Eneide: Venere vs Giunone
Le due dee che si confrontano e scontrano nell’Eneide sono Giunone, moglie di Giove e acerrima nemica dei Troiani e Venere, dea della bellezza e dell’amore, madre di Enea. La scena che mi piace portare alla vostra attenzione è quella in cui Venere convince Vulcano, suo marito, a forgiare delle armi divine per il figlio Enea. L’episodio si situa nel libro VIII, dal verso 370 in avanti. Venere seduce Vulcano in una scena divertente ed erotica allo stesso momento, promettendo gioie amorose con tono languido mentre chiede l’aiuto del marito. Imperdibile! Per il resto Venere si presenta nell’Eneide come una madre premurosa. Segue il figlio, lo protegge (come già nell’Iliade), lo illumina nelle situazioni difficili. Addirittura ad un certo punto dice a Giove: se hai deciso di far morire Enea, fai pure. Ma lasciami suo figlio, Ascanio-Iulo, di cui mi occuperò personalmente. Venere è una madre della vita, la Madre che prosegue nelle generazioni, che si prende cura del futuro nella forma dei figli. Giunone è schiava del ruolo affibbiatole dai Greci, quando ancora si chiamava Era: donna gelosa e rancorosa, tramatrice di inganni. Si dice che questo ruolo (oltre a quello di moglie tradita e gelosa del padre degli dei, Zeus) le sia stato attribuito nel passaggio dal matriarcato a quello del patriarcato, trasformandola da Grande Dea Madre a Moglie del Padre e togliendole quel potere misterioso e indistinto che la caratterizzava. Nell’Eneide troviamo solo questo aspetto di donna ferita e incattivita, decisa a opporsi al volere dei fati (un po’ come Poseidone nell’Odissea con il suo contrapporsi al ritorno a Itaca di Ulisse). Peccato, perché l’autorevolezza femminile che emana da questa dea si percepisce anche così, e rimane un potenziale inespresso. Potere sommerso e ribollente.
Andreas Barella
Riveder le Stelle
Andrea Della Neve, una delle Muse, ha appena pubblicato il seguente articolo-recensione. Tenetevi pronti per il Festival di Arzo, ne vale la pena! Buona lettura!
Il Festival Internazionale di Narrazione di Arzo. Da alcuni anni, quattordici, v’è un paesino di montagna che con un’umiltà non descrivibile s’è consapevolmente messo a disposizione per dare il suo tangibile contributo a una delle più importanti missioni d’ogni uomo: seminare parole, racconti. Farli passare di bocca in bocca, condividerli, viverli, farli risuonare nelle viscere affinché si tramandino nei secoli. Non c’è via più sicura di quella orale. Non v’è carta, incisione su pietra o terabyte aleggiante nei server che tenga: quel che di più importante è arrivato dai millenni che c’hanno preceduto sino alle nostre orecchie, sino ai nostri cuori desiderosi, sono racconti tramandati da persona a persona, da padre a bambino, da vita a vita, talmente potenti da sentirsi implodere quando ingabbiati dalla scrittura. È quella potenza a farli riecheggiare oggi. Ora.
Grazie alla passione dei suoi volontari, il Festival Internazionale di Narrazione di Arzo quest’anno ci sta regalando una trilogia che fa da ponte verso il festival stesso, che ci accompagna a sciogliere i ghiacci del recente lungo inverno sino al calore dei quattro giorni “di qui e d’altrove” che vivremo dal prossimo 29 agosto (www.festivaldinarrazione.ch).
La Trilogia della spiritualità, di e con Lucilla Giagnoni. Con un lavoro di ricerca durato undic’anni, Lucilla Giagnoni ha completato tre spettacoli che si distinguono per la sintonia tra il contenuto della narrazione e i luoghi scelti per presentarla. Ecco perché il primo spettacolo, “Big Bang”, un’indagine sugli inizi e sulla creazione che intreccia il linguaggio della scienza con quello della teologia e del teatro, è stato presentato lo scorso mese d’aprile nella Chiesa dei Cappuccini a Mendrisio.
A fine maggio abbiamo avuto l’occasione di vivere il secondo appuntamento, “Vergine Madre”, nella Chiesa di San Giuseppe a Ligornetto. Su quest’ultimo ci soffermiamo.
“Vergine Madre” Dicevamo in apertura di parole incantatorie che travalicano i secoli, eternamente ripetute come le preghiere. Così è per la Commedia di Dante. Lo spettacolo rievoca il percorso di salvezza per eccellenza, dal buio degli inferi alla luce delle stelle. Con la peculiarità che a narrar quei versi è una donna, “…perché più spesso sono le donne a pronunciare, senza mediazioni, il desiderio di pace. Sheherazade si salva “raccontando”. E perché sicuramente l’anima ha una voce femminile”, dice la stessa Giagnoni. La quale, non può essere un caso, porta un nome tra i più luminosi.
“Vergine Madre” è uno spettacolo al termine del quale non si fanno i complimenti all’attrice.
La si ringrazia.
È un Grazie che sgorga spontaneo da quella parte di noi che ha l’esigenza di scoprire, conoscere, ritrovare. Quella parte che si rifiuta di “viver come bruti”.
Compito dell’artista è intuire e mostrare la via di fuga, la porta d’uscita dall’Inferno, la salvezza. Lucilla si rivela un’ottima traghettatrice per lo spettatore. Lo porterà attraverso la selva oscura ricordandogli che viaggiare non è soltanto contemplare paesaggi pittoreschi. Viaggiare è soprattutto fare incontri, incontri con persone che ti cambiano la vita. L’importante è non rimanere soli. “Guai a chi è solo, perché quando cade non ha nessuno che lo rialzi”.
Ogni pensiero espresso nello spettacolo meriterebbe un capitolo, un momento in cui ascoltarlo intimamente e scoprire come risuona dentro noi. Il viaggio allegorico di Dante ha più di 700 anni e…è attualissimo. Sin dal primo canto lascia intuire concetti di cui dobbiamo urgentemente riappropriarci: la capacità di chiedere aiuto (come fa Dante quando intravede Virgilio), l’importanza d’una guida, il riconoscimento dei limiti che anche le guide hanno e il fatto che devono avere una guida a loro volta. Nel nostro lavoro di educatori/accompagnatori, queste riflessioni riecheggiano prepotentemente.
Verso il Paradiso. “Per salire, bisogna prima scendere. Bisogna conoscere fino in fondo l’Inferno; solo chi l’ha attraversato, ce l’ha negli occhi, è tornato indietro e lo sa raccontare, può ritrovare la propria umanità”.
Dante è ai piedi del colle, ha da poco intuito la direzione da prendere per arrivare alla luce e la sua paura si quieta. Ma subito dopo una lonza, poi un leone ed una lupa gli si pareranno dinnanzi, inducendolo a rinunciare. Tre fiere, tre bestie feroci lo circondano.
L’attrice esorta una domanda: quali saranno le nostre tre fiere?
I suoi personali incontri all’Inferno sono con La Donna (Francesca, V canto), l’Uomo (Ulisse, XXVI canto), il Padre (Ugolino, XXXIII canto). Tutti all’Inferno per riconoscibili responsabilità, ed in egual modo meritevoli di pietà per la condizione di “prigionieri” patita nella vita terrena. Francesca, prigioniera di quella torre, prigioniera di un matrimonio che non voleva; soprattutto prigioniera di se stessa, dei suoi sensi. Ulisse, prigioniero di una guerra che non avrebbe voluto combattere (quella di Troia), prigioniero di donne che non avrebbe voluto amare (la Maga Circe, Calypso); prigioniero di se stesso, della propria smisurata ambizione. Infine Ugolino, prigioniero di fatto nella Torre dei Gualandi, oltre che prigioniero di se stesso, della sua sanguinaria tirannia. Da questi incontri la Giagnoni s’addentra nella complessa domanda del perché l’uomo tradisce, e azzarda una risposta: perché vuole conoscere la propria identità. Per fare questo deve separarsi dal Tutto, dalla pienezza dell’Essere; deve tradire Dio, il Tempo, il Mondo e la Natura.
Dopo aver incontrato la Donna, l’Uomo e il Padre, ecco che in Paradiso Lucilla completa il disegno di una famiglia, incontrando la Bambina (Piccarda, III canto) e la Madre (Vergine Madre, XXXIII canto). Di fronte allo stupore dantesco nella scoperta che anche il Paradiso è “diviso in cieli” e al sospetto che esistano di conseguenza livelli diversi di felicità, Piccarda ride. Sì, ride, perché in Paradiso tutti godono della Perfetta Felicità, una felicità intensissima, quella felicità che abbiamo già conosciuto…
…Per rievocarla occorre tornare bambini, piccoli piccoli, quando ci sembrava che i momenti di felicità fossero eterni, senza progetti, senza strategie, senza futuro… Felici, semplicemente perché “c’è la mamma!”, perché una sola cosa vogliono i bambini: l’Amore. E Piccarda è ancora una bambina. Una bambina che ha saputo uscire dall’Inferno, una bambina che ha saputo pregare. È a questo punto che l’attrice e drammaturga accosta a quelle di Dante le parole di Italo Calvino. La conclusione delle sue “Città Invisibili”, in cui spiega che vi sono due modi per uscire dall’Inferno. Uno facilissimo, che riesce a tutti: diventare Inferno. Adeguarsi all’Inferno fino a non riconoscerlo più e quindi non soffrirne. L’altro richiede cura e attenzioni quotidiane, ed è
“…Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’Inferno, non è Inferno, e farlo durare, e dargli spazio”“Questo per me è pregare”, dice l’attrice con gli occhi emozionati.
Ed è con una preghiera che finisce il Viaggio.
Una preghiera fatta alla figura umana più alta e più vicina a Dio.
Una figura che riscatta tutta l’umanità, che riesce, proprio perché donna, a trovare una soluzione possibile, a conciliare tutti gli opposti, a tenere insieme tutti i contrari: la Vergine Madre, figlia di suo figlio.
Una donna è Santa quando è vergine, poi è Santa quando è madre.
Lucilla suggerisce che tra queste due santità, c’è il bello della vita.
La Vergine Madre comprende anche questo. È Vita Vera, è Amore.
Quell’Amore che “…move il sole e l’altre stelle”.
(L’ultimo spettacolo della Trilogia, “Apocalisse”, aprirà la XIV edizione del Festival di narrazione giovedì 29 agosto, ore 21.30, alle cave di marmo di Arzo)
Andrea Della Neve
(Tratto da Semi di bene, Rivista illustrata della Svizzera italiana pubblicata dalla Fondazione OTAF, giugno 2013)
Eneide: Turno il re guerriero
Il pio Enea sbarca finalmente alla foce del Tevere, dove i fati gli hanno comunicato che si compirà il suo destino, dove getterà le fondamenta di un nuovo grande impero, dove seminerà il seme troiano che germoglierà nell’impero romano. Ma il Lazio non è disabitato, è popolato da parecchi popoli tra cui è abbastanza difficile districarsi. I due popoli che ci interessano qui, volendo parlare di Turno sono i Latini, il cui re si chiama Latino (logico, no?) e la cui città capitale è Laurentum, e Turno, giovane re dei Rùtuli che vivono al di là del fiume Numico (difficile da capire dove si trovi) nella città di Ardea. Ora, Latino ha una figlia, Lavinia, e questa figlia è mezza promessa a Turno, soprattutto per insistenza della madre di lei, la regina Amata (bel nome!), che è in perenne ammirazione (e forse anche un po’ innamorata) del futuro genero. Quando Latino, seguendo un oracolo, acconsente a promettere ad Enea la mano della figlia, cominciano i guai e scoppia la guerra tra Troiani e Latini-Rùtuli. Naturalmente c’è anche lo zampino di Giunone in questa guerra, ma di questo parleremo un’altra volta. Il nostro Turno è un giovane re pronto a guerreggiare, pronto a dimostrare la forza della sua giovinezza sul campo di battaglia. E Giunone soffia su questo fuoco, istiga il giovane a combattere per riconquistare Lavinia. Da questo punto in avanti, Turno si trasforma in una macchina per uccidere, istigato e guidato dalle mani di dee, delle Furie, delle Ninfe. Poveretto, non sembra in grado di compiere le sue battaglie da solo, sempre viene animato o salvato da forze divine. E quando queste lo abbandonano, quando vede svolazzare una civetta attorno al suo capo, capisce che la fine è vicina e lascia cadere le armi invocando pietà di fronte ad Enea. E muore, ultima delle giovani vittime che la guerra del Lazio comporta: “a quello si dissolve il corpo nel gelo e la vita con un gemito fugge indignata tra le ombre.” Sono le ultime, conclusive, parole del poema. Ma prima di morire, Turno manda fra le ombre stuoli di giovani e meno giovani, con una ferocia e una furia guerriera degna di Ettore o di Achille. Di nuovo la gioventù di un popolo guerriero, la vita al servizio della gloria e del furore delle armi. Molti padri malediranno il loro sopravvivere ai loro figli, che nel poema compaiono e sono nominati solo per essere uccisi da Turno (o da Enea, suo alter-ego sul campo da battaglia). Destinato a morire dai fati, il giovane Turno è il classico esempio della forza della gioventù che ignora il pericolo e insegue la gloria. Non per il bene del suo popolo, non per riconquistare Lavinia, non per sconfiggere Enea. Per combattere, per vivere e morire con l’ansia guerriera, con la forza divina che questa dona. Leggere della sua vita, delle sue battaglie, delle sue stragi e, alla fine, della sua morte, riempie di commozione perché lo si vede preda di un furore più grande di lui, che alberga nel suo corpo atletico e riluce nelle sue splendide armi. Chissà quale ricchezza sarebbe sbocciata da questo giovane re coraggioso, se non si fosse consumato sul campo di battaglia…
Andreas Barella
L’Eneide, quale versione leggere?
Un amico mi chiede in che versione leggere l’Eneide. Le versioni erudite sono molte, negli ultimi anni ne sono uscite almeno una decina. Quale leggere? Il mio consiglio è di recarsi in biblioteca o in libreria e sfogliarle prima di scegliere quella che vi piace di più, tenendo conto di stile, quantità di note a piè di pagina (se si legge per piacere possono disturbare più di quanto aiutino) o a fine capitolo, introduzione e commenti. Assolutamente necessario è, secondo me, avere il testo latino a fronte, anche se non si conosce bene la lingua degli antichi romani. È molto bello andare a leggere alcune espressioni e a cercare di costruire la grammatica latina. Per chi invece vuole un testo scorrevolissimo con brevi introduzioni a inizio canto e una traduzione in linguaggio (a volte fin troppo) comune può orientarsi sul libro di Vittorio Sermonti (ricordate? Aveva commentato nello stesso modo la Divina Commedia di Dante), “L’Eneide di Virgilio” edito da Rizzoli.
Andreas Barella (2008)