltre vi è una tavola genealogica, e un ricco apparato bibliografico e sitografico. Il volume su Atena è curato da Adele Teresa Cozzoli, professoressa di Letteratura greca presso l’Università di Roma Tre.
L’intera collana di trenta volumi è a cura di Giulio Guidorizzi. Guidorizzi è grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e antropologia del mondo antico. Ha scritto numerosi libri sulla mitologia. Noi vi consigliamo, per iniziare, il suo bellissimo Il mito greco (in due volumi, usciti nel 2009 e nel 2012). Qui una lista di suoi volumi sul mito greco.
Narciso era un tespio, figlio dell’azzurra Ninfa Liriope, che un giorno il dio del fiume Cefiso aveva avvolto nelle liquide spire delle sue acque e violata. Il veggente Tiresia disse a Liriope, la prima persona che l’avesse mai consultato: «Narciso vivrà fino a tarda età, purché non conosca mai se stesso». Chiunque si sarebbe innamorato di Narciso e, quando egli ebbe raggiunto i sedici anni, si era già lasciato alle spalle una schiera di amanti respinti d’ambo i sessi, poiché era caparbiamente geloso della propria bellezza.
Tra gli altri spasimanti vi era la Ninfa Eco, che non poteva più servirsi della propria voce se non per ripetere stupidamente le ultime parole gridate da qualcun altro: così fu punita per aver distratto Era con lunghe favole mentre le concubine di Zeus, le Ninfe della montagna, sfuggivano ai suoi occhi gelosi e si mettevano in salvo. Un giorno, mentre Narciso si preparava a tendere reti per i cervi, Eco lo seguì in un’impenetrabile foresta, desiderosa di rivolgergli la parola; ma, come al solito, non poteva parlare per prima. A un tratto Narciso, accortosi di esser ormai lontano dai suoi compagni, gridò: «C’è qualcuno qui?» «Qui!» rispose Eco, lasciando Narciso assai sorpreso, perché non si vedeva anima viva. «Vieni!» «Vieni» «Perché mi sfuggi?» «Perché mi sfuggi?» «Raggiungimi qua!» «Raggiungimi qua!» ripeté Eco gioiosamente, e balzò fuori dal suo nascondiglio per abbracciare Narciso. Ma egli la respinse in modo brusco e fuggì: «Morirò prima; che tu giaccia con me!» egli gridò. «Che tu giaccia con me!» ripeté Eco lamentosamente.
Ma Narciso era sparito ed Eco trascorse il resto della sua vita in valli solitarie, gemendo d’amore e di rimpianto, finché di lei rimase soltanto la voce. Un giorno Narciso mandò una spada ad Aminio, il suo spasimante più acceso, da cui prese il nome il fiume Aminio, un tributario dell’Elisso che confluisce nell’Altee. Aminio si uccise sulla soglia della casa di Narciso, invocando gli dei perché vendicassero la sua morte. Artemide udì quel grido di dolore e fece sì che Narciso si innamorasse senza poter soddisfare la propria passione. A Donacene, nella regione di Tespia, egli si avvicinò un giorno a una fonte chiara come l’argento ne mai contaminata da armenti, uccelli, belve o rami caduti dagli alberi vicini; non appena Narciso, esausto, sedette sulla riva di quella fonte, si innamorò della propria immagine. Dapprima tentò di abbracciare e baciare il bel fanciullo che gli stava dinanzi, poi riconobbe se stesso e rimase per ore a fissare lo specchio d’acqua della fonte, quasi fosse incantato.
L’amore gli veniva al tempo stesso concesso e negato, egli si struggeva per il dolore e insieme godeva del suo tormento, ben sapendo che almeno non avrebbe tradito se stesso, qualunque cosa accadesse. Eco, pur non avendo perdonato Narciso, soffriva con lui: ripeté dunque il disperato «Ahimè» che Narciso pronunciò trafiggendosi il petto con la spada, e le parole che mormorò spirando: «O giovane invano amato, addio!» Dalla terra inzuppata del suo sangue nacque il narciso bianco dalla rossa corolla, da cui si distilla ora l’unguento balsamico di Cheronea. Tale unguento è raccomandato per le malattie dell’orecchio (benché possa provocare dei mali di capo), come vulnerario e per la cura dei geloni.
ll mito di Narciso, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
“Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire. Lei sta tanto a mirarsi in codesto specchio, in tutti gli specchi, perché non vive; non sa, non può o non vuole vivere. Vuole troppo conoscersi, e non vive.” (Luigi Pirandello, Uno, nessuno, centomila)
Dal risvolto di copertina: “Un mito che è poesia, e allo stesso momento è aperto a infinite invenzioni e varianti: Narciso che respinge gli amanti di ambo i sessi, che si specchia nella fonte e si innamora per sempre della sua immagine riflessa. In Ovidio è figlio della Ninfa Liriope e del dio fluviale Cefiso, ma nei secoli della cultura “classica”, dalle origini sino all’inizio dell’età ellenistica, è del tutto sconosciuto. Personaggio amato dagli scrittori latini e medievali, a partire dalla versione dominante di Ovidio che lo elabora e rende celebre nelle sue Metamorfosi, citato da Stazio e dai suoi commentatori nelle Silvae e nella Tebaide, noto agli scrittori greci, da Filostrato a Pausania e Plotino, per poi arrivare a Boccaccio e alla cultura europea dell’Umanesimo e del Rinascimento, e infine diventare celebre nell’età moderna (secoli XVI-XIX) e contemporanea. Non è difficile prevedere che la sua capacità generativa, nelle arti, sia destinata a crescere in futuro, come già sta avvenendo nella diffusione mediatica attuale.”
Dall’introduzione di Giulio Guidorizzi: “In una mitologia piena di dèi ed eroi c’è posto anche per un ragazzo comune che non compì nessuna impresa: l’unica fu quella di specchiarsi a una fonte. Il suo mito non parla di azioni ma di uno stato, di un modo di essere fisso e bloccato. Il tempo passa attorno a lui, ma Narciso non se ne accorge. Narciso, comunque, non si annullò completamente perché divenne fiore. Questo mito fa parte quindi di una categoria mitica tipica della cultura greca, vale a dire quella della metamorfosi. Per concludere, tornando al nostro ragazzo che cadde nella fonte per troppa brama di sé, e anche per troppa brama di bellezza, viene da ricordare quanto scrisse un erudito tardo (citato dal bizantino Lessico Suda): un giorno in cui Narciso rimirava la propria bellezza nella fonte, le Ninfe cha abitavano lì emersero dall’acqua e gli dissero ‘molti ti odieranno, se amerai te stesso.’”
Oltre alla narrazione del mito, il volume contiene anche approfondimenti sulla sua fortuna nel corso dei secoli, in tutte le forme artistiche: letteratura (con una ricca antologia di testi classici sul mito), pittura, teatro, cinema. Inoltre vi è una tavola genealogica, e un ricco apparato bibliografico e sitografico. Il volume su Narciso è curato da Ezio Pellizer, già professore di Letteratura greca presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trieste. Qui gli ultimi volumi pubblicati.
L’intera collana di trenta volumi è a cura di Giulio Guidorizzi. Guidorizzi è grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e antropologia del mondo antico. Ha scritto numerosi libri sulla mitologia. Noi vi consigliamo, per iniziare, il suo bellissimo Il mito greco (in due volumi, usciti nel 2009 e nel 2012). Qui una lista di suoi volumi sul mito greco.
Il racconto del mito di Achille è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 19: Achille – Il guerriero vulnerabile.
Scoccò il secondo anno della guerra di Troia: giunse la primavera e i combattimenti ripresero. Nel primo scontro Achille invitò Ettore a farsi avanti ma il vigile Eleno gli trafisse il palmo della mano con una freccia scoccata da un arco d’avorio, dono d’amore di Apollo, e lo costrinse ad arretrare. Zeus stesso guidò al bersaglio la punta della freccia, e subito decise di dare un po’ di requie ai Troiani scoraggiati dalle incursioni dei Greci lungo le coste e dalla conseguente diserzione di certi alleati asiatici. Zeus colpì i Greci con una pestilenza e mise in urto Achille con gli altri suoi compagni. Quando Crise venne al campo per riscattare Criseide, Zeus indusse Agamennone a scacciarlo con ingiuriose parole; Apollo, invocato da Crise, si piazzò presso le navi e per giorni e giorni, incessantemente, scagliò le sue frecce tra i Greci. Gli uomini perirono a centinaia benché, come spesso accade, né re né principi fossero colpiti; al decimo giorno Calcante rivelò la presenza del dio. Per invito di Calcante, Agamennone, sia pure a malincuore, rimandò Criseide al padre con doni propiziatori, ma trovò presto un compenso a quella perdita togliendo Briseide ad Achille, che l’aveva avuta in sorte come schiava nella spartizione del bottino. Al che Achille, furibondo, dichiarò che non avrebbe più preso parte alla guerra; e sua madre Teti, indignata, interpellò Zeus, che le promise soddisfazione per Achille. Quando i Troiani si resero conto che Achille e i suoi Mirmidoni si erano ritirati dalla battaglia, ripresero animo e fecero un’audace sortita. Agamennone, allarmato, propose una tregua durante la quale Paride e Menelao si sarebbero battuti in duello per decidere la sorte di Elena e del tesoro rubato. Il duello tuttavia ebbe esito incerto perché Afrodite, quando vide che Paride stava avendo la peggio, lo avvolse in una magica nube e lo trasportò a Troia. Era allora incaricò Atena di rompere la tregua inducendo Pandaro, figlio di Licaone, a scoccare una freccia contro Menelao; al tempo stesso la dea diede a Diomede l’ispirazione di uccidere Pandaro e di ferire Enea e la madre sua Afrodite.
Agamennone, disperato, mandò Fenice, Odisseo, Aiace e due araldi alla tenda di Achille, con l’incarico di offrirgli, per placarlo, innumerevoli doni e la restituzione di Briseide (ancora vergine, come Agamennone era pronto a giurare), se avesse acconsentito a combattere ancora. Occorre qui spiegare che Crise, frattanto, aveva riportato all’accampamento greco sua figlia, che sosteneva di essere stata trattata con molta cortesia da Agamennone e desiderava rimanere con lui: essa era infatti incinta e più tardi diede alla luce Crise secondo, un bimbo la cui paternità era dubbia. Achille accolse i messaggeri con un gentile sorriso, ma rifiutò le loro offerte e dichiarò che l’indomani mattina sarebbe salpato per ritornare in patria. Il giorno seguente, tuttavia, dopo un’aspra battaglia durante la quale Agamennone, Odisseo, Euripilo e Macaone il chirurgo furono feriti, i Greci ripiegarono ed Ettore aprì una breccia nel loro muro. Incoraggiato da Apollo, Ettore si spinse poi verso le navi e nonostante l’aiuto dato da Poseidone ai due Aiaci e a Idomeneo, irruppe nelle linee greche. A questo punto Era, che odiava i Troiani, prese in prestito la cintura di Afrodite e indusse Zeus ad andare a letto con lei; questa astuzia permise a Poseidone di capovolgere le sorti della battaglia in favore dei Greci. Ma Zeus, accortosi di essere stato gabbato, rianimò Ettore che era stato intontito da Aiace con una grossa pietra, ordinò a Poseidone di allontanarsi dal campo di battaglia e rinfocolò il valore dei Troiani. Essi avanzarono di nuovo; Medone uccise Perifete, figlio di Copreo, e molti altri campioni. Perfino il Grande Aiace fu costretto a indietreggiare, e Achille, quando vide alzarsi le fiamme dalla nave di Protesilao incendiata dai Troiani, si scordò del suo rancore e incitò i Mirmidoni ad accorrere in aiuto di Patroclo. Questi aveva scagliato la lancia nel folto dei Troiani riuniti attorno alla nave di Protesilao e aveva trafitto Pirecmo, re dei Peoni. Allora i Troiani, scambiando Patroclo per Achille, fuggirono. Patroclo spense l’incendio, salvò la nave e abbattè Sarpedone. Benché Glauco cercasse di radunare i Lici per impedire che il corpo di Sarpedone fosse spogliato. Zeus permise che Patroclo inseguisse l’esercito nemico fino alle mura di Troia. Ettore fu il primo a ritirarsi, perché gravemente ferito da Aiace.
Patroclo frattanto incalzava da presso i nemici, e avrebbe conquistato Troia da solo se Apollo in gran fretta non fosse salito sulle mura respingendo per tre volte Patroclo con lo scudo, mentre questi tentava di dare la scalata. La battaglia si protrasse fino al calar della notte allorché Apollo, avvolto in una fitta nebbia, assalì Patroclo alle spalle e lo colpì con forza tra le scapole. Patroclo strabuzzò gli occhi, l’elmo gli cadde dal capo, la sua lancia andò in mille pezzi e lo scudo rotolò a terra; e Apollo con un sorriso maligno gli slacciò la corazza. Euforbo figlio di Pantoo vedendo Patroclo ridotto in quello stato, lo ferì senza timore che egli reagisse, e mentre Patroclo si allontanava barcollando, Ettore, ritornato sul campo di battaglia, lo finì con un solo colpo di lancia. Accorse Menelao e uccise Euforbo (che si dice, fra l’altro, si sia reincarnato in seguito nel filosofo Pitagora); poi ritornò alla sua tenda con le spoglie del nemico morto, lasciando che Ettore levasse a Patroclo l’armatura. Menelao e il Grande Aiace ritornarono sul posto e insieme difesero il cadavere di Patroclo fino al crepuscolo, quando riuscirono a portarlo in salvo presso le navi. Achille, avuta la triste notizia, si rotolò tra la polvere abbandonandosi a una crisi di disperazione. Teti entrò nella tenda del figlio recandogli una nuova armatura che comprendeva anche un paio di preziosi schinieri forgiati da Efesio. Achille diede subito di piglio alle armi, si riconciliò con Agamennone (che gli restituì Briseide intatta dicendo di averla voluta per puntiglio e non per desiderio) e uscì dalla tenda per vendicare Patroclo. Nessuno poté resistere alla sua furia. I Troiani ruppero le file e corsero verso lo Scamandro, dove Achille li divise in due gruppi, respingendone uno verso le mura della città e l’altro nelle acque del fiume. Il dio del fiume si precipitò su Achille con violenza, ma Efesio prese le difese dell’eroe e prosciugò le acque col calore di una fiammata improvvisa. I Troiani superstiti si rifugiarono in città come un branco di cerbiatti terrorizzati.
Quando infine Achille si trovò a faccia a faccia con Ettore e lo sfidò a duello, le due schiere nemiche arretrarono e rimasero a guardare attonite. Ettore voltò le spalle all’avversario e cominciò a correre attorno alle mura della città: con tale manovra sperava di stancare Achille che per molto tempo era rimasto inattivo e doveva dunque avere il fiato corto. Ma si sbagliava. Achille lo inseguì per tre volte attorno alle mura, sempre pronto a precederlo e a sbarrargli il passo se Ettore cercava rifugio presso una porta per ricorrere all’aiuto dei suoi fratelli. Infine Ettore si fermò, deciso a sostenere l’attacco, e subito Achille gli trapassò il petto e rifiutò di concedere il favore che Ettore morente implorava: che il suo corpo potesse essere riscattato per le esequie. Impossessatosi dell’armatura del morto. Achille gli tagliò la carne dietro i tendini dei talloni, passò strisce di cuoio nei fori e le legò al suo cocchio, poi incitati con la frusta Balio, Xanto e Pedaso, trascinò il cadavere verso le navi al piccolo trotto. La testa di Ettore, coi neri riccioli spioventi, sollevò una nube di polvere. Achille si occupò poi delle esequie di Patroclo. Quasi a placare il dolore per la morte di Patroclo, Achille si alzava ogni mattina e trascinava tre volte il corpo di Ettore attorno alla tomba dell’amico perduto. Tuttavia Apollo protesse il cadavere impedendo che si corrompesse o lacerasse e infine, per ordine di Zeus, Ermete guidò Priamo al campo greco col favore delle tenebre e indusse Achille ad accettare il prezzo del riscatto. In quella occasione Priamo si dimostrò molto magnanimo nei confronti di Achille, poiché lo trovò addormentato nella sua tenda e avrebbe potuto facilmente ucciderlo. Il prezzo del riscatto fu fissato in tanto oro quanto pesava il corpo di Ettore. I Greci portarono una bilancia dinanzi alle mura della città, posero il cadavere su un piatto e invitarono i Troiani a gettare oro sull’altro piatto. Quando già si era dato fondo al tesoro di Priamo e il greve corpo di Ettore ancora premeva il piatto della bilancia verso il basso, Polissena, che stava a guardare dalle mura, gettò giù i suoi braccialetti per completare il peso. Pieno di ammirazione, Achille disse a Priamo: «Tieniti il tuo oro; preferisco barattare il corpo di Ettore con Polissena. Dammela in sposa, e se restituirai Elena a Menelao, mi incaricherò di ristabilire la pace tra il mio popolo e il tuo». Ma a Priamo, per il momento, bastava riscattare il corpo di Ettore con l’oro. Promise tuttavia di dare Polissena in sposa ad Achille se egli avesse indotto i Greci ad andarsene senza Elena. Achille replicò che avrebbe fatto il possibile, e Priamo si portò via il cadavere del figlio.
ll mito di Achille, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
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