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Il mito di Cenide-Ceneo

Il mito di Cenide-Ceneo

Il racconto del mito di Cenide-Ceneo è tratto da Ovidio, Metamorfosi, XII 189-209 e 459-535 ed è collegato al nostro post Ermafrodito e altri esseri bisessuali.

 

 

 

 

 

 

Era famosa per la sua bellezza Cenide figlia di Elato,
la più bella ragazza della Tessaglia, richiesta
invano da tanti pretendenti nelle città vicine
e nelle tue, Achille — era tua compatriota.

Anche Peleo avrebbe forse aspirato alle sue nozze,
ma gli erano già toccate o almeno promesse
quelle con tua madre. Lei non volle sposare
nessuno, ma, mentre percorreva una spiaggia
isolata, subì la violenza, narra la fama, del dio del mare,
Nettuno, quand’ebbe goduta la gioia dell’amore vergine,
le disse: «Il tuo desiderio sarà al sicuro da ogni rifiuto;
scegli quello che vuoi». Anche questo narrava la fama.
Rispose Cenide: «Questa violenza produce un desiderio
grande, di non poter più subire una cosa simile.

Fammi non essere donna, e mi avrai dato tutto». Le ultime
parole le disse con timbro più grave, e poteva sembrare la voce di un uomo,
com’era: infatti il dio del mare profondo assentiva,
e in più le aveva concesso di non poter essere
mai ferito o soccombere al ferro. Se ne va lieto
del dono e passa la vita in occupazioni maschili l’Atracide, e percorre il bacino del fiume Peneo.

[…]

 

 

 

 

 

 

 

Cinque ne aveva uccisi Ceneo: Stifelo, Bromo,
Antimaco, Elimo e Piracmone che brandiva una scure:
non ricordo le ferite, mi è rimasto in mente soltanto il numero e il nome.
Ecco arriva di volo, armato delle spoglie del tessalo Aleso,
che aveva ucciso, Latreo, immenso nel corpo:
l’età stava tra giovane e vecchio, il vigore
era di un giovane, capelli bianchi variavano le sue tempie.
Distinguendosi per scudo e spada e lancia macedone,
voltato di faccia a guardare ambedue gli eserciti,
scosse le armi e galoppò in cerchio perfetto,
spendendo con alterigia tante parole nell’aria vuota:
«Anche te, Cenide, dovrò sopportare? Perché ai miei occhi sarai sempre donna,
sarai sempre Cenide. Non ti ricordi la tua natura originaria,
non ti viene in mente per quale fatto sei stata premiata,
a quale prezzo hai acquistato l’immagine falsa di uomo?
Vedi ciò che sei nata e che cosa hai subito;
prendi la conocchia e il cestino, e fila la lana col pollice:
lascia le guerre ai veri uomini». E mentre scagliava queste parole, Ceneo
tirò una lancia e gli perforò il fianco proteso in corsa,
dove l’uomo si unisce al cavallo. Allora infuria per il dolore,
e con la lancia colpisce il nudo volto del giovane
di Fillo, ma la lancia rimbalza indietro come dal tetto la grandine,
o se qualcuno colpisce un tamburo con un sassolino.
Allora lo attacca da presso e cerca di piantargli nel duro
fianco la spada, ma non c’è posto che faccia passare la spada.
«Non mi sfuggirai lo stesso, ti sgozzerò di taglio» gli dice,
«giacché la punta è ottusa», e volta la spada di taglio,
allungando il braccio destro e avvolgendogli il ventre.
Il colpo risuona come se fosse portato sul marmo;
sulla pelle callosa la lama si spezza e vola in schegge.

Quando gli parve di avere abbastanza offerto le membra invulnerabili
allo stupore del nemico, Ceneo disse: «E adesso proviamo il tuo corpo
con il mio ferro», e gli immerse nel fianco la spada mortale
fino all’elsa, e la mosse alla cieca dentro le viscere,
e Ie rigirò con la mano, facendo ferita dopo ferita.
Ecco che con enormi grida i Centauri piombano a precipizio
su di lui, e tutti tirano e portano colpi contro lui solo.
Ma le armi cadono spuntate, e rimane illeso da ogni colpo, senza perdere sangue, Ceneo figlio di Elato.
Il prodigio li sbigottì. «Oh immensa vergogna»
esclama Monico. «Siamo una folla e siamo vinti da uno,
e appena uomo. Eppure lui è un vero uomo,
noi con la nostra viltà siamo quello che lui era prima.
A che ci servono i corpi immensi, le forze doppie ed il fatto
che in noi la natura ha unito i due animali più forti?
Non credo che siamo figli di una dea, né figli di Issione,
un uomo tanto grande da nutrire speranze
su Giunone, se ci lasciamo sconfiggere da un mezzo uomo.
Rovesciategli addosso macigni, tronchi e montagne intere,
tirategli addosso le selve per soffocare il respiro longevo!
Che una selva gli schiacci la gola, e il peso varrà altrettanto
come una ferita.» E cio detto, trovò per caso
un tronco abbattuto dalle furiose folate dell’Austro e lo scagliò contro
il forte nemico. Diede l’esempio, e in poco tempo
l’Otri era senza piante, ed il Pelio non aveva più ombra.
Sepolto dall’immensa catasta di alberi, Ceneo smania,
e regge sulle dure spalle i tronchi ammassati.
Ma quando sulla testa e sul viso il peso cresce,
e il respiro non ha più aria da respirare,
cede a tratti, e invano cerca di sollevarsi
sopra l’aria e scuotere i tronchi gettatigli addosso:
a tratti riesce a muoverli, come se l’alto Ida che adesso vediamo
fosse scosso da un terremoto. La fine è incerta:
alcuni raccontano che sotto il peso degli alberi
il corpo fu inabissato nel Tartaro vuoto;
ma il figlio di Ampice nega, perché aveva visto
uscire da sotto la catasta nell’aria limpida
un uccello con le ali fulve, che vidi per la prima e ultima volta.

 

 

 

 

 

 

 

 

E come Mopso lo vide perlustrare con volo lieve il campo dei suoi,
e risuonare intorno con grandi strida,
seguendolo insieme con gli occhi e con l’anima,
gli disse: «Salve, gloria dei Lapiti, tu che sei stato
grandissimo uomo e ora sei uccello unico, Ceneo!».
Grazie al testimone il prodigio fu creduto; il dolore accrebbe la nostra collera;
eravamo indignati che un solo uomo fosse stato ucciso da tanti nemici,
e non cessammo di sfogare il dolore col ferro,
prima che una parte di loro morisse e gli altri li
portassero via la notte e la fuga.

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Ermafrodito e la ninfa Salmacide

Ermafrodito e la ninfa Salmacide

Il racconto del mito di Ermafrodito è tratto da Ovidio, Metamorfosi, IV 284-388, ed è collegato al nostro post Ermafrodito e altri esseri bisessuali.

 

 

 

 

 

 

Vi voglio intrattenere piuttosto
con il piacere della novità: perché abbia pessima fama
la fonte Salmacide e perché snervi e ammollisca con le sue acque
fiacche le membra immerse. La causa è oscura, ma il suo potere ben noto.
Nelle grotte dell’Ida le Naiadi allevavano un figlio
di Mercurio e della dea di Citera; l’aspetto era tale
che in lui si riconoscevano il padre e la madre;
e anche il nome prese da entrambi loro.

Quando compì quindici anni, abbandonò i monti
natii, e lasciato l’Ida che l’aveva allevato, godeva
a vagare in terre ignote, a vedere fiumi
ignoti; la curiosità alleggeriva la sua fatica.
Andò nelle città di Licia, e nella Caria vicina
alla Licia, e vide un lago lucente di acqua limpida
fino al fondo. Non c’erano canne palustri,
né alghe sterili o giunchi dalla cima aguzza.
L’acqua è trasparente, ma il bordo del lago
è cinto da zolle vive e da erbe sempre
verdi. Vi abita una ninfa che non si dedica
alla caccia, non piega l’arco e non fa gare
di corsa; è la sola non nota alla rapida Diana.
Si dice che spesso le sue sorelle dicevano:
«Salmacide, prendi un giavellotto o una faretra dipinta,
alterna i tuoi ozi con la caccia faticosa».
Ma lei non prende giavellotti o faretre dipinte,
non alterna i suoi ozi con la caccia faticosa;
ma ora bagna nella sua fonte le belle membra,
ora si liscia i capelli col pettine di legno del Citoro,
e chiede all’acqua, specchiandosi, cosa le dona;
ora, col corpo avvolto in un manto diafano,
si sdraia sulle morbide fronde o sull’erba morbida;
spesso raccoglie fiori; e anche allora li raccoglieva, per caso,
quando vide il ragazzo e, vistolo, desiderò di averlo;
ma non gli si avvicinò, per quanto fosse ansiosa,
prima di essersi tutta acconciata e avere aggiustato il velo,
costruita un’espressione e guadagnato di sembrare bella.

Poi cominciò a parlare: «Ragazzo degnissimo
di essere creduto un dio, se lo sei, sei Cupido;
se sei mortale, beati i tuoi genitori,
felice tuo fratello e fortunata, se l’hai,
tua sorella e la nutrice che ti offrì il petto.
Ma di gran lunga più felice di tutte
se hai una fidanzata, se darai a qualcuna l’onore
della fiaccola nuziale. Se l’hai, sia furtivo
il mio piacere, se no, sarò io: entriamo nello stesso letto!».
Dopo queste parole, tacque la naiade, ed il ragazzo
arrossì — non sapeva cos’era l’amore — ma gli donava arrossire.
È questo il colore dei pomi che pendono da un albero soleggiato,
o dell’avorio tinto, o della luna che rosseggia sotto il suo candore,
quando risuonano invano i bronzi in suo aiuto.

Alla ninfa che gli chiedeva senza fine baci,
da sorella almeno, e tendeva le mani al collo eburneo,
disse: «Smettila, o scappo via da te e da questo luogo!».
Tremò Salmacide e disse: «Ti lascio libero il posto,
straniero»; voltò le spalle e finse di andarsene,
voltandosi indietro a guardarlo, e si nascose
in una macchia nascosta, e s’inginocchiò. Ma il ragazzo,
pensando di essere inosservato nel bosco vuoto
gira di qua e di là, e bagna la punta dei piedi
e poi fino al tallone nelle onde che lo lambiscono,
e senza indugio, attirato dalla temperatura dell’acqua
carezzevole, depone dal tenero corpo le vesti.

Allora sì che le piacque, e Salmacide arse
dal desiderio della nuda bellezza. Le brillano gli occhi
come quando risplende nitido il Sole nel puro cerchio
riflesso nell’immagine di uno specchio frapposto.
A fatica sopporta l’indugio e differisce la gioia;
desidera abbracciarlo e a stento nella sua follia si trattiene.
Lui, colpendo il corpo col cavo delle mani, salta
agilmente nell’acqua e, muovendo le braccia con moto alterno,
traspare nelle acque limpide, come chi copre
con lucido vetro una statua d’avorio o gigli candidi.
«Ho vinto, è mio» esclama la ninfa, e getta
lontano tutte le vesti, e si lancia in mezzo all’acqua,
e afferra il ragazzo ritroso e gli strappa a forza dei baci;
insinua le mani e gli tocca il petto
contro la sua volontà, e gli si stringe
ora di qua, ora di là. Alla fine, benché resista e voglia scivolar via,
lo avvolge come un serpente afferrato dall’aquila
regale, che lo porta in cielo: appeso, le lega il collo
e le zampe, e con la coda avvolge le ampie ali;
come l’edera usa avvolgere i lunghi tronchi,
o il polipo che sott’acqua afferra un nemico,
allungando da tutte le parti i tentacoli.
Il nipote di Atlante insiste a negare
alla ninfa la gioia sperata, ma lei lo incalza,
e aderendogli con tutto il corpo, gli disse: «Lotta
pure, cattivo, non mi sfuggirai. Voi, dèi, fate
che non venga mai il giorno che mi stacchi da lui e lui da me».

Gli dèi esaudirono i suoi desideri; si mescolano
i corpi dei due e assumono un solo aspetto;
come due rami, se si rivestono di corteccia, si vedono
col tempo saldarsi e crescere insieme, allo stesso modo,
quando le membra si sono unite in un abbraccio tenace,
non sono più due, ma una forma doppia, e non può più dirsi
femmina né ragazzo, ma sembra entrambi e nessuno dei due.
Quando vede che le acque limpide in cui era sceso maschio
lo avevano fatto uomo a meta e rammollito il suo corpo,
tendendo le mani, con voce non più virile,
Ermafrodito disse: «Padre mio e madre mia,
concedete a vostro figlio, che ha il nome di entrambi,
che qualunque uomo arriva a queste onde ne esca
mezzo uomo, e si rammollisca appena toccata l’acqua».
Entrambi i genitori, commossi, ratificarono le parole
del figlio biforme, e versarono nella fonte il contagio.
(Ovidio, Metamorfosi, IV 284-388)

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Ermafrodito e altri esseri bisessuali

Ermafrodito e altri esseri bisessuali

L’essere bisessuale per eccellenza, nella mitologia greca, si chiama Ermafrodito, figlio, come dice il suo nome, dell’amore di Ermes e Afrodite. Questo personaggio — introdotto forse da ambiente orientale — è abbastanza recente nella mitologia: sue immagini iniziano a comparire solo nel quinto-quarto secolo a.C. L’androginia è invece una prerogativa assai antica del divino: gli dèi più arcaici sono sessualmente indifferenziati e contengono in sé l’energia riproduttiva di entrambi i sessi, potenziata perché racchiusa in un unico essere.

Ermafrodito era oggetto di un culto popolare e iconico certamente nel quarto secolo a.C.; i suoi giorni sacri erano il quarto e il settimo del mese. Nel quarto si diceva che fossero nati sia Ermes che Afrodite, e questo giorno veniva considerato il migliore per i matrimoni e quindi per la procreazione: è nel quarto giorno del mese che Esiodo raccomanda di portarsi in casa una moglie (Opere e giorni 800); e il superstizioso di cui si fa beffe Teofrasto (Caratteri 16) nel quarto e nel settimo giorno di ogni mese si dedica a comprare incenso da bruciare e passa l’intera giornata a inghirlandare statuette di Ermafroditi.

La storia di Ermafrodito è nota in particolare attraverso il grazioso racconto di Ovidio, che ne fa la trama di una piccola anche se inquietante elegia d’amore. Egli era in origine un meraviglioso giovane, e si dilettava di caccia sui monti e nelle solitudini. Un giorno, mentre si trovava presso una sorgente, la ninfa del luogo, Salmacide, s’innamorò di lui e lo ghermì. Ermafrodito si divincolò, mentre la ninfa lo abbracciava e pregava gli dèi che mai sciogliessero quell’abbraccio. Fu esaudita: i due corpi divennero uno solo, maschile e femminile insieme. La fonte Salmacide, da allora, ha il potere di togliere la virilità a chiunque vi s’immerga.

Quello di Ermafrodito non è l’unico esempio di bisessualità della mitologia. Esistevano altri personaggi che l’avevano sperimentata nel loro corpo, generalmente però come prodotto di un cambiamento di sesso. Era questo il caso di Ceneo, che era in origine una donna di nome Cenide. Poseidone si innamorò di lei e la ragazza acconsentì a ricambiare i suoi abbracci, ma chiese in compenso di essere trasformata in uomo e inoltre di avere il dono dell’invulnerabilità. Così le fu concesso; Ceneo, diventato ormai un uomo possente, si coprì di gloria per il suo valore. L’ultima sua impresa, in cui trovò la morte, fu la battaglia contro i Centauri, alla quale partecipò insieme ai Lapiti. Poiché i Centauri, per quanti colpi sferrassero, non riuscivano a ferirlo, lo assalirono tutti insieme e lo seppellirono vivo, piantandolo nella terra con colpi di tronchi di abete. Secondo alcuni racconti, Ceneo dopo la morte ritornò a essere donna, oppure divenne un uccello dalle ali variopinte; ma in generale si riteneva che abitasse nel suolo come demone sotterraneo, né morto né vivo, a somiglianza di altri eroi ctoni quali Trofonio e Anfiarao. Di lui si raccontava anche un’altra storia: Ceneo mise in fuga da solo i Centauri, poi gonfio d’orgoglio piantò la sua lancia in mezzo alla piazza e obbligò tutti i cittadini a onorarla e a fare giuramenti in nome suo. Fu un gesto di folle arroganza (hybris), perché con questi atti Ceneo usurpava le prerogative divine; perciò Zeus eccitò nuovamente contro di lui i Centauri, che lo seppellirono vivo.

Anche Tiresia sperimentò lo sdoppiamento di sesso e ciò fu per alcuni all’origine della sua cecità e delle sue qualità di profeta. Secondo una versione del mito egli divenne cieco per avere visto Atena nuda una sorgente. La versione alternativa diceva che fu chiamato come arbitro in una contesa tra Zeus ed Era sulla natura del piacere sessuale, maschile e femminile: Tiresia, infatti, era l’unica creatura vivente che potesse pronunciarsi sull’argomento, perché un giorno, dopo aver ucciso un serpente che si stava accoppiando, era improvvisamente divenuto donna e cosi aveva vissuto molto tempo (sette anni, si diceva), finché aveva nuovamente ucciso, nello stesso luogo, un altro serpente in amore, ritornando uomo. Interrogat0 dagli dèi decretò che il piacere femminile è maggiore, e perciò Era, adirata per l’accusa di sfrenatezza che era stata rivolta al suo sesso, lo privò della vista; in cambio, Zeus gli concesse il dono della profezia e una vita lunghissima.

I miti parlano di un altro essere bisessuale, Agdisti. Il racconto che lo riguarda è di origine orientale, connesso ai rituali di Cibele e del suo paredro Attis, i cui sacerdoti praticavano l’autoevirazione, come un tempo si diceva avesse fatto lo stesso Attis, al quale si conformavano. In ambiente mediorientale il mito di Attis assume varie forme; Pausania riferisce una variante arrivata sino a Dime, in Acaia, dove la Madre degli dèi e il suo paredro avevano un tempio molto frequentato. La storia era originaria di Pessinunte, la terra della Gran Madre. Si diceva che Zeus, nel sonno, fece cadere al suolo alcune gocce del suo seme e di lì nacque un essere bisessuale che venne chiamato Agdisti; gli altri dèi, intimoriti dalla sua forma insolita, lo evirarono e dal suo membro reciso nacque un mandorlo. La figlia del dio-fiume Sangario colse una mandorla di quell’albero e la ripose sul suo seno: di lì nacque Attis, che subito dopo venne abbandonato e scampò miracolosamente alla morte grazie a un caprone che lo nutrì. Il ragazzo crebbe e divenne talmente bello che l’evirato Agdisti s ‘innamorò di lui. In seguito, Attis fu sul punto di sposare la figlia del re di Pessinunte, ma quando già le nozze stavano per essere celebrate Agdisti si rifece vivo e Attis, preso da improvvisa follia, si evirò, come un tempo era accaduto a Agdisti, e lo stesso fece il re di Pessinunte. Attis morì per quella ferita, ma dagli dèi gli fu concesso di non corrompersi mai.

Il brano di questo post è tratto dal magnifico libro di Giulio Guidorizzi, Il mito greco. Si tratta di due volumi (usciti per Mondadori nel 2009 e nel 2012) che noi vi consigliamo caldamente. Qui una lista di altri volumi di Guidorizzi sul mito greco.

La storia di Ermafrodito e della ninfa Salmacide, tratta da Ovidio
Il mito di Ceneo-Cenide, tratto da Ovidio
Il mito di Tiresia diventato donna e ritornato uomo, tratto da Apollodoro, Igino e Ovidio
La storia di Agdisti, tratta da Pausania

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Gli oracoli della Grecia antica

Gli oracoli della Grecia antica

Molti sono gli oracoli della Grecia e della Magna Grecia; ma il più antico è quello di Zeus a Dodona. Nei tempi passati due nere colombe si alzarono in volo da Tebe d’Egitto; l’una giunse ad Ammone in Libia, l’altra a Dodona; ambedue si posarono su una quercia che proclamarono essere un oracolo di Zeus. A Dodona, le sacerdotesse interpretano il tubare delle colombe o il frusciare delle foglie di quercia o il tintinnio dei vasi di bronzo appesi ai rami, Zeus ha un altro oracolo famoso in Olimpia, dove i sacerdoti rispondono alle domande, esaminando le viscere degli animali sacrificati.

Il più famoso oracolo è però quello di Delfi. L’oracolo delfico appartenne dapprima alla Madre Terra, che nominò Dafni sua profetessa, e Dafni, seduta su un tripode, inspirava i sacri fumi profetici, come tuttora fa la sacerdotessa pitica. Taluni dicono che la Madre Terra più tardi cedette i suoi diritti alla Titanessa Febe o Temi, e che costei li cedette ad Apollo, il quale si costruì un santuario di rami d’alloro portati da Tempe. Ma altri sostengono che Apollo si impadronì con la forza dell’oracolo della Madre Terra dopo aver ucciso Pitone, e che i suoi sacerdoti iperborei Pagaso e Aguieo stabilirono colà il suo culto. A Delfi si dice che il primo santuario fu fatto con cera d’api e piume; il secondo, con steli di felce intrecciati; il terzo, con rami. di alloro; e che Efesto costruì il quarto in bronzo, con canori uccelli d’oro appollaiati sul tetto: ma un giorno la terra inghiottì questo tempio; il quinto santuario, costruito con pietra levigata, bruciò nell’anno della cinquantottesima Olimpiade (489 a.C.), e fu sostituito con il santuario che tuttora si ammira. Apollo possiede molte altre sacre sedi oracolari, come quelle sul monte Liceo e sull’Acropoli ad Argo, ambedue rette da una sacerdotessa. Ma a Ismenio in Beozia i suoi oracoli vengono emanati da sacerdoti che esaminano le viscere delle vittime; a Claro, presso Colofone, il veggente beve l’acqua di un pozzo segreto e pronuncia l’oracolo in versi; mentre a Telmesso e altrove si interpretano i sogni.

Le sacerdotesse di Demetra danno oracoli per i malati a Patre, leggendo in uno specchio immerso in un pozzo con una corda. A Fare, in cambio di una moneta di rame, i malati che consultano Ermete sono certi di ricevere responsi dalle prime parole udite casualmente mentre attraversano la piazza del mercato. Era ha un venerabile oracolo presso Page; e la Madre Terra è ancora consultata a Egira in Acaia, che significa “il luogo dei neri pioppi”, dove le sue sacerdotesse bevono sangue di toro, veleno letale per tutti gli altri mortali. Oltre a questi, vi sono molti oracoli di eroi: l’oracolo di Eracle, a Bura in Acaia, dove si ottengono responsi lanciando quattro dadi e numerosi oracoli di Asclepio, dove i malati accorrono per conoscere la loro cura e ricevono il responso in sogno dopo un digiuno. Inoltre, Pasifae ha a Talame in Laconia un oracolo patrocinato dai re di Sparta, dove si danno i responsi sotto forma di sogni.

Taluni oracoli si possono consultare meno facilmente di altri. A Lebadea ad esempio si trova un oracolo di Trofonio, figlio di Ergine l’Argonauta, dove il supplice deve purificarsi con parecchi giorni d’anticipo, alloggiare in un edificio dedicato alla Buona Fortuna e a un certo Buon Genio, bagnarsi soltanto nel fiume Eroina e sacrificare a Trofonio, alla sua nutrice Demetra Europe e ad altre divinità. In quel periodo il supplice si nutrirà di carni sacre, specialmente delle carni dell’ariete offerto in sacrificio all’ombra di Agamede, fratello di Trofonio, che lo aiutò a costruire il tempio di Apollo a Delfi. Quando è in condizioni di consultare l’oracolo, il supplice viene condotto al fiume da due fanciulli tredicenni, e colà è lavato e unto. Poi beve a una fonte chiamata Acqua del Lete, che lo aiuterà a scordare il suo passato, e a un’altra fonte vicina, detta Acqua della Memoria, che lo aiuterà a rammentare ciò che ha visto e udito. Calzati zoccoli da contadino, indossata una tunica di lino e una rete, come fosse una vittima sacrificale, egli si avvicina alla voragine dell’oracolo che somiglia a un enorme forno da pane, profonda sette metri, dove egli discende con l’aiuto di una scala. Giunto sul fondo, trova una stretta apertura in cui insinuerà le gambe, reggendo in ambe le mani un pane d’orzo impastato con miele. Dopo un improvviso strattone alle caviglie, gli parrà di essere travolto come dal gorgo di un fiume in piena e nell’oscurità sarà colpito alla nuca e gli parrà di morire, mentre una voce invisibile gli rivela il futuro e molte altre cose segrete. Non appena la voce si tace, il supplice perde i sensi e viene trasportato alla bocca della voragine con i piedi in avanti, privo delle focacce d’orzo; dopo di che lo si insedia sul Trono della Memoria, dove gli si chiede di ripetere ciò che ha udito. Infine, con la mente ancora annebbiata, ritorna alla casa del Buon Genio, dove ricupera i sensi e la capacità di sorridere. La voce invisibile è quella di uno dei Buoni Geni dell’età dell’oro di Crono, che discesero dalla luna e si incaricarono di presiedere agli oracoli e ai riti iniziatici, e di purificare, sorvegliare e salvare i mortali in ogni luogo; codesto Buon Genio consulta l’ombra di Trofonio, che ha la forma di serpente, e dà i suoi responsi in cambio delle focacce d’orzo del supplice.

Alcuni appunti sui maggiori oracoli della Grecia antica, riassunti dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves

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