E ora che l’Enciclopedia Treccani sceglie “femminicidio” come parola dell’anno appena finito, ora che il film di Paola Cortellesi è tra i più visti nella storia del cinema italiano, ora che la consapevolezza femminile della propria forza propositiva comincia a essere coscienza condivisa, ora che dopo l’emozione seguita alla morte di Giulia Cecchettin gli uomini hanno cominciato a interrogarsi sulla cultura patriarcale o post-patriarcale che dir si voglia, qual è lo stato delle cose del rapporto tra i sessi? “E ora?” è anche il titolo del primo capitolo del saggio appena uscito – politicamente scorretto, lo definisce l’autrice – della filosofa Annarosa Buttarelli, Bene e male sottosopra, la rivoluzione delle filosofe (Tlon editore). Formatasi nel pensiero della differenza sessuale, sostenitrice della “presa di autorevolezza” con il suo libro Sovrane e fondatrice della Scuola di alta formazione per donne di governo, Buttarelli si chiede da tempo perché gli uomini non ascoltano, non si interessano al pensiero delle donne. Fermi alla “questione femminile”, ragionano solo in termini di parità, diritti, quote, cooptazione. Di emancipazione, insomma, di integrazione nel sistema, senza rendersi conto che da due secoli le donne chiedono sì uguaglianza e libertà, ma “fanno” anche filosofia, propongono una diversa concezione delle relazioni e della politica, e soprattutto un altro approccio di pensiero, che possa diventare valido per tutti, uomini e donne. «Per quale ragione le pensatrici di tutti i tempi non sono state ascoltate, né dai filosofi accademici né dalla cultura corrente del momento?», si chiede Buttarelli. «È il risultato di una misoginia millenaria, che ha svalutato la donna come essere umano pensante, e ha sempre considerato il pensiero maschile come universale».
Quanti docenti di filosofia maschi hanno letto Nonostante Platonedi Adriana Cavarero o Sputiamo su Hegeldi Carla Lonzi? Di questa misoginia che esclude le pensatrici dal canone filosofico accademico Buttarelli ne trova conferma anche nell’ultima opera di Massimo Cacciari, Metafisica concreta(edito da Adelphi), che vede la sopravvivenza della filosofia – da tempo in crisi rispetto alla sua funzione – in un legame con l’essere nel momento in cui vive, non l’essere astratto ma “l’essente”. «Peccato che le pensatrici hanno sempre riflettuto proprio sulla metafisica concreta della vita quotidiana: la cura, la ricettività interiore, i sentimenti, l’ascolto sono patrimonio della differenza femminile, un pensiero che parte dall’esperienza e si fonda sulla relazione, ma di questo nel lavoro di Cacciari non c’è riconoscimento», osserva Buttarelli, che nel suo libro affronta il grande tema etico del bene e del male, oggi così sensibile, con pensatrici come Simone Weil e Hannah Arendt, María Zambrano e Carla Lonzi, come la psicoanalista Françoise Dolto o la scrittrice Flannery O’Connor, voci di un “sottosopra” filosofico che individua nel pensiero antitetico, duale, il responsabile della crisi attuale della civiltà europea-occidentale.
«È venuto il tempo che anche gli uomini si occupino delle opere delle donne: le leggano, le guardino, le studino, ne scrivano». Sono le parole di Daniela Brogi, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università per stranieri di Siena, stanca di vedere come a studiare le autrici siano quasi sempre le donne. «Come se per molti uomini di cultura fosse un’impresa da cervello balzano occuparsi delle opere delle autrici, facendo quello che noi invece facciamo da sempre con gli autori». Daniela Brogi fa parte di quella generazione femminile che negli ultimi dieci anni è entrata in gran numero nelle università, nell’editoria, nell’informazione e nelle professioni, una generazione ancora giovane da cui ci si aspetta una rivoluzione culturale segnata dalla loro identità di genere. Nel suo saggio Lo spazio delle donne(Einaudi, 2022) analizza quanto è stato concesso loro nei secoli. Oltre alla violenza primaria che è stata esercitata vietando o svalutando la loro possibilità di occupare da soggetti uno spazio pubblico, si è aggiunta una seconda violenza, la svalutazione della narrativa che racconta gli spazi marginali del loro mondo: «E così raccontare di luoghi domestici, di memorie famigliari, del mondo della madre, dell’autobiografia, di storie d’amore o del corpo, è stata a lungo una scrittura creduta inferiore, se praticata dalle autrici». Oggi, dopo aver man mano conquistato gli interstizi, le smarginature nel sistema maschile, le donne che scrivono e che pensano sono in uno stato di “fuori campo attivo”, per usare un’immagine cinematografica. «Non si tratta più di abbattere il tetto di cristallo, ma anche le pareti», dice ancora Daniela Brogi. «E invece nel sistema universitario domina ancora l’automatismo della cultura patriarcale. Perché il patriarcato non è solo un sistema giuridico ma una postura culturale, una mentalità che riguarda il simbolico, e sopravvive quindi al mutare delle leggi. Anche se le donne sono presenti in università, gli uomini tendono a parlarsi, ascoltarsi e riconoscersi solo tra loro. Per cui quando si cerca un intellettuale per un convegno o un seminario è quasi sempre senza apostrofo…».
Appartiene alla generazione delle quarantenni anche Giorgia Serughetti, docente di Filosofia politica all’Università di Milano-Bicocca, ora in libreria con La società esiste (Tempi Nuovi). «Quando ho studiato io, ricordo di non aver mai letto un libro scritto da una donna, eppure eravamo alla fine degli anni Novanta… Allora l’unico nome che bucava era quello della Arendt. Oggi con i fondi del Pnrr ci saranno 17 borse di studio per gli studi di genere, che sta gestendo Francesca Recchia Luciani dell’Università di Bari. Partiti prima nelle scienze sociali, gli studi di genere hanno portato un grande cambiamento nel tessuto accademico. Il problema è che questo patrimonio di ricerca realizzato dalle docenti che si mettono in rete, che si sostengono e si scambiano informazioni, non suscita interesse da parte degli uomini. Perché in loro domina ancora il pregiudizio per cui, parlando solo di donne si perde di interesse generale, e loro, le donne, rimangono situate nella loro parzialità. Lo aveva capito bene Simone De Beauvoir, parlando dell’uomo che si considera il Soggetto e vede nella donna l’Altro: la donna non può assurgere a voce universale, perché non riesce a separarsi dalla propria specificità di genere. Molte donne nel passato ci hanno rinunciato per essere considerate alla pari, per non essere sbalzate fuori dai giochi. Il femminismo ha cambiato però le carte. Oggi penso che quello che può venire di buono nella politica verrà dalle donne e che un cambio di passo sta già avvenendo. Non per le qualità essenzialiste dell’essere donna, ma per la maggiore sensibilità a capire i cambiamenti, a captare anche i segnali invisibili. È possibile che ai politologi sfugga che il movimento delle donne è il più grande movimento collettivo e che ha una forza dirompente? Si analizzano i motivi per cui si è rotto l’ordine neoliberista, i populismi di destra e di sinistra, la crisi della democrazia… Ma a nessuno viene in mente di prendere in considerazione nella discussione politica anche il pensiero femminista».
Qualche uomo però ci sta provando a misurarsi con il pensiero delle donne. Tra questi, Riccardo Fanciullacci, quarantacinque anni, docente di Filosofia morale all’Università degli studi di Bergamo. «Oggi non è più così raro trovare corsi dedicati a una pensatrice importante come Hannah Arendt o che discutono le posizioni di Judith Butler o di Martha Nussbaum. Giusto l’anno scorso, ho dedicato le mie lezioni a Iris Murdoch e Simone Weil. Resta però da capire quanto ci si lasci trasformare dal loro pensiero e non ci si limiti a includere nuove figure in uno schema che è sempre lo stesso. Per questo mi torna spesso in mente quando Luisa Muraro ha chiesto se gli accademici siano disposti a imparare da una donna che non sia morta e che dunque non voglia farsi trattare come un monumento. Per imparare da qualcuno bisogna saper dare autorità alla sua parola, ma in questo caso bisogna essere diventati capaci di dare autorità a una donna, e questo vuol dire aver fatto un passo oltre le abitudini e gli schemi patriarcali. Si tratta di una nuova etica, nel senso di un nuovo modo di abitare le relazioni tra i sessi. Ho avuto la fortuna di incontrare il pensiero della differenza sessuale non solo attraverso i libri ma frequentando i luoghi in cui viene elaborato, come il Seminario organizzato ogni autunno all’Università di Verona dalla comunità di Diotima e la Libreria delle donne di Milano. Grazie alle relazioni nate in questi luoghi, ho imparato a non slegare il movimento del pensiero dal riferimento a ciò che ci capita e arriva a toccarci nella vita. E questo lo porto anche nei miei corsi». Fanciullacci ha curato con Stefania Ferrando il libro di Lia Cigarini La politica del desiderio e altri scritti, Orthotes 2020. Nel dialogo conclusivo, Cigarini sostiene che la politica maschile ha mancato l’appuntamento con il pensiero delle donne e quindi con l’occasione di elaborare in maniera positiva la fine del patriarcato. È d’accordo? «In riferimento alla politica, soprattutto quella istituzionale, direi senz’altro di sì. E davanti alle grandi novità di oggi, a volte mi domando se noi uomini saremo capaci di una risposta all’altezza. Le studentesse chiedono che si parli delle donne in filosofia, in letteratura, nelle scienze, e molti dei loro compagni sono d’accordo: diventa difficile non confrontarsi con queste richieste. E se qualcuno prosegue imperterrito con il vecchio canone, ecco che quelle stesse studentesse danno vita a blog o a riviste. Questa è una bella eredità del movimento delle donne». Di femminismi, però, ce ne sono tanti sulla scena, da Non una di meno alla galassia delle teoriche del gender, al movimento Lgbtq+… «Sì, è vero, ma preferisco non entrare nel dibattito, che ha spesso un forte carattere ideologico. Ho imparato a non farmi catturare dal discorso corrente e cerco di offrire la possibilità di non prendere posizioni preconfezionate. Preferisco portare l’attenzione su alcuni temi: la politica non si riduce a lotta per il potere, o il conflitto alla guerra o il linguaggio a strumento di regolazione e controllo. In questo modo ottengo un risveglio di creatività piuttosto che schieramenti». «Tutto è nato un po’ per caso, tipo tre amici al bar. Ci si diceva: ma vi rendete conto che nei manuali universitari non ci sono donne?». A iniziare il racconto dell’avventura del programma di video-lezioni “Donne e pensiero politico” dell’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini di Torino è il suo responsabile scientifico, il torinese anche lui quarantenne Federico Trocini, docente di Storia del pensiero politico all’Università di Bergamo. Quando è scoppiato il Covid, in tre si sono messi a lavorare al progetto delle conferenze: oltre a Trocini, Cristina Cassina dell’Università di Pisa e Giuseppe Sciara dell’Università di Bologna. Il risultato, 70 video su YouTube – uno alla settimana – e 100mila visualizzazioni, un successo imprevisto e imprevedibile. «Credo che il progetto abbia funzionato perché abbiamo lavorato molto sul format: stessa grafica, sigla riconoscibile, evitare toni professorali e scegliere lo stile diretto della comunicazione social. E una struttura uguale per tutte e 70 le pensatrici: focus biografico, contesto storico-sociale e infine approfondimento del pensiero politico». La scelta delle protagoniste è stata fatta attraverso le proposte che venivano dalla rete accademica su tutto il territorio nazionale ma anche dalle reti personali, e per i relatori – quasi tutti giovani, in gran parte ragazze – si è puntato sui dottorandi e gli assegnisti. «Il nostro è un programma divulgativo», precisa Trocini, «con un’impostazione chiara: solo pensatrici e non attiviste, non solo occidentali e non solo bianche, e senza guardare al loro schieramento di parte. Abbiamo scelto tra pensatrici di matrice liberale, cattolica, socialista, sfidando la consuetudine di considerare il pensiero femminista coincidente con l’appartenenza a sinistra. E anche che fossero necessariamente femministe: Madame de Staël, per esempio, non ha mai parlato delle donne ma è stata una grande pensatrice politica…». Qualche nome, oltre alle tante già note come Rosa Luxemburg o Carole Pateman: dall’afroamericana Kimberlé Crenshaw, che ha coniato il termine di “intersezionalità”, all’egiziana Nawal El Saadawi. Certo i tre ragazzi al bar non si aspettavano questo successo: dopo pochi mesi il programma è stato acquistato da un editore spagnolo (Altamarea), e in Italia Carocci sta comprando i diritti. Nel 2025 avremo così la prima collana Storia del pensiero politico femminile, con oltre 16 volumi. Seguirà un manuale per Mondadori Università. Chapeau. E segno che una nuova generazione di intellettuali uomini si sta muovendo accanto alle loro compagne di studio e di insegnamento. Forse il cambiamento di passo tanto desiderato è davvero avviato.
Donatella Borghesi su “Il Foglio”, 22 gennaio 2024 (noi l’abbiamo ripreso dal sito della Libreria delle donne di Milano, che ringraziamo! Andate regolarmente sul loro sito: ci sono sempre idee e articoli interessanti!)
INTERVISTA a Adriana CAVARERO di Renzo COCCO (da VERONA FEDELE 1° maggio 2022) Noi abbiamo ripreso l’intervista dal sito della RETE DI COOPERAZIONE EDUCATIVA, che ringraziamo!
Adriana CAVARERO nasce a Bra (Cuneo) ne 1947, ma si trasferisce ancora giovane a Verona. Dopo la laurea in Filosofia all’Università di Padova, dove lavora fino al 1984, inizia l’insegnamento all’Università di Verona quale ordinaria di Filosofia politica. Conosciuta per i suoi studi di filosofia antica e di filosofia politica, è stata visiting professor presso importanti Università inglesi e americane quali Warwick, Berkeley, Meg York University e Harvard. Numerose le sue pubblicazioni tradotte in tanti Paesi del mondo. In particolare, ha dato alle stampe studi fondamentali su Platone, Hannah Arendt e sulla questione femminile partendo dai miti e dalla radice greca della violenza occidentale. Il suo ultimo libro, edito da Raffaello Cortina, si intitola “Democrazia sorgiva”. Oggi è professoressa onoraria di Filosofia politica presso l’Università di Verona.
Le immagini che arrivano dall’Ucraina invasa dall’esercito russo di Putin sono terribili e nel contempo tragiche: eccidi di massa di civili innocenti; fosse comuni piene di cadaveri giustiziati con un colpo alla testa; violenze inenarrabili a donne, bambini e anziani; distruzioni di scuole, ospedali, teatri; intere città rase al suolo. Questo intollerabile scempio che suscita orrore pone, anche dal punto di vista etico, una serie di domande che riportano alle radici dell’essere umano: perché la guerra? Quali terribili demoni guidano l’uomo-lupo? Come si può arrivare a tali livelli di mostruosità?
Di questi temi abbiamo parlato con Adriana Cavarero, una delle più note e autorevoli filosofe italiane.
Prof.ssa Cavarero, guardando alle vicende dell’umanità si constata che la guerra, da sempre e fino ai nostri giorni, ha un ruolo decisivo nel segnare le svolte della Storia e i destini dei popoli. Nell’Olimpo c’è persino un dio che la impersona. Perché la civiltà non può fare a meno della guerra?
La guerra fa purtroppo parte della storia umana, anche nel senso che è fatta dagli uomini, è un loro prodotto, un’attività specificamente umana. Gli altri animali non si fanno guerra. Ares, il dio della guerra, è ovviamente un’invenzione degli uomini che proiettano nella dimensione del divino le loro esperienze. Quanto alla sua domanda, non legherei il fatto della guerra al concetto di civiltà. Non è la civiltà, comunque la si intenda, a produrre la guerra. Se mai, è la guerra a interrompere e a contrastare il tempo di pace durante il quale la civiltà, generalmente, fiorisce e progredisce. Quindi della guerra si può fare a meno, ma bisogna seriamente impegnarsi a pensare la pace e a far sì che la guerra diventi un tabù, qualcosa di impensabile.
Veniamo all’uomo che ne è il mefistofelico artefice. Quali sono le pulsioni profonde, i demoni che lo spingono a praticare “l’arte della guerra”, ad usare la forza e la violenza, a scegliere il male anziché il bene?
Non so quali siano le pulsioni profonde che spingono alla guerra e alla violenza, e dubito comunque che siano connaturate, che facciano parte della cosiddetta “natura umana”. Se no, lei capisce, non c’è niente da fare. Constato però che, storicamente, l’esaltazione dell’arte della guerra è collegata al predominio di una cultura e di un immaginario virilista. Se vogliamo che la guerra diventi un tabù, dobbiamo innanzitutto lavorare sullo smantellamento di questa cultura e di questo immaginario, ovvero smantellare l’idea che il vero uomo, inteso come maschio – vir – sia un essere potente, prepotente e perciò, inevitabilmente, distruttore. Io non credo che il male e il bene siano concetti assoluti, per così dire immutabili e originari. E non credo neanche che stia a noi scegliere fra il bene e il male, che questa scelta avvenga nell’assoluta autonomia di uno spirito libero. Credo piuttosto che viviamo in una cultura che ha elaborato da mille ragioni per ritenere la guerra un male giustificabile, se non necessario. Come filosofa, mi occupo di contestare queste ragioni e pensare la pace come fine possibile, ovvero come ciò a cui deve mirare il lavoro culturale di chi educa le nuove generazioni.
La polis, vale a dire la comunità, celebra i generali vittoriosi e considera eroi i combattenti morti in battaglia. Per onorare i caduti a difesa della Patria, l’ateniese Pericle si rivolge 2.500 anni fa ai propri concittadini con queste parole: “Furono uomini capaci di osare, consapevoli dei loro doveri, animati nel loro agire da un vivo senso dell’onore” che meritano “l’elogio che il passare degli anni non intacca”. Dunque, la guerra (indipendentemente dall’essere offensiva o difensiva) è uno stato naturale dell’uomo e lo strumento principale dell’evoluzione della civiltà?
Lei ha fatto un ottimo esempio di quella che ho definito una cultura virilità. Ritenere che la guerra sia uno stato naturale dell’uomo e lo strumento principe dell’evoluzione della civiltà, propaga questa cultura e la rafforza. Quando leggiamo i grandi testi dei Greci, perciò, dobbiamo farlo criticamente, sennò rischiamo di fare propaganda al loro evidente marchio bellicoso e virilista. Io amo Tucidide(lo storico greco che ha riportato il discorso di Pericle agli ateniesi, ndr), la sua grandezza è immensa, ma lo leggo criticamente.
La faccia contrapposta della guerra è la pace. Ma vi sono tante paci: quella resistenza passiva e della nonviolenta; quella dell’equilibrio del terrore; la pax romana che portava a radere al suolo le città e a spargere il sale sulle macerie perché non vi crescesse più neanche un filo d’erba, ben rappresentata dalla celebre affermazione di Tacito (“fecero un deserto e lo chiamarono pace”). E c’è infine quella della ragione, dei cuori, delle menti che si basa sul principio di essere tutti uomini liberi, fratelli che condividono la Terra. Di quale pace dobbiamo dunque parlare?
Di una pace che non è un fatto, un dato, ma un fine. Una mira per un modello nonviolento di convivenza. So che non è facile, e che sembrano solo parole sentimentali e ingenue le mie. Però constato che, perlomeno per gran parte del territorio europeo, la guerra per 70 anni non aveva avuto luogo e, per la mentalità generale, era quasi diventata un tabù. Tanto è vero che, fino alla sera del 23 febbraio, nessuno di noi pensava che Putin avrebbe bombardato l’Ucraina veramente. Pensavamo che le sue fossero minacce, ma che si sarebbe fermato. In altri termini, molti di noi, compresi i cosiddetti esperti di geopolitica, ritenevano la guerra in Europa un evento impossibile. Ora che il tabù è stato violato, dobbiamo ricominciare da capo, perché la pace a cui miriamo si fa più lontana, più difficile. Parlo di Europa non solo perché sono egoisticamente europea e mi importa meno di altre parti del pianeta – me ne importa, eccome! – ma perché l’Europa, in questi settant’anni, ha potuto rappresentarsi come un laboratorio storico nel quale la guerra diventa un tabù. Pensi ad altre atrocità umane come la schiavitù. Praticata e ritenuta normale – inevitabile, utile, necessaria – per millenni, ad un certo punto, attraverso una notevole mutazione culturale, è diventata un tabù. Quindi i mutamenti culturali sono possibili.
La voce più autorevole e coraggiosa che ha condannato le guerre (compresa con forza particolare l’aggressione della Russia all’Ucraina) definendole “crudeli, insensate e sacrileghe” è stata quella di papa Francesco. Un grido, il suo, angosciato e ricorrente che sembra però rimanere inascoltato, una “voce che grida nel deserto”. Quali riflessioni le suggeriscono le parole del Santo Padre?
Il Papa è una voce importantissima per mirare alla pace. Non credo affatto che sia inascoltato; anzi, credo che la sua parola dia una spinta decisiva a coloro, credenti e non credenti, che lavorano per un mutamento culturale che ha come fine la pace. Ci incoraggia a pensare che ciò che pare impossibile sia invece possibile.
Un’altra vittima delle guerre, in particolare di questa ultima che è documentata mediatamente in ogni istante, è la verità. I massacri, le fosse comuni, le devastazioni sono imputate contemporaneamente all’aggressore e all’aggredito. I medesimi fatti, sotto gli occhi di tutti, hanno una narrazione diametralmente opposta. Il risultato è che non esiste una verità, ma tante versioni della verità. Come è possibile, in questa stordente infodemia, ristabilire il principio della “verità vera”, vale a dire dell’oggettività dei fatti e dell’assegnazione delle relative responsabilità?
Il rapporto stretto fra politica e menzogna, già noto a Platone, diventa ancor più stretto quando la politica lascia il posto alla guerra. Su questo Hannah Arendt ha scritto testi importanti: la menzogna e la propaganda sono potentissime armi di guerra e contribuiscono a rinfocolarla. Quello che mi colpisce oggi, però, non è solo l’eccesso di informazioni che impedisce di distinguere le fake news dalle verità fattuali, ma anche e soprattutto la spettacolarizzazione della guerra, trasformata in un teatro violento per il dibattito televisivo e il divertimento degli utenti. Sui social, ovviamente, la situazione è ancora peggiore. Se ne ricava un’impressione di irrealtà e naturalmente una confusione mentale che non distingue i fatti dalle finzioni.
Vorrei concludere questa intervista in una prospettiva di speranza. Le chiedo: che cosa concretamente ognuno di noi può fare per opporsi alla barbarie della guerra e per avere (uso ancora una volta le parole del Papa) “il coraggio di costruire la pace”?
Il coraggio di costruire la pace è già un gesto importante per il mutamento culturale di cui parlavo e in cui mi impegno da decenni. Intendo dire che il contrario di questo coraggio è proprio la convinzione, per così dire realistica, che la guerra appartenga alle pulsioni distruttive dell’uomo e sia perciò inevitabile. C’è sempre stata guerra e sempre ci sarà: questo è il cinismo di chi non può darsi il coraggio di costruire la pace. A rischio di sembrare folli o ingenui dobbiamo invece dire: c’è sempre stata guerra ma, se lavoriamo con coraggio a un mutamento culturale profondo, più non ci sarà. È un lavoro per me e per lei, per chiunque abbia coraggio, ma durerà, temo, il tempo di alcune generazioni.
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