Il racconto del mito di Teseo è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 16: Teseo – Lo stato e le donne.
La prima moglie di Egeo fu Melite, figlia di Opiete; e la seconda Calciope, figlia di Ressenore; ma nessuna delle due gli diede dei figli. Attribuendo tale sventura, come pure la triste fine delle sue sorelle Procne e Filomela, alla collera di Afrodite, egli introdusse il culto della dea in Atene e poi si recò a consultare l’oracolo di Delfi. L’oracolo gli disse di non aprire la bocca del suo rigonfio otre di vino finché non avesse raggiunto il punto più alto di Atene, a meno che non volesse un giorno morire di dolore; ed Egeo non seppe interpretare questo responso. Lungo la via del ritorno si fermò a Corinto; là Medea gli fece giurare solennemente che egli l’avrebbe protetta dai suoi nemici semmai essa si fosse rifugiata ad Atene e si incaricò di procurargli un figlio con opera di magia. Egeo si recò poi a Trezene, dove i suoi vecchi compagni Pitteo e Trezene, figli di Pelope, erano giunti recentemente per dividersi il regno con re Ezio. Ezio era succeduto al padre suo Antade, figlio di Poseidone e di Alcione, il quale, dopo aver fondato le città di Antea e Iperea, era salpato per fondare Alicarnasso in Caria. Ma pare che Ezio non avesse grande potere, perché Pitteo, dopo la morte di Trezene, fece di Antea e di Iperea una sola città, che dedicò ad Atena e a Poseidone, chiamandola Trezene. Pitteo fu l’uomo più saggio e colto del suo tempo, e si cita spesso uno dei suoi apoftegmi morali sull’amicizia: «Non deludere la speranza che l’amicizia alimenta, ma appagala pienamente!» Egli fondò un santuario di Apollo Oracolare a Trezene, che è il più antico dei santuari esistenti in Grecia, e consacrò altresì un altare alla triplice dea Temi. Tre troni di marmo, ora posti sulla sua tomba presso il tempio di Artemide Salvatrice, venivano usati da lui e da altri due uomini quando sedevano in giudizio. Pitteo insegnò anche l’arte oratoria nel santuario delle Muse a Trezene (santuario fondato dal figlio di Efesto, Ardalo, supposto inventore del flauto) e si consulta ancora un suo trattato di retorica. Ora, mentre Pitteo viveva a Pisa, Bellerofonte aveva chiesto in sposa la sua figliola Etra, ma, caduto in disgrazia, era dovuto fuggire in Caria prima che si celebrassero le nozze. Benché si considerasse ancora legata dalla promessa fatta a Bellerofonte, Etra aveva ben poca speranza che egli tornasse. Pitteo, che non gradiva la forzata verginità della figlia ed era altresì influenzato dal magico influsso che Medea esercitava su di lui da lontano, fece ubriacare Egeo e lo mandò a letto con Etra. Nel corso della medesima notte, anche Poseidone godette di lei poiché, obbedendo a un sogno provocato da Atena, Etra lasciò Egeo e raggiunse l’isola di Sferia, vicinissima a Trezene, portando libagioni da versare sulla tomba di Sfero, l’auriga di Pelope. Là, con la connivenza di Atena, Poseidone si giacque con lei ed Etra in seguito mutò il nome dell’isola da Sferia in Iera (sacra) e vi eresse il tempio di Atena Apaturia, promulgando la legge che ogni fanciulla di Trezene dovesse d’allora in poi offrire il proprio cinto verginale alla dea prima delle nozze. Poseidone tuttavia concesse generosamente a Egeo la paternità del bimbo che fosse nato da Etra nel corso dei quattro mesi seguenti.
Egeo, quando si destò nel letto di Etra, le disse che se un figlio fosse nato dal loro amplesso non doveva essere esposto ma bensì allevato segretamente a Trezene. Poi ritornò ad Atene per celebrare le Panatenee, dopo aver nascosto la propria spada e i propri sandali sotto un masso noto col nome di Altare di Zeus il Forte, e che sorgeva lungo la strada da Tzezene a Ermione. Se il ragazzo, raggiunta la maturità, avesse avuto la forza di spostare il masso e di ricuperare la spada e i sandali, si sarebbe dovuto mandarlo ad Atene. Frattanto Etra doveva tenere la bocca chiusa, affinché i nipoti di Egeo, i cinquanta figli di Pallade, non congiurassero contro la sua vita. La spada era un pegno avuto da Cecrope. In una località ora chiamata Genetlio, sulla strada che conduce dalla città al porto di Trezene, Etra diede alla luce un figlio. Taluni dicono che essa lo chiamò subito Teseo, perché dei pegni erano stati depositati per lui; altri sostengono che il giovane si meritò in seguito quel nome ad Atene. Egli fu allevato a Trezene, dove il suo tutore Pitteo prudentemente mise in giro la voce che il bimbo era figlio di Poseidone. E un certo Connida, cui gli Ateniesi sacrificano tuttora un ariete il giorno precedente le Feste Tesee, gli fu pedagogo. Ma altri dicono che Teseo crebbe a Maratona. Un giorno Eracle, mentre pranzava a Trezene con Pitteo, si levò di dosso la pelle di leone e la gettò su uno sgabello. I fanciulli del palazzo, che entravano in quel momento, fuggirono tutti strillando, salvo il piccolo Teseo, di sette anni, che strappò un’ascia da un ceppo e si preparò coraggiosamente ad affrontare un vero leone. All’età di sedici anni Teseo si recò a Delfi e consacrò ad Apollo la sua prima ciocca virile. Egli si rasò tuttavia soltanto la parte anteriore del capo, come gli Arabi e i Misi o i valorosi Abanti dell’Eubea, che privano così i nemici di un notevole vantaggio nel combattimento a corpo a corpo. Questo tipo di tonsura, e il sacro recinto dove la cerimonia ebbe luogo, si chiamano ancora tesei. Teseo era ormai un giovanetto forte, intelligente e saggio, ed Etra, guidandolo al luogo dove Egeo aveva nascosto la spada e i sandali, gli narrò la storia della sua nascita. Egli spostò senza alcuna difficoltà il masso, chiamato di poi «Roccia di Teseo», e ricuperò i pegni lasciati da suo padre. Tuttavia, nonostante i consigli di Pitteo e le suppliche della madre, anziché raggiungere Atene per la via del mare, che era più rapida e sicura, volle viaggiare per terra; lo spingeva il desiderio di emulare le imprese del suo cugino germano Eracle, che egli molto ammirava.
ll mito di Teseo, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
“Le cose che leggi, Teseo, te le scrivo da questa spiaggia donde, senza di me, le vele han portato via la tua nave, dove io son stata indegnamente tradita e da un sonno funesto e da te, che al mio sonno ha teso un agguato.” (Arianna scrive a Teseo, tratto da Ovidio, Heroides)
Dal risvolto di copertina: “Il mito di Teseo intreccia avventure e amori, inganno e passione, vita e morte. Nato dall’unione di Egeo, antico re di Atene, ed Etra, l’eroe è cristallizzato per quell’impresa che non gli sarebbe riuscita senza l’aiuto di Arianna – la principessa cretese, figlia di Minosse e sorellastra del Minotauro, innamorata di lui. Grazie a un gomitolo di filo, srotolato dall’ingresso nel labirinto, Teseo – ucciso il Minotauro – poté trovare la via d’uscita. Lasciata Creta, abbandonerà Arianna a Nasso e in seguito sposerà Fedra, altra figlia di Minosse. Fuori dalle simbologie di un labirinto che riporta ai guai dei mortali, dagli intrecci amorosi, dalla competizione con il cugino Eracle, dagli sconti con i Centauri e le Amazzoni, Teseo fu essenzialmente colui che riuscì a unificare politicamente l’Attica sotto la guida della sua città: Atene.”
Dall’introduzione di Giulio Guidorizzi: “Teseo è l’eroe nazionale di Atene, perciò era considerato il lontanissimo antenato della democrazia ateniese. In generale, Teseo incarna bene il modello del gentiluomo ateniese: il cosiddetto kalokagathos “bello e valente”. Generoso, coraggioso, ospitale, pio verso gli dèi, rispettoso del popolo e delle sue leggi. Un eroe politico, quindi, non un personaggio ancora primitivo e affrancato dai vincoli cittadini come Eracle, che vaga fra molte città ma in nessuna si integra veramente.”
Oltre alla narrazione del mito, il volume contiene anche approfondimenti sulla sua fortuna nel corso dei secoli, in tutte le forme artistiche: letteratura (con una ricca antologia di testi classici sul mito), pittura, teatro, cinema. Inoltre vi è una tavola genealogica, e un ricco apparato bibliografico e sitografico. Il volume su Teseo è curato da Caterina Carpinato, professore associato di Lingua e letteratura neogreca presso l’università di Ca’ Foscari di Venezia. Qui gli ultimi volumi pubblicati.
L’intera collana di trenta volumi è a cura di Giulio Guidorizzi. Guidorizzi è grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e antropologia del mondo antico. Ha scritto numerosi libri sulla mitologia. Noi vi consigliamo, per iniziare, il suo bellissimo Il mito greco (in due volumi, usciti nel 2009 e nel 2012). Qui una lista di suoi volumi sul mito greco.
Il racconto del mito di Eracle è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 15: Eracle – L’eroe più popolare
Negli ultimi mesi abbiamo pubblicato numerosi post inerenti il mito di Eracle (19 per la precisione… altro che le 12 fatiche!). Per vostra comodità vi rimettiamo tutti i link qua sotto. Buona lettura!
Dopo aver innalzato altari di marmo e consacrato un bosco al padre suo Zeus a Ceneo, Eracle si preparò a un grande sacrificio di ringraziamento per la conquista di Ecalia. Mandò dunque Lica a Trachine per chiedere a Deianira la bella camicia e il mantello che egli indossava sempre in simili occasioni. Deianira, che viveva tranquillamente a Trachine, si era ormai rassegnata all’idea che Eracle si prendesse delle amanti e quando riconobbe in Iole l’ultima di costoro, provò più pietà che rancore per la fatale bellezza che aveva provocato la distruzione di Ecalia. Le parve tuttavia intollerabile che Eracle pretendesse di farla vivere con Iole sotto lo stesso tetto. Poiché non era più giovane, Deianira decise allora di servirsi del supposto talismano d’amore datole da Nesso per assicurarsi l’affetto del marito. Già gli aveva intessuto una nuova camicia per celebrare i sacrifici e, dissuggellata in segreto l’anfora, bagnò un panno di lana nel miscuglio che conteneva e lo strofinò sulla camicia. Quando Lica giunse a palazzo, Deianira chiuse la camicia in un cofano e glielo consegnò dicendo: «Per nessuna ragione esporrai questa camicia alla luce o al calore finché Eracle non la indosserà per il sacrificio». Lica era già partito a tutta velocità sul suo cocchio quando Deianira, guardando il panno di lana che aveva gettato nel cortile, lo vide ardere come paglia mentre una schiuma rossastra ribolliva tra i ciottoli. Resasi conto che Nesso l’aveva ingannata, mandò un messaggero a spron battuto per avvertire Lica e, maledicendo la sua follia, giurò che se Eracle fosse morto non gli sarebbe sopravvissuta. II messaggero giunse troppo tardi al promontorio Ceneo. Eracle aveva già indossato la camicia e sacrificato dodici tori candidi come il fior fiore del suo bottino: in tutto egli aveva portato presso gli altari una mandria di cento capi. Stava versando vino da una coppa e gettando incenso sulle fiamme allorché si lasciò sfuggire un grido, come se fosse stato morso da un serpente. Il calore aveva fatto sciogliere il veleno contenuto nel sangue di Nesso che si diffuse sulle membra di Eracle corrodendogli la carne. Ben presto il dolore divenne lancinante e insopportabile, e Eracle ululante cominciò a correre travolgendo gli altari. Cercò di strapparsi la camicia di dosso, ma questa aderiva alla sua pelle così tenacemente che lacerandosi mise a nudo le ossa. Il sangue sgorgò sibilando e ribollendo come l’acqua di fonte quando si tempra il metallo arroventato. Eracle si tuffò nel fiume più vicino, ma il veleno bruciò ancora più violento. Da allora le acque di quel fiume sono sempre ribollenti e vengono chiamate Termopili, ossia «passaggio caldo».
Lanciandosi su per la montagna e sradicando gli alberi al suo passaggio. Eracle piombò sull’atterrito Lica che se ne stava rannicchiato nel cavo di una roccia, le mani intrecciate attorno alle ginocchia. Invano Lica cercò di discolparsi: Eracle lo agguantò, lo fece girare tre volte sopra la sua testa e lo scaraventò nel mare Eubeo. Colà Lica si trasformò in una roccia di forma umana, che emerge dalle onde a breve distanza dalla riva; i marinai ancor oggi la chiamano Lica e non osano salirvi sopra, perché credono che possa sentire dolore. Dall’esercito, che stava a guardare da lontano, si alzò un grande grido di corruccio, ma nessuno osò avvicinarsi finché, contorcendosi negli spasimi dell’agonia, Eracle chiamò Ilio e chiese di essere portato via per morire in solitudine. Ilio lo condusse ai piedi del monte Età, nella Trachinia, regione famosa per il suo bianco elleboro, poiché l’oracolo delfico l’aveva già indicato a Licinnio e a lolao come il luogo destinato ad accogliere la morte del loro comune amico. Atterrita dalla notizia, Deianira si impiccò o, altri dicono, si trafisse con una spada sul letto nuziale. Il pensiero dominante di Eracle, prima di morire, fu di punire Deianira, ma quando Ilio gli assicurò che era innocente, come il suo suicidio dimostrava, sospirò perdonandole ed espresse il desiderio che Alcrnena e tutti i suoi figli si riunissero attorno a lui per ascoltare le sue ultime parole. Ma Alcrnena si trovava a Tirinto con alcuni dei suoi figli mentre molti altri si erano stabiliti a Tebe. Così Eracle potè rivelare soltanto a Ilio la profezia di Zeus, ormai avveratasi: «Nessun uomo vivente ucciderà mai Eracle; ma un nemico morto segnerà la sua fine». Ilio allora chiese istruzioni e gli fu detto: «Giura sulla testa di Zeus che mi trasporterai sul più alto picco di questa montagna e lassù mi brucerai, senza lamentazioni, su una pira di legno di quercia e di tronchi di oleastro. Parimenti giura di sposare Iole non appena avrai raggiunto la maggiore età». Benché scandalizzato da tali richieste. Ilio promise di rispettarle. Quando tutto fu preparato, Iolao e i suoi compagni si ritirarono a breve che vi fosse appiccato il fuoco. Ma nessuno osò obbedire, finché un pastore eolio che passava di lì per caso, un certo Peante, ordinò a Filottete, il figlio che distanza, mentre Eracle saliva sul rogo funebre e dava ordine aveva avuto da Demonassa, di fare ciò che Eracle gli chiedeva. In segno di gratitudine Eracle lasciò la sua faretra, il suo arco e le sue frecce a Filottete e, quando le fiamme cominciarono a lambire la pira, stese la pelle di leone sulle fascine e vi si sdraiò sopra, il capo appoggiato alla clava: pareva sereno come un ospite inghirlandato seduto a banchetto. Folgori allora caddero dal cielo e ridussero la pira in cenere.
Sull’Olimpo, Zeus si rallegrò per il nobile comportamento del suo figlio favorito. «La parte immortale di Eracle», annunciò, «è al riparo dalla morte, e ben presto sarà accolta in questo luogo benedetto. Ma se qualcuno si risentirà per la sua divinizzazione così ampiamente meritata, costui, sia dio o sia dea, dovrà pure approvarla, volente o nolente.» Tutti gli Olimpi assentirono, ed Era decise di ingoiare quell’insulto, chiaramente diretto contro di lei, perché già aveva deciso di punire Filottete per il suo atto cortese nei riguardi di Eracle, con il morso di una vipera lemnia. Le folgori avevano incenerito la parte mortale di Eracle. Alcrnena non avrebbe più potuto riconoscerne i miseri resti, ma a guisa di un serpente sgusciato fuori dalla vecchia pelle egli apparve al padre divino in tutta la sua maestà. Avvolto in una nube che lo celava agli occhi dei suoi compagni, fra un sordo rombar di tuoni, Zeus lo trasportò in cielo sul suo cocchio tirato da quattro cavalli; lassù Atena, guidandolo per la mano, lo presentò alle altre divinità. Ora Zeus aveva stabilito che Eracle entrasse a far parte dei dodici Olimpi, e tuttavia gli spiaceva di espellere uno degli dei già esistenti per fargli posto. Convinse dunque Era ad adottare Eracle con la cerimonia della rinascita: e cioè, coricatasi, la dea avrebbe finto di essere colta dalle doglie, per poi presentare agli dei Eracle sotto le sue sottane; tale è il rito di adozione ancora in uso presso le tribù barbare, Da quel giorno Era considerò Eracle come suo figlio e lo amò quasi quanto Zeus. Tutti gli dei allora lo accolsero con gioia ed Era gli diede in isposa la sua bella Ebe; da Ebe Eracle ebbe due figli, Alessiare e Aniceto. Eracle in verità si era meritata la sincera gratitudine di Era durante la ribellione dei Giganti uccidendo Pronomo, che aveva cercato di usarle violenza. Eracle divenne così il portiere del cielo, e mai si stanca di montare la guardia presso i cancelli dell’Olimpo, fino al tramonto, in attesa del ritorno di Artemide dalla caccia. La accoglie sorridendo e scarica dal suo cocchio gli animali uccisi, corrugando la fronte e agitando il dito in segno di disapprovazione se vi trova soltanto innocue capre selvatiche o cerbiatti. «Scocca le tue frecce contro i cinghiali», dice allora, «che danneggiano i campi e sradicano gli alberi da frutto; o contro i tori uccisori di uomini o contro i leoni o contro i lupi. Ma che male fanno le capre e i cerbiatti?» Poi ne squarta le carcasse, e voracemente le spolpa dei pezzi migliori.9 Tuttavia, mentre l’Eracle immortale banchetta alla tavola degli dei, la sua ombra mortale vaga nel Tartaro, fra i pallidi morti, con l’arco teso e la freccia incoccata alla corda. Passando sopra la spalla, una cinghia gli attraversa il petto, decorata con terrificanti scene di caccia al leone, all’orso e al cinghiale, e scene di battaglie e massacri.
Quando Iolao e i suoi compagni ritornarono a Trachine, Menezio, il figlio di Attore, sacrificò un ariete, un toro e un cinghiale a Eracle, e istituì il suo culto eroico nella locrese Opunte; i Tebani ben presto lo imitarono; ma gli Ateniesi, guidati dalla gente di Maratona, furono i primi a onorario come dio, e tutti ora seguono il loro glorioso esempio.11 Festo, figlio di Eracle, notò che i Sicioni offrivano a suo padre sacrifici eroici, ma insistette a sacrificare a lui come a un dio. Fino a oggi, tuttavia, la gente di Sicione, dopo aver ucciso un agnello e bruciate le sue cosce sull’altare di Eracle il dio, dedica parte della sua carne a Eracle l’eroe. A Età, egli è onorato col nome di Cornopione perché mise in fuga le cavallette che stavano per abbattersi sulla città; gli Ioni di Eritre invece lo onorano come Eracle Ipoctono, perché distrusse gli ipes, i vermi che attaccano i vigneti in quasi tutte le altre regioni. Si dice che un simulacro tirio di Eracle, ora nel suo tempio di Eritre, lo rappresenti come Eracle il Dattilo. Questo simulacro fu trovato su una zattera che galleggiava nel mare Ionio, al largo di capo Mesate, esattamente a metà strada tra il porto di Eritre e l’isola di Chio. Gli abitanti di Eritre da un lato e quelli di Chio dall’altro logorarono le loro forze per trascinare la zattera ciascuno verso la propria spiaggia, ma invano. Infine un pescatore di Eritre chiamato Formione, e che aveva perduto la vista, sognò che le donne di Eritre dovevano intessere una corda con i loro capelli e con tale corda gli uomini avrebbero potuto tirare la zattera in secco. Le donne della tribù tracia che si era stabilita a Eritre acconsentirono a sacrificare le loro trecce e la zattera raggiunse il lido; soltanto i discendenti di quelle donne possono ora entrare nel santuario dove si conserva la corda. Formione ricuperò la vista ne più la perdette finché visse.
ll mito di Eracle, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
Sempre seguito dai suoi alleati arcadi. Eracle giunse a Trachine, dove si stabilì per qualche tempo, sotto la protezione di Ceice. Strada facendo era passato per il paese dei Driopi, ai piedi del monte Parnaso, e colà trovò re Teodamante, figlio di Driope, intento ad arare i campi con un aratro tirato dai buoi. Poiché era affamato, e inoltre in cerca di un pretesto per fare guerra ai Driopi che, come ognuno sa, non avevano alcun diritto di occupare, quella regione. Eracle chiese che gli fosse consegnato uno dei buoi; e uccise Teodamante che glielo rifiutò. Dopo avere scannato il bue e banchettato con la sua carne. Eracle rapì il figlioletto di Teodamante, Ila, di cui era madre la Ninfa Menodice, figlia di Orione. Altri invece dicono che il padre di Ila fu Ceice o Eufemo o Teomene; e affermano che Teodamante era il contadino rodio che maledì da lontano Eracle quando questi sacrificò uno dei suoi buoi. Pare che Filante, successore di Teodamante, violasse il tempio di Apollo a Delfi. Per vendicare quell’oltraggio in nome di Apollo, Eracle uccise Filante e rapì sua figlia Meda; Meda generò a Eracle un figlio, Antioco, fondatore del demo ateniese che porta il suo nome. Eracle scacciò poi i Driopi dalla loro città sulle pendici del Parnaso e vi installò i Maliesi che lo avevano aiutato a conquistarla. Portò a Delfi i capi driopi perché servissero come schiavi nel tempio; ma poiché Apollo non sapeva che farsene, furono mandati nel Peloponneso, dove riuscirono ad ingraziarsi il favore di Euristeo, il gran re. Per suo ordine, e con l’aiuto di altri compatrioti, costruirono tre città: Asine, Ermione e Eone. Degli altri Driopi superstiti, alcuni fuggirono in Eubea, altri a Cipro e nell’isola di Cinto. Ma soltanto gli abitanti di Asine ancora si vantano d’essere Driopi; hanno innalzato un tempio al loro avo Driope dove si ammira un antico simulacro, e ogni due anni celebrano misteri in suo onore.
Driope nacque da Apollo e da Dia, una figlia di re Licaone; Dia appunto, temendo l’ira del padre, nascose il bimbo nel cavo di una quercia, e di qui il suo nome. Altri dicono che Driope stesso guidò la sua gente dal tessalico fiume Spercheo fino ad Asine, e che egli era figlio di Spercheo e della Ninfa Polidora. Sorse una contesa a proposito dei confini, tra i Dori di Estieotide, governati da re Egimio, e i Lapiti del monte Olimpo, un tempo alleati dei Driopi, il cui re era Corono, figlio di Caneo. I Dori, sopraffatti dai Lapiti che erano molto più numerosi, ricorsero a Eracle per invocarne l’aiuto, offrendogli in cambio un terzo del loro regno; Eracle allora, con i suoi alleati arcadi, sconfisse i Lapiti, uccise Corono e molti dei suoi sudditi e costrinse i vinti ad abbandonare il territorio conteso. Alcuni di loro si stabilirono a Corinto. Egimio allora continuò ad amministrare un terzo del regno per conto dei discendenti di Eracle. Eracle poi si recò a Itono, una città della Ftiotide, dove sorge un antico tempio di Atena. Colà si imbattè in Cicno, figlio di Ares e di Pelopia, che usava offrire premi di grande valore agli ospiti i quali volessero misurarsi con lui in una gara di corsa con i cocchi. Cicno, che vinceva sempre, tagliava le teste agli avversari e ne usava i crani per decorare il tempio del padre suo Ares. Questo Cicno, badate, non era però colui che Ares generò in Pirene e che quando morì fu trasformato in cigno. Apollo, irritato con Cicno perché razziava le mandrie dirette al santuario di Delfi, incitò Eracle ad accettare la sua sfida. Fu convenuto che l’auriga di Eracle fosse Iolao, e l’auriga di Cicno il padre suo Ares. Eracle, benché ciò fosse contrario alle sue abitudini, indossò per l’occasione i lucidi schinieri di bronzo che Efesto aveva fabbricati per lui e la corazza aurea donatagli da Atena. Armato con arco, frecce, lancia, il capo coperto dall’elmo e al braccio lo splendido scudo donategli da Zeus, pure opera di Efesto, agilmente montò sul suo cocchio.
Atena, discesa dall’Olimpo, avvertì Eracle che, pur avendo ottenuto da Giove la facoltà di uccidere e spogliare Cicno, non doveva far altro che difendersi da Ares e, anche se vittorioso, non poteva privarlo dei suoi cavalli e della sua splendida armatura. Poi la dea salì sul cocchio accanto a Eracle e a lolao, scrollò l’egida, e la Madre Terra gemette mentre il cocchio scattava in avanti. Cicno si lanciò verso gli avversar! a tutta velocità, e per la violenza dell’urto tra i due cocchi cadde a terra con Eracle, lancia contro scudo. Subito balzarono in piedi tutti e due e, dopo breve lotta, Eracle trapassò il collo di Cicno. Poi affrontò coraggiosamente Ares che gli scagliò contro la lancia; ma Alena, corrugando sdegnata la fronte, la fece deviare. Ares allora si precipitò su Eracle con una spada in mano, ma riuscì soltanto a buscarsi una ferita alla coscia ed Eracle gli avrebbe inferto un altro colpo mentre il dio giaceva al suolo, se Zeus non avesse separato i due contendenti con una folgore. Eracle e lolao allora spogliarono Cicno della sua armatura e ripresero il viaggio interrotto, mentre Atena trasportava sull’Olimpo Ares svenuto. Cicno fu sepolto da Ceice nella valle dell’Anauro ma, per ordine di Apollo, le acque del fiume in piena spazzarono via la sua pietra tombale. Alcuni, tuttavia, dicono che Cicno visse ad Anfane e che Eracle lo uccise con una freccia presso il fiume Peneo, oppure a Pagase. Passando dalla Pelasgiotide, Eracle giunse a Ormenio, una piccola città ai piedi del monte Pelio, dove re Amintore rifiutò di concedergli sua figlia Astidamia. «Sei già sposato», gli disse, «ed hai già tradito troppe principesse per meritare che io tè ne conceda un’altra.» Eracle attaccò la città e, dopo aver ucciso Amintore, rapì Astidamia dalla quale ebbe un figlio, Ctesippo o, altri dicono, Tiepolemo.
A Trachine Eracle raccolse un esercito di Arcadi, Meli e Locresi Epicnemidi e marciò contro Ecalia per vendicarsi di re Eurito che aveva rifiutato di concedergli la principessa Iole, da lui lealmente vinta in una gara con l’arco. Tuttavia, ai suoi alleati egli disse soltanto che Eurito esigeva ingiustamente un tributo dagli Eubei. Piombò dunque sulla città, trafisse con le magiche frecce Eurito e i suoi figli e, dopo aver sepolto alcuni dei suoi compagni caduti in battaglia, e cioè Ceice figlio di Ippaso e Argeo e Mela figli di Licinnio, mise a sacco Ecalia e fece prigioniera Iole. Piuttosto che cedere a Eracle, Iole preferì vedere uccisa sotto i propri occhi tutta la sua famiglia, e poi si gettò giù dalle mura; tuttavia sopravvisse, perché la sua gonna si allargò al soffio del vento e attuti la caduta. Eracle la mandò allora, con altre donne di Ecalia, da Deianira a Trachine, mentre egli si recava sul promontorio dell’Eubea detto Ceneo. Dobbiamo qui ricordare che, al momento di congedarsi da Deianira, Eracle fece una profezia; di lì a quindici mesi egli avrebbe dovuto morire, oppure trascorrere il resto della sua vita in completa tranquillità. Questo egli aveva letto nel volo di due colombe identiche, levatesi dalla antica quercia oracolare di Dodona. Non si sa con esattezza quale delle città chiamate Ecalia fosse saccheggiata in quella occasione: se l’Ecalia in Messenia o in Tessaglia o in Eubea o in Trachinia o in Etolia. L’Ecalia messenica è la più probabile, dato che il padre di Eurito, Melaneo re dei Driopi, un abilissimo arciere chiamato perciò figlio di Apollo, giunse in Messenia durante il regno di Periere figlio di Eolo, e fu accolto in Ecalia come se fosse la sua patria. Ecalia fu così chiamata in onore della moglie di Melaneo. Colà in un sacro bosco di cipressi, i sacrifici eroici in onore di Eurito, le cui ossa sono conservate in un’urna di bronzo, danno inizio ai misteri della grande dea. Altri identificano Ecalia con Andania, città che sorge a un miglio dal bosco di cipressi e dove un tempo si svolgevano questi misteri. Eurito fu uno degli eroi che i Messeni invitarono a risiedere tra loro quando Epaminonda ricuperò i territori nel Peloponneso.
ll mito di Eracle, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
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