Il leone di Nemea – La prima fatica che Euristeo impose a Eracle, quando egli si stabilì a Tirinto, fu di uccidere e scuoiare il leone Nemeo o Cleoneo, una belva enorme invulnerabile da ferro, bronzo o pietra. Benché alcuni dicano che questo leone fosse nato da Tifone o dalla Chimera e dal cane Ortro, altri sostengono che Selene lo generò con un terrificante sobbalzo e lo lasciò cadere sulla terra, e precisamente sul monte Treto presso Nemea, dinanzi a una grotta a due uscite. E che per punire il mancato adempimento di un sacrificio, là lo lasciò, affinché divorasse la sua gente. Chi ne soffrì di più furono i Bambinei. Altri ancora dicono che, per seguire il desiderio di Era, Selene creò il leone dalla spuma del mare rinchiusa in un’ampia arca e che Iride, servendosi della sua cintura a mo’ di guinzaglio, lo guidò tra i monti Nemei; questi monti presero il nome da una figlia di Asopo, oppure di Zeus e Selene; e la grotta del leone ancora si vede, a due miglia dalla città di Nemea. Giunto a Cleone, tra Corinto e Argo, Eracle alloggiò nella casa di un contadino o pastore chiamato Molorco, il cui figlio era stato ucciso dal leone. Molorco già si preparava a offrire un capro a Era come sacrificio propiziatorio, ma Eracle lo trattenne: «Aspetta trenta giorni», disse. «Se ritornerò sano e salvo sacrificherai a Zeus Salvatore; se no sacrificherai a me siccome eroe!» Eracle raggiunse Nemea a mezzogiorno, ma, poiché il leone aveva fatto stragi nel vicinato, non trovò nessuno che potesse dargli indicazioni, né vedeva tracce da seguire. Dopo aver battuto le pendici del monte Apesante, così chiamato da Apesante, un pastore divorato dal leone, benché altri dicano che Apesante fosse figlio di Acrisie che morì per un morso di serpente al tallone, Eracle si recò sul monte Treto e finalmente vide da lontano il leone che ritornava alla sua tana, il mantello chiazzato dal sangue della sua quotidiana strage. Eracle scagliò frecce in rapida successione, ma tutte rimbalzarono sulla fitta pelliccia, e il leone si leccò le labbra sbadigliando. Eracle allora die di piglio alla spada, che si piegò quasi fosse di stagno. Infine agguantò la sua clava e vibrò un tale colpo sul muso del leone che la belva entrò nella sua tana scrollando il capo: non per il dolore, però, ma perché gli ronzavano le orecchie. Eracle, fissando con rammarico la sua clava infranta, decise allora di bloccare uno degli ingressi della caverna ed entrò dall’altro. Certo ormai che il mostro fosse invulnerabile dalle armi, iniziò con lui una lotta terribile. Il leone gli amputò un dito con un morso; ma, immobilizzatagli la testa. Eracle gli premette il braccio contro la gola finché lo soffocò. Con la carcassa del leone sulle spalle. Eracle ritornò a Cleone; vi giunse al trentesimo giorno e trovò Molorco sul punto di offrirgli un sacrificio eroico; invece, sacrificarono assieme a Zeus Salvatore. Compiuto il sacrificio. Eracle si fabbricò una nuova clava e, dopo aver in parte modificato i Giochi Nemei, fino a quel giorno celebrati in onore di Ofelte, li dedicò a Zeus. Poi portò la carcassa del leone sino a Micene. Euristeo, stupito e terrorizzato, gli ordinò di non mettere mai più piede in città. In futuro avrebbe dovuto deporre i frutti delle sue Fatiche dinanzi alle porte. Eracle si adoperò inutilmente per scuoiare il leone, finché, per divina ispirazione, pensò di servirsi degli artigli della belva, affilati come rasoi, e ben presto poté indossare la pelle invulnerabile a guisa di armatura, mentre il cranio del leone gli copriva il capo come elmo. Frattanto Euristeo ordinò ai suoi fabbri di forgiargli un’urna di bronzo, che seppellì sottoterra. E da quel giorno, ogni qual volta veniva annunciato l’arrivo di Eracle, egli si rifugiava in quell’urna e trasmetteva i suoi ordini per mezzo di un araldo, un figlio di Pelope chiamato Copreo, che Euristeo aveva purificato da un omicidio. Gli onori tributatigli dai cittadini di Nemea in segno di gratitudine per l’impresa da lui compiuta Eracle, in seguito, li cedette ai suoi alleati di Cleone che combatterono con lui durante la Guerra Elea e caddero nel numero di trecentosessanta. Quanto a Molorco, egli fondò la vicina città di Molorca e piantò il Bosco Nemeo, dove ora si svolgono i Giochi Nemei. Eracle non fu il solo che strangolò un leone in quei giorni. La medesima prodezza fu compiuta dal suo amico Filio come la prima delle tre prove d’amore impostegli da Cicno, figlio di Apollo e di Iria. Filio aveva inoltre catturati vivi alcuni mostruosi uccelli antropofagi, simili ad avvoltoi, e sostenuta un’aspra lotta con un toro selvaggio, che guidò poi all’altare di Zeus. Dopo queste tre fatiche Cicno, non contento, pretese anche un bue che Filio aveva vinto come premio a certi giochi funebri. Eracle consigliò a Filio di rifiutare, insistendo invece affinché Cicno tenesse fede ai patti. Cicno allora, disperato, si gettò in un lago che fu chiamato lago Cicneo. Sua madre Ina lo seguì nella morte, e ambedue furono trasformati in cigni.
L’idra di Lerna – La seconda Fatica che Euristeo impose a Eracle fu di distruggere l’idra di Lerna, mostro nato da Echidna e da Tifone e che Era aveva addestrato per minacciare la vita di Eracle. Lerna sorge accanto al mare, a circa cinque miglia dalla città di Argo. A occidente la sovrasta il monte Fontino, con il suo sacro bosco di platani che digrada sino alla spiaggia. In questo bosco, chiuso da un lato dal fiume Pontino, presso il quale Danao dedicò un tempio ad Atena, e dall’altro dal fiume Amimene, vi sono statue di Demetra, Dioniso Salvatore e Prosinna, una delle nutrici di Era; e sul lido un simulacro in pietra di Afrodite offerto dalle Danaidi. Ogni anno si svolgono a Lerna riti notturni e segreti in onore di Dioniso, che in quel luogo discese al Tartaro alla ricerca di sua madre Semele; e non molto lontano si celebrano i Misteri di Demetra Lernea, in un recinto che segna il punto da dove anche Ade e Persefone discesero al Tartaro. Questo fertile e sacro distretto fu un tempo terrorizzato dall’idra, che aveva la sua tana sotto un platano, presso la settuplice sorgente del fiume Amimene e si aggirava nella palude Lernea, di cui nessuno riuscì a misurare la profondità (l’imperatore Nerone ci si provò di recente, ma invano), e che divenne la tomba di molti incauti viandanti. L’idra aveva un mostruoso corpo di cane e otto o nove teste serpentine, una di esse immortale; ma taluni parlano di cinquanta, altri di cento, persino di diecimila teste. A ogni modo, l’idra era così velenosa che il suo solo respiro e persino il puzzo delle sue tracce potevano uccidere. Atena aveva ben meditato in quale modo Eracle potesse uccidere l’idra, e quando egli giunse a Lerna, sul suo cocchio guidato da Iolao, gli indicò la tana del mostro. Dietro consiglio della dea, Eracle costrinse l’idra a uscire dalla tana tempestandola di frecce infuocate, e poi l’assalì trattenendo il fiato. Il mostro si avvolse attorno ai suoi piedi, nel tentativo di farlo inciampare. Invano Eracle si accanì con la clava: non appena gli riusciva di spaccare una delle teste dell’idra, subito ne ricrescevano due o tre altre per sostituirla. Un enorme granchio emerse allora dalla palude per aiutare l’idra e si attaccò al piede di Eracle; schiacciando violentemente il guscio del granchio sotto il tallone, Eracle gridò per invocare il soccorso di Iolao. Iolao diede fuoco a un lembo del bosco e poi, per impedire che nuove teste germogliassero sul corpo dell’idra, ne cauterizzava la radice con rami infuocati, e così fermava il flusso del sangue. Usando una spada o un aureo falcetto, Eracle tagliò allora la testa immortale, che era in parte d’oro, e la seppellì, ancor sibilante, sotto una pesante roccia ai margini della strada che conduceva a Elea. Poi squartò la carcassa e immerse la punta delle sue frecce nella bile del mostro. Da quel giorno la minima scalfittura prodotta da tali frecce fu sempre fatale. Per ricompensare il granchio dei suoi servigi, Era lo immortalò tra i segni dello Zodiaco, ed Euristeo dichiarò che quella Fatica non era stata compiuta a dovere, perché Iolao aveva aiutato Eracle con i suoi rami infuocati.
ll mito di Eracle, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
Giunto al diciottesimo anno di età. Eracle lasciò le mandrie e si preparò ad affrontare il leone del Citerone, che faceva strage tra il bestiame di Anfitrione e del suo vicino re Tespio, chiamato anche Testio. Il leone aveva un’altra tana sul monte Elicona, ai piedi del quale si trova la città di Tespia. L’Elicona fu sempre un monte gaio; i Tespi vi celebrano un’antica festa in onore delle Muse e si dilettano in giochi amorosi sulle sue pendici, attorno alla statua di Eros, loro patrono. Re Tespio ebbe cinquanta figlie da sua moglie Megamede, figlia di Arneo, gaia come tutte le donne tespie. Per timore che esse si unissero a uomini indegni di loro, Tespio decise che ciascuna avesse un figlio da Eracle, che era impegnato tutto il giorno nella caccia al leone. Eracle infatti dormì a Tespia per cinquanta notti di seguito. «Ti darò mia figlia maggiore Procri come compagna», disse Tespio a Eracle con cordialità ospitale. Ma poi fece in modo che a Procri si sostituissero le sorelle, una notte per ciascuna, finché tutte si giacquero con Eracle. Altri tuttavia dicono che Eracle le deflorò tutte in un’unica notte, e che soltanto una si rifiutò al suo amplesso e rimase vergine fino alla morte, servendo come sacerdotessa nel santuario di Tespia; perché ancor oggi la sacerdotessa tespia deve essere vergine. Tuttavia Eracle generò cinquantuno figli dalle figlie di Tespio, perché Procri, la maggiore, ebbe due gemelli, Antileone e Ippeo, e la più giovane altri due. Stanato finalmente il leone, lo uccise con una clava grezza fatta del legno di un olivo che aveva sradicato sull’Elicona. Eracle poi indossò la pelle della belva le cui fauci spalancate fungevano da elmo. Altri però dicono che egli si rivestì con la pelle del leone Nemeo, oppure di un’altra belva che uccise a Teumesso, presso Tebe, mentre il merito di aver ucciso il leone del Citerone spetta a Alcatoo.
Alcuni anni prima degli eventi ora narrati, durante la festa di Posidone a Onchesto, un incidente di poco conto suscitò la collera dei Tebani, e allora l’auriga Meneceo scagliò un sasso che ferì mortalmente il re Climeno, che discendeva da Minia. Climeno, agonizzante, fu riportato a Orcomeno e laggiù, mentre esalava l’ultimo respiro, ingiunse ai propri figli di vendicarlo. Il maggiore di costoro, Ergine, che ebbe come madre la principessa beota Budea o Buzige, raccolse un esercito, marciò contro i Tebani e rovinosamente li sconfisse, Secondo i termini della resa, confermati da solenni giuramenti, i Tebani avrebbero dovuto pagare a Ergino un tributo annuale di cento capi di bestiame, per venti anni di seguito, in espiazione dell’assassinio di Climeno. Eracle, di ritorno dall’Elicona, si imbatté negli araldi mini che venivano a raccogliere il bestiame in terra tebana. Eracle chiese quale fosse la meta del loro viaggio, ed essi con tono sprezzante risposero che dovevano ricordare ai Tebani l’atto di clemenza di Ergino, il quale si era limitato a esigere una mandria di cento capi invece di mozzare le orecchie, il naso e le mani di ogni cittadino di Tebe. «Un simile tributo sta davvero tanto a cuore a Ergine?» replicò Eracle furibondo. Poi mutilò gli araldi nel modo da essi descritto, e li rimandò a Orcomeno, le estremità sanguinanti legate con una corda attorno al collo. Quando Ergino pretese che gli si consegnasse l’autore di così oltraggioso misfatto, re Creonte sarebbe stato disposto a obbedire, perché i Mini avevano disarmato i Tebani; ne egli poteva sperare nell’amichevole intervento dei suoi vicini in una situazione tanto grave. Ma Eracle convinse i camerati più giovani a battersi per la libertà. Si recò allora in tutti i templi della città, raccolse le lance, gli scudi, gli elmi, le corazze, gli schinieri e le spade che erano stati offerti agli dei in ricordo di vittoriose battaglie, e Atena, che molto apprezzò quel gesto, li adattò alla corporatura di Eracle e dei suoi amici. Così Eracle poté equipaggiare ogni Tebano in età di combattere, gli insegnò l’uso delle armi ed egli stesso assunse il comando dell’esercito. Un oracolo gli promise la vittoria se la persona che avesse i più nobili natali in Tebe si fosse tolta la vita. Tutti gli sguardi si appuntarono allora su Antipeno, un discendente degli Sparti, ma visto che egli indugiava a morire per il bene comune, le sue figlie Androclea e Aloide si sacrificarono in vece sua, e furono in seguito onorate come eroine nel tempio di Artemide. I Mini frattanto si preparavano a marciare su Tebe, ma Eracle tese loro un’imboscata in uno stretto valico, uccise Ergino e la maggior parte dei capitani. Questa vittoria, ottenuta con un pugno d’uomini, fu subito sfruttata da Eracle che calò su Orcomeno, ne abbatté le porte, saccheggiò il palazzo reale e obbligò i Mini a pagare a Tebe un doppio tributo. Inoltre ostruì i due canali, costruiti dagli antichi Mini per irrigare i loro ricchi campi di grano con le acque del Cefiso. Scopo principale di questo attacco fu immobilizzare la cavalleria dei Mini, loro arma più temibile, e di condurre la guerra sulle colline, dove Eracle poteva battersi con eguale vantaggio; ma poiché egli era sinceramente amico di tutto il genere umano, in seguito sgombrò di nuovo quei canali. Il tempio di Eracle Legatore di cavalli a Tebe ricorda un episodio di quella campagna: Eracle si introdusse di notte nel campo nemico e, dopo aver rubato i cavalli che legò a degli alberi in una località molto lontana, passò i guerrieri addormentati a fil di spada. Sventuratamente Anfitrione, suo padre putativo, fu ucciso nella battaglia. Al suo ritorno a Tebe, Eracle dedicò un altare a Zeus Protettore, un leone di pietra ad Artemide e due altri simulacri pure di pietra ad Atena Armata. Dato che gli dei non avevano punito Eracle per il trattamento inflitto ai messaggeri di Ergine, i Tebani si permisero di onorarlo con una statua, detta di Eracle che mozza i nasi. Secondo un’altra versione, Ergine sopravvisse alla sconfitta dei Mini e fu uno degli Argonauti che riportarono il Vello d’Oro dalla Colchide. Per molti anni egli si adoperò a ricostituire la perduta fortuna, e alla fine si ritrovò di nuovo ricchissimo, ma vecchio e senza prole. Un oracolo gli consigliò di mettere un nuovo coltellaccio sul logoro coltro dell’aratro, e allora Ergine sposò una giovane moglie, che gli generò Trofoni e Agamede, i famosi architetti, e anche Azeo.
La vittoria sui Mini fece di Eracle l’eroe più famoso di tutta la Grecia e come ricompensa re Creonte gli diede in sposa sua figlia Megara o Megera e lo nominò protettore della città, mentre Ificle sposò la figlia più giovane. Alcuni dicono che Eracle ebbe due figli da Megara; altri, che ne ebbe tre, quattro e persino otto. Essi sono chiamati gli Alcaldi. Eracle in seguito sconfisse Pirecmo, re degli Eubei, che aveva marciato su Tebe a fianco dei Mini; e sparse il terrore in Grecia ordinando che il suo corpo fosse legato a due cavalli che galoppavano in opposte direzioni e, così dilaniato, fosse poi esposto senza sepoltura sulle rive del Eracleo, in un punto detto dei Puledri di Pirecmo, ancora si sente l’eco di un nitrito quando vi si portai cavalli all’abbeverata. Era, seccata dai successi di Eracle, lo fece impazzire. Dapprima egli assalì il suo carissimo nipote Iolao, il figlio maggiore di Ificle, che riuscì a sfuggire ai suoi attacchi; poi, scambiando sei dei propri figli per dei nemici, li passò a fil di spada e ne gettò i corpi su un rogo, con i cadaveri di altri due figli di Ificle: tutti assieme, i ragazzi stavano facendo esercizi militari. I Tebani celebrano ogni anno una festa in onore di queste otto vittime. Il primo giorno si offrono sacrifici e i fuochi ardono per tutta la notte; il secondo si svolgono i giochi funebri e il vincitore è incoronato con bianco mirto. I celebranti piangono al ricordo del brillante destino che attendeva i figli di Eracle. Uno di essi avrebbe governato su Argo, occupando il trono di Euristeo, ed Eracle avrebbe gettato la pelle del leone sopra le sue spalle; un altro sarebbe divenuto re di Tebe, e nella sua destra Eracle avrebbe posto la mazza della difesa, equivoco dono di Dedalo; a un terzo era stata promessa Ecalia, che in seguito Eracle rase al suolo; le spose più degne erano state scelte per ciascuno di loro e garantivano alleanze con Atene, Tebe e Sparta. Così grande affetto Eracle nutriva per questi suoi figli, che taluni ora negano che egli li abbia uccisi e preferiscono supporre che i giovani fossero assassinati a tradimento da qualcuno degli ospiti di Eracle: da Lieo, forse; o, come pensa Socrate, da Augi.
Quando Eracle ricuperò la ragione, si chiuse in una camera buia per alcuni giorni, evitando il contatto con i suoi simili; poi, purificato da re Tespio, si recò a Delfi per chiedere che cosa dovesse fare. La Pizia si rivolse a lui chiamandolo per la prima volta Eracle e non Palemone e gli consigliò di fissare la sua residenza a Tirinto, di servire Euristeo per dodici anni e di compiere tutte le Fatiche che Euristeo stesso ritenesse opportuno di imporgli. Come compenso gli sarebbe stata concessa l’immortalità. A tale annuncio Eracle cadde in una cupa disperazione, poiché gli ripugnava di servire un uomo che sapeva essergli di molto inferiore; tuttavia non osava opporsi al volere di Zeus. Molti amici lo confortarono in quella circostanza; e infine, quando il passar del tempo ebbe in qualche modo alleviato il suo dolore, egli si mise a disposizione di Euristeo. Altri tuttavia ritengono che soltanto al suo ritorno dal Tartaro Eracle impazzì e uccise i suoi figli; secondo costoro egli uccise anche Megara e la Pitonessa gli disse: «Tu non sarai più chiamato Palemone! Apollo ti da il nome di Eracle, poiché Era ti concede fama imperitura tra i mortali!» Come se egli avesse reso alla dea un grande servigio. Altri ancora dicono che Eracle fu l’amante di Euristeo e che compì le dodici Fatiche per fargli piacere; e altri, infine, che egli accettò di addossarsi tali fatiche purché Euristeo annullasse la sentenza di esilio pronunciata contro Anfitrione. Fu detto che, quando Eracle iniziò le sue Fatiche Ermete gli donò una spada. Apollo un arco con frecce ben levigate e adorne di piume d’aquila, Efesto una corazza d’oro e Atena un mantello. Oppure che Atena gli donò la corazza ed Efesto bronzei schinieri e un elmo adamantino. Atena ed Efesto, a quanto pare, gareggiarono nel beneficare Eracle: l’una gli concesse di apprezzare le gioie domestiche, l’altro gli assicurò protezione nei pericoli della guerra. Una coppia di cavalli fu il dono di Poseidone; quello di Zeus un magnifico e infrangibile scudo. Molte leggende nacquero attorno a questo scudo che era di smalto, avorio, elettro, oro e lapislazzuli. Inoltre, le teste di dodici serpenti incise tutt’attorno alla fascia dello scudo facevano scattare le fauci ogni qualvolta Eracle iniziava una battaglia, terrificando i suoi avversari. Eracle, in verità, disprezzava le armature e, dopo la sua prima Fatica, non portava con sé nemmeno la lancia: si affidava alla clava, all’arco e alle frecce. Raramente si servì della clava dalla bronzea punta che gli aveva donato Efesto, preferendole quelle che egli stesso aveva ricavate da un tronco di oleastro: la prima sull’Elicona, nei pressi di Nemea, la seconda sulle spiagge del mare Saronico. Quest’ultima fu la clava che, nel corso della sua visita a Trezene, egli lasciò ai piedi del simulacro di Ermete. Il legno attecchì, germogliò, ed è ora un albero maestoso. Iolao, nipote di Eracle, partecipò alle sue Fatiche come auriga o come reggitore di scudo.
ll mito di Eracle, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
Il racconto del mito di Eracle è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 15: Eracle – L’eroe più popolare
Prolegomena – Elettrione, figlio di Perseo, gran re di Micene e marito di Anasso, marciò assetato di vendetta contro i Tafi e i Telebani. Essi si erano riuniti per razziare il bestiame di Elettrione, seguendo il consiglio di un certo Pterelao, pretendente al trono di Micene; e nello scontro che seguì perirono gli otto figli di Elettrione. Durante la sua assenza, suo nipote, Anfitrione, re di Trezene, assunse la carica di reggente. «Governa con saggezza e, quando tornerò vittorioso, potrai sposare mia figlia Alcmena», disse Elettrione salutandolo. Anfitrione, informato dal re dell’Elide che la mandria rubata era in suo possesso, pagò il forte riscatto richiesto e poi mandò a chiamare Elettrione perché identificasse il bestiame. Elettrione, per nulla soddisfatto all’idea di dover rifondere ad Anfitrione la somma del riscatto, gli chiese bruscamente quale diritto avessero gli Elei di vendere la roba rubata, e perché mai Anfitrione aveva ammesso tale frode. Senza degnarsi di rispondere, Anfitrione diede sfogo alla propria ira scagliando un bastone contro una delle vacche che si erano scostate dalla mandria; il bastone le batté contro le corna, rimbalzò e uccise Elettrione. Anfitrione allora fu bandito dall’Argolide da suo zio Stenelo, che si impadronì di Micene e di Tirinto e affidò il resto del regno, con Midea come capitale, ad Atreo e a Tieste, figli di Pelope.
Anfitrione accompagnato da Alcmena fuggì a Tebe, dove re Creonte lo purificò e diede in sposa sua sorella Perimeda all’unico figlio superstite di Elettrione, Licinnio, un bastardo nato da una donna frigia chiamata Midea. Ma la pia Alcrnena non volle giacersi con Anfitrione finché egli non avesse vendicato la morte degli otto fratelli di lei. Creonte gli concesse di reclutare un esercito di Beoti, a patto che egli liberasse i Tebani dalla volpe Teumessia; e Anfitrione vi riuscì, chiedendo a prestito il famoso cane Leiape a Cefalo l’Ateniese. Poi, aiutato da contingenti ateniesi, focesi, argivi e locresi, Anfitrione sopraffece i Telebani e i Tafì e consegnò le loro isole ai suoi alleati, tra i quali era anche lo zio di Anfitrione, Eleo.
Frattanto, approfittando dell’assenza di Anfitrione, Zeus ne assunse l’aspetto e si presentò ad Alcmena, le assicurò che i suoi fratelli erano ormai vendicati (infatti Anfitrione aveva ottenuto la sospirata vittoria quel mattino stesso) e giacque con lei per una notte che egli fece durare quanto tre. Ermete, per ordine di Zeus, aveva indotto Elio a spegnere i fuochi solari e a trascorrere il dì seguente a casa, mentre le Ore staccavano i cavalli dal suo carro; la procreazione di un grande eroe quale Zeus aveva in mente non era infatti cosa che si potesse sbrigare in fretta. Elio obbedì, rimpiangendo tuttavia i vecchi tempi, quando il giorno era il giorno e la notte la notte e quando Crono, allora dio onnipotente, non abbandonava la moglie fedele per andarsene a Tebe in cerca di avventure. Ermete poi ordinò alla Luna di rallentare il suo corso, e al Sonno di intorpidire le menti degli uomini affinché non si accorgessero di quanto stava accadendo. Alcmena, tratta in inganno, ascoltò con gioia quanto Zeus le raccontava sulla clamorosa sconfitta inflitta a Pterelao a Ecalia, e godette innocentemente delle gioie coniugali col suo supposto marito per trentasei ore intere. Il giorno seguente, quando Anfitrione ritornò, esaltato dalla vittoria e dalla passione per Alcmena, non fu accolto nel letto coniugale col trasporto che si aspettava. «Non abbiamo dormito affatto la scorsa notte», si lagnò Alcmena, «e spero che tu non voglia raccontarmi daccapo la storia delle tue gloriose imprese». Anfitrione, che non riusciva a capire il significato di quella frase consultò il veggente Tiresia e seppe di essere stato cornificato da Zeus; in seguito non osò più giacere con sua moglie, per paura di incorrere nella gelosia divina.
Nascita di Eracle – Nove mesi dopo, sull’Olimpo, Zeus si vantò di aver procreato un figlio, ora sul punto di nascere, che sarebbe stato chiamato Eracle, e cioè «gloria di Era» e avrebbe governato sulla nobile casa di Perseo. Era allora gli fece promettere che il primo principe della casa di Perseo nato anzi il calar del sole sarebbe stato gran re. Quando Zeus ebbe pronunciato un solenne giuramento a questo proposito. Era si recò subito a Micene, dove affrettò le doglie di Nicippe, moglie di re Stenelo. Poi si precipitò a Tebe e sedette a gambe incrociate dinanzi alla porta di Alcmena, con i lembi della veste annodati e le dita congiunte; in tal modo riuscì a ritardare la nascita di Eracle, finché fu certa che Euristeo figlio di Stenelo, un bimbo nato settimino, fosse già nella culla. Quando Eracle venne alla luce, un’ora troppo tardi, si scoprì che aveva un gemello, che fu chiamato Ificle, figlio di Anfitrione e più giovane di lui di una notte. Ma altri dicono che Eracle, e non Ificle, era più giovane di una notte; e altri ancora, che i due gemelli furono generati la medesima notte e nacquero assieme e il padre loro Zeus illuminò di luce divina la stanza del parto. Dapprima Eracle fu chiamato Alceo o Palemone. Quando Era risalì all’Olimpo e soddisfatta si vantò di essere riuscita a tenere lontana Ilizia, dea del parto, dalla soglia di Alcmena, Zeus fu colto da una collera violentissima; afferrata sua figlia maggiore Ate, che l’aveva reso cieco all’inganno di Era, giurò solennemente che non avrebbe mai più rivisto l’Olimpo; poi la fece roteare sopra la propria testa stringendone fra le dita la bionda chioma e la scaraventò sulla terra. Benché Zeus non potesse rimangiarsi il giuramento e permettere a Eracle di governare sulla casa di Perseo, persuase tuttavia Era ad acconsentire che, dopo aver compiuto dodici fatiche impostegli da Euristeo a suo piacimento, il giovane sarebbe divenuto un dio.
Ora, contrariamente a quanto era accaduto per i suoi precedenti amori mortali, da Niobe in poi, Zeus non scelse Alcmena soltanto per il suo piacere, benché essa superasse tutte le contemporanee per bellezza, dignità e saggezza, ma con il proposito di generare un figlio tanto forte da impedire lo sterminio degli uomini e degli dei. Alcmena, la sedicesima discendente della stessa Niobe, fu l’ultima donna mortale con la quale Zeus si giacque, poiché in nessun’altra egli sperava di generare un eroe che eguagliasse Eracle; e tenne Alcrnena in così gran conto che, invece di violentarla bruscamente, si prese la briga di assumere le sembianze di Anfitrione e di sedurla con parole affettuose e carezze. Egli sapeva che Alcmena era incorruttibile e quando, all’alba, le offrì una coppa carchesia, essa l’accettò con naturalezza, come parte del bottino di guerra: un dono che Telebo aveva avuto da suo padre Posidone.
Altri dicono che Era non scese dall’Olimpo per ritardare il parto di Alcmena, ma affidò quel compito alle streghe, e che Istoride, figlia di Tiresia, le ingannò lanciando un grido di gioia nella camera del parto, che ancor oggi si può visitare a Tebe. Le streghe allora se ne andarono e permisero al bimbo di nascere. Secondo altri, fu Ilizia che ostacolò il travaglio per ordine di Era; la fedele serva di Alcmena, la bionda Galantide, o Galena, lasciò la camera del parto per annunciare, mentendo, che Alcmena si era sgravata. Quando Ilizia balzò in piedi stupita, allargando le dita e raddrizzando le ginocchia. Eracle nacque e Galantide rise per la buona riuscita del suo inganno; Ilizia, infuriata, l’afferrò per i capelli e la tramutò in donnola. Galantide continuò a frequentare la casa di Alcmena, ma Era la punì per aver mentito: fu condannata per sempre a partorire dalla bocca. Quando i Tebani tributano a Eracle onori divini, offrono sacrifici preliminari a Galantide, chiamata anche Galintiade e descritta come la figlia di Preto; dicono che essa fu la nutrice di Eracle e che Eracle stesso le eresse un santuario. Gli Ateniesi ridono di questa leggenda tebana e sostengono che Galantide era una prostituta, tramutata in donnola da Era per aver indulto a pratiche lussuriose contro natura; per caso capitò dinanzi alla casa di Alcmena in travaglio e la spaventò tanto da accelerare il parto di Eracle. L’anniversario della nascita di Eracle è festeggiato il quarto giorno di ogni mese; ma taluni sostengono che egli nacque quando il Sole entrò nella decima costellazione; e altri che la Grande Orsa, inclinandosi a mezzanotte verso Orione, cosa che accade quando il Sole esce dalla dodicesima costellazione, abbassò lo sguardo su Eracle che aveva allora dieci mesi.
Eracle diviene immortale – Alcmena, che temeva la gelosia di Era, abbandonò il suo bimbo neonato in un campo, fuori delle mura di Tebe; e colà, per istigazione di Zeus, Atena condusse Era a passeggiare. «Guarda, mia cara, che bimbo eccezionalmente robusto!» disse Atena simulando sorpresa mentre si chinava per prendere Eracle tra le braccia. «Sua madre deve aver perduto il senno per abbandonarlo così in questo campo sassoso! Suvvia, tu hai del latte, danne a questa povera creatura!» Sconsideratamente, Era prese il bambino e si denudò il petto, ed Eracle vi si attaccò con tanta forza che la dea gemendo per il dolore lo allontanò da sé; un getto di latte volò verso il cielo e divenne la Via Lattea. «Quale mostro è mai questo bambino!» gridò Era. Ma ormai Eracle era immortale e Atena sorridendo lo restituì ad Alcmena, raccomandandole di averne cura e di farlo crescere bene. I Tebani ancor oggi mostrano il luogo dove Era fu così ingannata; il campo è chiamato «Pianura di Eracle». Taluni tuttavia dicono che Ermete portò Eracle neonato sull’Olimpo; che Zeus stesso lo posò sul petto di Era mentre la dea dormiva; e che la Via Lattea si formò quando Era, destatasi, lo allontanò da sé, oppure quando Eracle, avendo succhiato più latte di quanto la sua bocca ne potesse contenere, lo rigurgitò. In ogni caso, Era fu la madre adottiva di Eracle, seppure per breve tempo, e i Tebani perciò lo considerano addirittura suo figlio e dicono che egli si chiamava Alceo prima che la dea lo allattasse, e gli fu poi mutato il nome in onore di lei.
I serpenti e la culla – Una sera, quando Eracle aveva otto o dieci mesi o, come altri sostengono, un anno, e non era ancora svezzato, Alcmena, dopo aver lavato e allattato i gemelli, li coricò sotto una coperta di vello di agnello in una culla di bronzo che Anfitrione aveva riportato come bottino dalla sua vittoria su Pterelao. A mezzanotte Era mandò due prodigiosi serpenti dalle scaglie azzurrine nella casa di Anfitrione, col severo ordine di uccidere Eracle. Le porte si aprirono dinanzi a loro ed essi scivolarono sui marmorei pavimenti sino alla camera dei bambini; fiamme schizzavano dai loro occhi e veleno gocciolava dalle loro fauci. I gemelli si destarono e videro i serpenti inarcarsi dinanzi a loro, dardeggiando le lingue biforcute: poiché Zeus di nuovo illuminò la camera di luce divina. Ificle strillò, gettò via le coperte scalciando e nel tentativo di fuggire cadde dalla culla. Le sue grida atterrite, la strana luce che brillava nella camera dei bambini, destarono Alcmena. «Alzati, Anfitrione!» essa gridò. Senza nemmeno indugiare per infilarsi i sandali. Anfitrione balzò dal letto di legno di cedro, afferrò la spada che stava appesa alla parete e la sfilò dal lucido fodero. In quel momento la luce nella camera dei bambini si spense. Gridando agli schiavi addormentati di portare delle torce, Anfitrione varcò la soglia: ed Eracle, che non aveva lanciato nemmeno un gemito, tutto
fiero gli mostrò i serpenti che egli stava strangolando, uno per mano. Appena furono morti, Eracle rise, fece balzi di gioia e gettò i rettili ai piedi di Anfitrione. Mentre Alcmena confortava l’atterrito Ificle, Anfitrione fece coricare Eracle, gli rimboccò le coperte e tornò a letto. All’alba, quando il gallo ebbe cantato tre volte, Alcmena fece venire il vecchio Tiresia e gli parlò del prodigio. Tiresia, dopo aver previsto future glorie per Eracle, consigliò ad Alcmena di innalzare un rogo con legna secca di erica, pruno selvatico e rovo, e di bruciarvi sopra a mezzanotte i serpenti. Il mattino seguente un’ancella doveva raccogliere le loro ceneri, portarle sulla roccia dove un tempo stava accoccolata la Sfinge e spargerle ai quattro venti, per poi fuggire senza voltarsi mai. Al suo ritorno bisognava purificare il palazzo con fumi di zolfo e acqua di sorgente salata, e corornarne il tetto con rami di ulivo selvatico. Infine, dovevasi sacrificare un cinghiale sul sommo altare di Zeus. E Alcmena fece tutto ciò. Ma altri dicono che i serpenti erano innocui, e posti nella culla da Anfitrione stesso che voleva sapere quale dei due gemelli fosse suo figlio, e lo seppe.
Giovinezza di Eracle – Quando Eracle non fu più un bambino. Anfitrione gli insegnò a guidare il cocchio e a girare attorno alla meta senza sfiorarla. Castore gli diede lezioni di scherma, lo istruì nell’arte di maneggiare le armi e nella tattica di cavalleria e fanteria. Uno dei figli di Ermete fu il suo maestro di pugilato: o Autolico o Arpalico, così orrendo a vedersi quando combatteva che nessuno osava affrontarlo. Eurito gli insegnò a maneggiare l’arco, o forse lo fu scita Teutaro, uno dei mandriani di Anfitrione, o forse lo stesso Apollo,5 Ma Eracle superò tutti gli arcieri che fossero mai esistiti e persino il suo compagno Alcone, padre di Palerò l’Argonauta, che sapeva trapassare una serie di anelli posti sugli elmi dei soldati in fila o fendere una freccia in bilico sulla punta di una lancia. Un giorno, quando suo figlio fu attaccato da un serpente che lo avvolse nelle proprie spire, Alcone scoccò una freccia con tanta abilità da uccidere il serpente senza nemmeno scalfire il ragazzo. Eumolpo insegnò a Eracle a cantare e a suonare la lira; mentre Lino, figlio del dio del fiume Ismenio, lo introdusse allo studio della letteratura. Un giorno, durante l’assenza di Eumolpo, Lino volle dare a Eracle lezioni di lira; il ragazzo si rifiutò di seguire princìpi diversi da quelli impartitigli da Eumolpo e, fustigato in punizione della sua caparbietà, uccise Lino con un colpo di lira. Processato per assassinio, Eracle citò la legge di Radamanto che giustificava l’uso della violenza contro un aggressore, e si assicurò così l’assoluzione. Anfitrione, tuttavia, temendo che il ragazzo potesse commettere altri crimini, lo mandò a pascolare le mandrie in un suo possedimento agreste, e colà egli visse fino al suo diciottesimo anno, sopravanzando tutti i coetanei per statura, forza e coraggio. Fu prescelto per reggere l’alloro durante la processione di Apollo Ismenio e i Tebani ancora conservano 11 tripode che Anfitrione consacrò per lui in quella occasione. Non si sa chi insegnò a Eracle l’astronomia e la filosofia, però egli era assai dotto in ambedue gli argomenti.
Aspetto fisico di Eracle – Di solito si attribuisce a Eracle una statura di quattro cubiti. Ma poiché egli misurò col proprio passo lo stadio di Olimpia, fissandone la lunghezza in seicento piedi, e poiché gli stadi greci di epoca più tarda, lunghi teoricamente seicento piedi, risultarono molto più corti di quello di Olimpia, il saggio Pitagora ne dedusse che la lunghezza del passo di Eracle, e di conseguenza la sua statura, stavano al passo e alla statura, degli altri mortali come la lunghezza dello stadio olimpico stava alla lunghezza degli altri stadi. In base a questo calcolo stabilì che Eracle era alto quattro cubiti e un piede, ma altri sostengono che egli non superava la statura normale. Gli occhi di Eracle lampeggiavano come fuoco ed egli aveva una mira infallibile, sia col giavellotto sia con l’arco. Mangiava parcamente a mezzogiorno; per cena il suo cibo favorito era carne arrostita e ciambelle d’orzo cotte alla maniera dorica; e ne divorava tante (seppur la storia è credibile) da indurre uno dei suoi mandriani a borbottare: «Basta!» Indossava una tunica corta e linda, e preferiva trascorrere la notte sotto la volta stellata anziché al coperto.Una profonda conoscenza della scienza augurale lo induceva a salutare con gioia il passaggio di avvoltoi nel cielo, ogni volta che egli dovesse iniziare una nuova Fatica. «Gli avvoltoi», pare dicesse, «sono i più onesti fra gli uccelli: non attaccano mai le creature viventi.» Eracle si vantava di non aver mai iniziato un litigio, ma di aver sempre trattato i suoi aggressori così come essi volevano trattare lui. Un certo Termero usava uccidere i viandanti sfidandoli a battersi con lui a testate; il cranio di Eracle si dimostrò il più solido ed egli spaccò la testa di Termero come se fosse un uovo. Eracle, tuttavia, era cortese per natura, e fu il primo mortale che spontaneamente restituì ai nemici le spoglie dei loro morti perché le seppellissero.
ll mito di Eracle, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
“Dice un proverbio antico, diffuso tra i mortali, che il bilancio di una vita, se sia misera o felice, si può fare soltanto quando è ormai finita.” (Sofocle, Trachinie, vv. 1-3)
Dal risvolto di copertina: “Non legato a una città o a una stirpe, Eracle (divenuto Hercules nel pantheon romano) è in verità l’unico “eroe nazionale” dei Greci, il più popolare, il più raffigurato, il protagonista di miti innumerevoli. Dotato di una forza e di un coraggio eccezionali, va in giro da cittadino del mondo a liberare la terra dai mostri e gli uomini dalla soggezione a essi, a sterminare gli animali che devastano il territorio dell’uomo, a eliminare malfattori, sacrileghi, tracotanti, a ristabilire la giustizia violata. È un benefattore e un civilizzatore (si deve a lui l’istituzione delle Olimpiadi), ma è anche violento, distruttivo, portato all’eccesso e alla dismisura. Conosce anche le cocenti sconfitte, l’ingiusta persecuzione della dea Hera nei suoi confronti, l’abisso del dolore nel momento in cui uccide senza volerlo la moglie e i figli. La compresenza, anche varia e discorde, di tanti aspetti dell’esistenza umana trova il suo sigillo positivo nell’assunzione tra gli dèi dell’Olimpo, un destino a lui riservato, unico fra gli eroi..”
Dall’introduzione di Giulio Guidorizzi: “Eracle incarna alcuni valori fondamentali della società aristocratica più antica: il coraggio intrepido, la forza smisurata, la lealtà verso gli amici, la spietatezza verso i nemici, il rispetto delle leggi dell’onore. C’è un Eracle primitivo, tutto forza e ardimento, guerriero; un Eracle sofferente (raffigurato, tra l’altro, da Euripede), più aperto a valori umani; un Eracle civilizzato, che esprime la prospettiva di una società evoluta.”
Oltre alla narrazione del mito, il volume contiene anche approfondimenti sulla sua fortuna nel corso dei secoli, in tutte le forme artistiche: letteratura (con una ricca antologia di testi classici sul mito), pittura, teatro, cinema. Inoltre vi è una tavola genealogica, e un ricco apparato bibliografico e sitografico. Il volume su Eracle è curato da Salvatore Nicosia, professore emerito di Lingua e Letteratura greca presso l’università di Palermo. Qui gli ultimi volumi pubblicati.
L’intera collana di trenta volumi è a cura di Giulio Guidorizzi. Guidorizzi è grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e antropologia del mondo antico. Ha scritto numerosi libri sulla mitologia. Noi vi consigliamo, per iniziare, il suo bellissimo Il mito greco (in due volumi, usciti nel 2009 e nel 2012). Qui una lista di suoi volumi sul mito greco.
Care amiche, cari amici, a conclusione dei post su Circe, siamo molto felici di presentarvi il primo volume nella collana ANONIMO DI CHIO della Casa Editrice Ericlea, che parla proprio del figlio che la Maga Circe ha avuto assieme a Odisseo, che tanto spazio ha nella profezia sul futuro del re di Itaca, profezia pronunciata da Tiresia nell’Ade (vedi qui, se non ricordi l’episodio).
Lasciamo la parola al curatore della collana, il Dr. phil. I Andreas Barella, che ci presenta la genesi di questo progetto. Ringraziamo la Casa Editrice per il permesso di pubblicare l’estratto.
DALLA PREFAZIONE AL VOLUME: “Nella primavera di un paio di anni fa partii in vacanza con un amico. Si trattava di un viaggio di svago per ridonare linfa a un’amicizia da troppo tempo negletta. Ma era anche un viaggio di studio, di ricerca di immagini e atmosfere mitologiche. La meta era il Mar Egeo e le sue isole, soprattutto quelle orientali al confine con la Turchia. La scoperta dei quaderni all’origine di questo libretto è avvenuta grazie a un incontro fortuito sull’isola di Chio, la supposta terra natale di Omero. Una anziana signora ci ospitò nella sua casa dopo che eravamo stati colti dalla notte nell’entroterra durante una gita fra i monasteri che punteggiavano le colline. In gioventù la donna era emigrata in Inghilterra e parlava un po’ di inglese. Morto il marito era tornata sulla sua isola, nell’antica casa di famiglia dove ci ospitava con squisita gentilezza e generosità.
Ci mostrammo appassionati di mitologia. Colpita dal nostro amore per Omero ci narrò di un curioso personaggio di cui le parlava la nonna. Un viaggiatore, forse inglese forse prussiano, che sua nonna chiamava in turco Deli Amca, “il vecchio pazzo” e che proprio in quella casa aveva vissuto e dove, dopo lunghi incontri con anziani narratori dell’isola e della terraferma vicina, aveva riempito una serie impressionante di quaderni. Incuriositi le chiedemmo di cosa parlassero. Lei ci rispose che si trattava di storie che il vecchio raccontava la sera a sua nonna e a sua madre bambina, accompagnandole con la lira. Chiedemmo che fine avessero fatto quaderni e strumento e lei allargò le braccia, rispose che non sapeva se esistessero ancora. Da bambina ricordava di averli visti accantonati su vecchi scaffali in una piccola stanza abbandonata.
La mattina dopo andammo a cercarli. La camera del vecchio c’era ancora: nessuna traccia della lira ma il locale era pieno di quaderni di pessima qualità, ingialliti. Alcuni in buono stato, altri rovinati dall’umidità del contatto con i muri, altri si intravvedevano sotto un sottile strato di intonaco, utilizzati chissà quando e da chissà chi per isolare la parete meno esposta al sole, altri ancora erano stipati in due valige di pelle che dovemmo forzare in quanto le cerniere erano talmente arrugginite da impedire l’apertura. Anche se parziale, si trattava pur sempre di una scoperta straordinaria: 108 quaderni di 96 pagine ciascuno (82 in buone condizioni, 16 ricuperabili, 10 in stato pessimo) e il ricordo della nostra squisita ospite di almeno altrettanti fascicoli finiti chissà dove e che stiamo tentando di rintracciare.
Nei tomi scritti in esametri in greco antico, con ampi inserti in greco moderno e in turco, con note marginali in inglese, in tedesco e in francese, vergati con una calligrafia minuta e precisa, centinaia di episodi mitologici collegati uno all’altro da migliaia di rimandi numerici specifici (inseriti a margine nella forma: n° volume, n° pagina) ad altri episodi in una rete infinita di possibilità di narrazione.
Chi era questo Pseudo-Omero, Deli Amca, il vecchio pazzo o, come lo abbiamo chiamato in copertina, questo Anonimo di Chio? Per ora possiamo solo fare supposizioni. La nostra idea è che si trattasse di un erudito appassionato di mitologia che, forse a seguito della scoperta delle rovine di Troia e di Micene da parte di Heinrich Schliemann negli anni 70 del 1800, si fosse trasferito in Grecia e abbia appreso (da chi? dove?) a narrare oralmente le storie in seguito raccolte nei quaderni. Il vecchio si era forse ritirato a Chio per mettere in forma scritta i racconti uditi nel suo peregrinare. Filologi e mitologi stanno, con meraviglia, approfondendo lo studio dei fascicoli. Una versione critica vedrà verosimilmente la luce nei prossimi anni. I manoscritti sono a disposizione, presso la casa editrice, degli esperti interessati.
Non volevamo però attendere così a lungo per presentare queste storie. Quella che pubblichiamo nelle prossime pagine, senza nessuna velleità filologica, è una libera traduzione e arrangiamento di alcuni frammenti di una vicenda appassionante e che ha come protagonista Telegono, il “nato lontano da casa”, il figlio di Odisseo e della maga Circe. Le sue vicende sono pescate un po’ qua e un po’ là nei quaderni, distillate e senza rinvii ad altre storie. Nei manoscritti vi sono circa 200 rimandi che collegano la storia di Telegono a vicende note e meno note del corpus mitologico classico. A volte abbiamo dovuto scegliere una versione a scapito di una o due altre, in alcune occasioni le indichiamo alla fine del capitolo corrispondente; non sempre però, in modo da non appesantire la lettura. Si tratta, appunto, di frammenti. Come di frammenti si parla quando si cita la Telegonia di Eugammone di Cirene, composta nel sesto secolo avanti Cristo: che il nostro cantore abbia utilizzato la narrazione perduta di questa opera? Anche questo è un mistero che attende risposta.
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