Estasi – Quando Dioniso giunse a Tebe – FOTOGALLERY

Estasi – Quando Dioniso giunse a Tebe – FOTOGALLERY

Nel corso degli anni, sono state diverse le persone che si sono avvicendate per mettere in scena il nostro “Estasi – Quando Dioniso giunse a Tebe“. Questa pagina vuol rendere omaggio a tutti questi esseri umani che hanno prestato il loro corpo, i loro sentimenti e le loro  emozioni ai personaggi mitologici di questa storia.

Cosa facciamo noi de La Voce delle Muse

Dioniso: Dioniso e Penteo

Dioniso (Andrea Della Neve) si confronta con Penteo (Max Zatta)

Dioniso: Penteo e Semele

Penteo (Max Zatta) e Semele (Alice Pavan) durante una pausa

Dioniso: Agave

Agave compiange Penteo defunto (Margherita Schoch)

Dioniso: Penteo

Penteo  si prepara a combattere Dioniso (Luca Banzatti)

Semele nel regno dei morti

Semele nel regno dei morti (Valentina Cattaneo Grignoli)

Dioniso: Semele e Penteo

Semele (Elena Casabianca) e Penteo (Mauro Biancaniello)

Recensione a “Il mio nome è Nessuno” di Valerio Massimo Manfredi

Recensione a “Il mio nome è Nessuno” di Valerio Massimo Manfredi

downloadUn’amante della mitologia come me non poteva lasciarsi sfuggire il romanzo “Il mio nome è Nessuno – Il ritorno” di Valerio Massimo Manfredi, uscito per Mondadori un anno dopo la prima parte di questo dittico romanzesco, intitolata “Il mio nome è Nessuno – Il giuramento”. Se nel primo volume Manfredi ripercorre le esperienze di Ulisse a partire dall’infanzia e fino alla fine della guerra di Troia, nel secondo narra invece il viaggio di ritorno del re di Itaca da Troia fino alla sua isola. Viaggio che, come noto, dura dieci anni e contempla numerose e svariate avventure. Non riassumerò la vicenda, ai più nota, ma volevo spendere alcune parole sull’esperimento di Manfredi di rinarrare il mito di Ulisse-Odisseo.

Manfredi fa quello che ogni lettore dell’Odissea (e dell’Iliade) fa nella sua testa e nel suo cuore quando si immerge davvero nei testi di Omero: costella nella sua esperienza personale gli archetipi che le due epiche contengono e fanno danzare nella psiche di chi le ascolta (o legge). Manfredi lo fa nel suo modo personale: come già in altri suoi romanzi, per dare un tocco esotico alle vicende cambia leggermente i nomi dei personaggi (Kirke invece di Circe, Odysseo invece di Odisseo, e così via) e intesse la vicenda di Ulisse con quelle di altri personaggi di suoi romanzi (Diomede, per esempio, o il destino del Palladio). E soprattutto, colma il racconto con quello che possiamo definire l’”inchiostro bianco”, vale a dire quelle parti che il lettore immagina, gli spazi vuoti tra una frase e l’altra, le frasi non dette, i sentimenti non espressi, i dubbi che restano tali nella mente dei personaggi e del lettore. Come è giusto che sia, Manfredi spiega, interpreta, aggiunge pensieri e interpretazioni e dolori espressi dalla voce in prima persona di Ulisse. A volte suggerisce interpretazioni interessanti, e si ha la percezione che l’Ulisse che parla tramite Manfredi, parli la voce del ventunesimo secolo ed esprima dubbi e paure proprie del nostro tempo. Quando questo accade la lettura si fa interessante e ricca di spunti sui quali riflettere. A volte quando invece Manfredi tenta di descrivere dubbi e problemi che immagina dei greci antichi, e lo fa usando un linguaggio che scimmiotta un po’ quello di Omero, ecco che, secondo me, la voce di Manfredi si fa meno interessante. Anche la lunga parte finale, in cui l’Autore descrive l’ultimo viaggio di Ulisse (non quello dantesco descritto nella Divina Commedia!), viaggio profetizzato da Tiresia e in cui Ulisse dovrà andare alla ricerca del perdono da parte di Poseidone, sembra più un’epica da fumetto americano con il protagonista preda di dubbi esistenziali, che un’epopea mitologica.

Se la mitologia adempie al suo scopo, parla ai lettori-ascoltatori di cose importanti per loro, nel momento in cui vengono lette e lasciate danzare nella psiche. Il compito del mito è proprio questo: rimanere vago e interpretabile per continuare a sussurrare quello che la nostra interiorità ha bisogno di sentire e di elaborare. E deve farlo in modo ricco e pieno di significati simbolici assodati e che hanno funzionato per generazioni di esseri umani. Per questo motivo, il libro di Manfredi è parziale e ci racconta UNA versione, UNA visione del ricco mondo omerico. Al lettore giudicare se vale la pena affidarsi all’interpretazione di una persona singola o se affidarsi al ricco e simbolico linguaggio di Omero, e colmare personalmente gli spazi lacunosi della vicenda, soffrendo in modo personale e per motivi diversi quando Ulisse piange ma non spiega perché. Io ho letto volentieri il libro di Manfredi, come se fosse (e lo è) una variante su di un tema conosciuto, che è l’opera di Omero in versione originale. Se però non avete mai letto l’Odissea e pensate di approcciarvi al poema che è alla base della nostra cultura e civiltà, allora il mio suggerimento è quello di cominciare dall’originale. Per esempio nella leggibilissima versione in prosa a cura di Maria Grazia Ciani ed edito da Marsilio. Buona scoperta o riscoperta delle avventure di Ulisse, l’uomo dalla mente colorata.

Andreas

Manfredi, Valerio Massimo.  Il mio nome è Nessuno – Il Ritorno.  Milano: Mondadori, 2013.
Omero.  Odissea.  A cura di Maria Grazia Ciani.  Venezia: Marsilio, 1994.
Manfredi, Valerio Massimo.  Il mio nome è Nessuno – La Promessa.  Milano: Mondadori, 2012.

Cosa facciamo noi de La Voce delle Muse

Recensione a “Le Stanze del Silenzio” di Mariavittoria Antico Gallina

Recensione a “Le Stanze del Silenzio” di Mariavittoria Antico Gallina

download (2)È sempre voyeuristico leggere del dolore altrui. E non è facile neppure parlare del dolore di un’altra persona. Se lo si fa razionalmente, con la testa, si risulta supponenti o professionalmente distaccati: si rischia di descrivere le fasi cliniche attraverso le quali passa la persona che ha subito la perdita, si propongono consigli o fatti statistici. Se lo si fa con il cuore, se si parla senza essere distaccati, paragonando i propri dolori a quelli dell’altro, e con-patendo (soffrendo con) l’altra persona, ecco che le parole si bloccano e si piange, in silenzio o sonoramente. E se si cerca di commentare il lutto con la pancia, con l’istinto, ecco che la reazione diviene quella di fuga o di rifiuto di una realtà – la morte – che ci atterrisce.

La morte. Ogni discorso su questa “fase di passaggio” (per chi resta e forse, a dipendenza delle credenze religiose, anche di chi è deceduto) porta a confrontarsi con quel “Mysterium tremenum et fascinans” che è la vita e che si basa proprio sul succedersi di esistenze che si nutrono di altre vite (vegetali, animali). Una situazione che la nostra cultura ha cercato di mitigare, di nascondere, di edulcorare, ma che nel momento del lutto, torna a mostrarsi in tutta la sua fiera brutalità. E quando la morte ci viene a visitare, quando si porta via una persona a noi cara, dobbiamo per forza scendere a patti con il nostro dolore e con la fase di vuoto che si presenta – sterminata – sul nostro cammino terreno. È proprio il racconto della straziante fase di lutto causata dalla scomparsa dell’amatissimo marito Enrico che ci narra Mariavittoria Antico Gallina nel suo “Le Stanze del Silenzio”, volume edito da Giancarlo Zedde Editore nel 2009.

Il percorso spirituale della Prof. Antico Gallina si snoda tra le pagine del volume e passa attraverso diverse fasi, nel corso del lutto: inizia con una negazione iniziale della possibilità di un ricongiungimento futuro: “E se non ti trovassi là dove tutti credono, come credevo anch’io, che debbano giungere le anime? Se fosse tutto un grande bluff? Se mi illudessi a tal punto da vivere nell’attesa di quel giorno, quel mio ultimo giorno, nella speranza che sia il primo giorno con te in una nuova, sconosciuta dimensione?” (pag. 19). Il dubbio è legittimo, figlio dell’evento traumatico della morte del marito e diviene porta d’ingresso di una fase nella quale le certezze, anche quelle legate alla spiritualità, sono andate perdute. Per sempre? Momentaneamente? Lo scopriremo nel corso della lettura. Il numinoso, la parte ultraterrena, scompare per l’Autrice, assorbita dall’esperienza del confronto con la finitudine terrestre e umana: “Il credente vede in questa eternità la vera vita, come già la prima cristianità vedeva nel giorno della morte il dies natalis, il giorno della “nascita”. Io vedo una eternità tutta terrena, rotta solo, temo, dalla volontà degli uomini, così come l’archeologo rompe il silenzio di una sepoltura dopo secoli e secoli di una immobilità che avrebbe potuto essere, appunto senza fine.” (21)

Addirittura l’Autrice mette in dubbio, certo con una similitudine, ma poco importa, il senso del suo lavoro e della sua passione, l’Archeologia. L’impressione che il lettore si fa è quella che l’Autrice stia soppesando e giudicando ogni scelta compiuta in passato: la vita professionale diviene un disturbare cose che andrebbero lasciate nascoste sotto il peso dei secoli, e la vita ultraterrena e la spiritualità sono solo vecchi e polverosi orpelli privi di utilità. Eppure la Prof. Antico Gallina continua a interrogarsi sui temi spirituali: “Mi hai abbandonato, Signore? Stai punendo la mia incredulità? […] Mi sto punendo con le mie mani? Mi sto torturando perché voglio torturarmi?” (23) Interessante notare come si passi continuamente da una visione (critica) cosmica a un interrogarsi sul proprio vissuto spirituale, chiaro segnale di una crisi che scuote fino nel profondo ogni certezza. Un meccanismo valido per separare la pula dal grano, per capire cosa ha ancora senso e cosa invece va gettato come involucro privo ormai di senso. E la spiritualità, il rapporto con il Divino sembra essere ormai sprovvisto di quel significato che potrebbe dar conforto nel mondo ormai povero di senso nel quale si ritrova l’Autrice.

Dio rimane però spesso e volentieri interlocutore privilegiato per l’Autrice: “Si può vivere anche così, Dio? Anche senza il compagno che ho amato infinitamente e che amo? Tu credi che sia possibile? Forse!” (25) Interessante quel “Forse!” seguito dalla forza e dalle risorse personali contenute in quel punto esclamativo: quasi un grido di speranza, un guizzo vitale che lascia ben sperare per il futuro della discesa nel regno della tristezza che compiamo in questo libro accompagnando Mariavittoria Antico Gallina. “Per chi non ha una salda fede la morte è un confine fra noto e ignoto che fa orrore!” Il Dio invocato durante la malattia del marito è, in qualche modo, ritenuto almeno in parte responsabile della morte del consorte: “Invocavo il Suo aiuto per lui, la Sua vicinanza, la Sua mano, il Suo intervento.” (49) L’intervento miracoloso purtroppo non avviene, contribuendo così, forse, all’inizio di una crisi piena di legittimi dubbi, più su se stessa e sul proprio modo di intendere e vivere la fede che sulla spiritualità in quanto tale. Un percorso, anche questo, di crescita, un tentativo di passare a un livello diverso di rapporto con il divino, con il mistero della vita e della morte.

A un certo punto della sua “emergenza spirituale” la Prof. Antico Gallina scopre che è il momento di andare, in qualche modo, oltre il passato e di esplorare nuove vie. “Ho voglia di perdonare!” (79). Quale modo migliore che cancellare con una spugna i torti subiti, permettendosi di affrontare situazioni e persone con quel candore innocente e pieno di carezze e di abbracci che caratterizza la prima scoperta dei rapporti umani e della bellezza del mondo, quando ancora bambini o adolescenti ci affacciamo alla scoperta dell’”altro”. E comincia perdonando se stessa, poi gli altri, poi le ingiustizie del mondo. E, in questo modo, si permette anche la possibilità di un rapporto nuovo con lo spirito, con il trascendente. Un rapporto vero, che pulsa della propria esperienza di dolore nel quale ancora si trova. Per risalire la china, l’Autrice utilizza lo straordinario strumento della scrittura: scrive di sé, ricorda il marito, narra molte fasi della vita dei figli, in un arioso affresco che le permette, partendo dal proprio centro di dolore, di andare nella direzione del mondo. Dal centro chiuso e protetto del dolore all’apertura del mondo che attorno pulsa della vita che si riaccende grazie ai ricordi e alla bellezza delle immagini che rivivono grazie alla parola e al ricordo. Che non è sterile rimembranza: è intessere, immagini, suoni, trame di vita e di sensazioni fisiche con il momento di dolore per creare il tessuto della vita che ancora deve venire, che ci si creda oppure no.

La scomparsa di una persona amata è una fase di passaggio, dicevamo. Come le altre, che la Prof. Antico Gallina ben descrive nel suo libro: l’innamoramento, il matrimonio, la nascita dei figli e poi la loro partenza dal nido familiare. Tutte fasi che, nella nostra società sono state abbandonate a se stesse, non hanno più un ruolo centrale nella vita della cultura e del gruppo. Questo vivere senza segnalare culturalmente le fasi di passaggio rende più difficoltoso per ognuno di noi il dovercisi confrontare, perché ogni volta dobbiamo costruire nuovi strumenti per affrontare la situazione. Gli antichi miti ci possono dare una mano per comprendere quali potrebbero essere delle strade percorribili anche per noi esseri umani del 21° secolo. Vediamone qualcuno.

Nell’antichità il mondo infero era presieduto da Ade, il dio oscuro e temibile che non si poteva neppure nominare. Spesso ci si riferiva a lui come a Plutone, il copioso, il generoso. E veniva rappresentato con in braccio una cornucopia traboccante di frutti e fiori. Il dio della morte era visto come una divinità generosa e fonte di ricchezza. Dal profondo del suo regno potevano giungere, per gli Antichi, dei doni inaspettati che sgorgano dalla notte più buia, quando la luce sembra essere stata definitivamente sconfitta dalle tenebre. Non ha senso, come fa Orfeo con la giovane moglie Euridice morta per il morso di un serpente, scendere nel regno dei morti alla ricerca della persona amata con lo scopo di riportarla sulla terra. Le regole dell’universo lo vietano e neppure gli dèi vi si possono opporre. Orfeo fallisce nella sua missione in quanto fa affidamento sulle sue capacità terrene, seppur straordinarie, di musicista, senza considerare la totale alterità del mondo in cui si addentra. Un aldilà che risponde a regole diverse e che lui non accetta, sancendo la sua stessa morte per mano di un gruppo di Menadi. La Prof. Antico Gallina non cade nello stesso errore di Orfeo ed esplora nel suo “diario” tutta una serie di risorse per sopravvivere emotivamente e psicologicamente alla scomparsa di Enrico, suo marito, l’uomo della sua vita: la preghiera, il silenzio, la scrittura, la serietà e la crescita personale, il rapporto con il tempo passato e quello presente, il confronto con il concetto di eternità, di perfezione e di limiti. E lo fa passando attraverso la disperazione, il rifiuto di strumenti che non le appartengono (più) come la preghiera e la fede, salvo poi trovare la sua definizione personale e di nuovo viva del mondo spirituale. Insomma, come dicevo prima, la perfetta descrizione di una fase di passaggio, di un’”emergenza spirituale” che presenta sia la possibilità di frantumarsi nel dolore sia la opportunità di trovare un modo adatto per entrare in una fase diversa dell’esistenza. Diversa e non “nuova” perché, nella parole della Prof. Antico Gallina: “Non si può più parlare di nuovo, una connotazione positiva che non mi interessa.”

E poi, quando l’Oscura Notte dell’Anima sembra non avere più fine, ecco che d’improvviso, la bellezza della vita fa capolino e prende il sopravvento, di soppiatto, in un mattino di primavera. “Alzi gli occhi al cielo, terso azzurro, immobile; osservi il fogliame fresco, leggero, trasparente; inspiri le fragranze che si spandono in questa primavera diversa, unica, la prima senza il tuo compagno, eppure ugualmente primavera, con prati e arbusti che si risvegliano. Dio, che bello il tuo mondo.” (131) Ed eccola che riemerge attraverso la bellezza del Creato, anche la Spiritualità, quella che fa levare le lodi indirizzandole verso qualcosa di più grande di noi, di non completamente comprensibile con la ragione, ma che possiamo sentire vibrare nella pancia e rimbombare nel cuore. Non nasce dal nulla, come si potrebbe pensare, è un parto caratterizzato dal lungo travaglio doloroso attraverso il quale è passata l’Autrice: la spiritualità nasce dalle domande, dai dubbi, dalla crisi.

Sembra un libro sul lutto questo “Le Stanze del Silenzio” di Mariavittoria Antico Gallina, ma è un libro d’amore. D’amore per la vita e per il ricordo che non è sterile testimonianza del passato ma fecondo seme per il futuro, per la vita che, benché si nutra di altre vite, resta sempre un mistero affascinante e fonte di aspettativa. E un luogo dove la spiritualità, il senso numinoso degli accadimenti e delle esperienze che la Vita ci mette sul percorso, rimangono sempre fonte di meraviglia, anche quando sono dolorose. Una lettura consigliata a tutte quelle persone che si trovano a dover affrontare lo stesso viaggio attraverso i bui meandri della tristezza causata da un lutto. Ma non solo: anche i lettori che stanno attraversando una fase di passaggio, che si confrontano con una emergenza spirituale, troveranno nelle pagine di Mariavittoria Antico Gallina, anche nelle pagine più dure, più tristi, più buie, un’incessante energia che ricerca, che spinge a non arrendersi ma a rimanere, magari fermi, magari in attesa, con lo sguardo rivolto verso la grandezza dello spirito e del mistero della vita. Andreas Barella

Mariavittoria Antico Gallina, Le Stanze del Silenzio, Giancarlo Zedde Editore, 2010.

Qui trovate la rivista sulla quale a pagina 25 è stato pubblicata la recensione: Laborcare Journal, n°8 2014

Come narravano gli antichi rapsodi? E quelli moderni?

Come narravano gli antichi rapsodi? E quelli moderni?

Il rapsodo canta, lo spettatore ascolta e piangeLeggendo il libro L’arte di ricordare tutto di Joshua Foer (libro che parla di tutt’altro, in realtà!), mi sono imbattuto nella seguente notizia che mi ha fatto pensare e che voglio condividere con voi visto che ha a che fare con il nostro lavoro di narratori di miti. I rapsodi balcanici odierni (e probabilmente anche i loro predecessori omerici) non trasmettono di bardo in bardo, di generazione in generazione, i testi che narrano oralmente. Comunicano soltanto una serie di regole e di vincoli che consentono al rapsodo di ricostruire il poema ogni volta che lo recita. Le storie, i miti, quindi non vengono mai narrati in maniera esattamente uguale, ma sempre in modo leggermente diverso. Interessante notare però, che quando si chiede ai bardi balcanici se riproducono con fedeltà quanto tramandato dalla tradizione, la risposta è sempre la stessa: “Certo, io tramando lo stesso canto, parola per parola, verso per verso.” Mettendo a confronto le registrazioni di due performances, però si scopre che le differenze, come naturale, ci sono. Le parole non sono le stesse, i versi cambiano di posto, certi brani vengono saltati, altri aggiunti.

E quindi? Quindi possiamo affermare che i narratori orali non riconoscono il concetto di ripetizione letterale.  La variabilità, caratteristica insita nella poesia delle tradizioni orali, consente al bardo di adattare il materiale al pubblico presente e permette l’emergere di nuove versioni più facili da ricordare. Le digressioni non pertinenti vengono tralasciate, le parole troppo lunghe o troppo rare evitate. E, nonostante questo, il mito narrato viene considerato dai rapsodi come fedele a se stesso e all’arte poetica. Cosa vuol dire per noi appassionati di mitologia e narratori orali di queste antiche storie? Vuol forse dire che la letteralità dei testi non è tutto (come sa bene chiunque abbia narrato una storia… anche se poi ci sono dei pezzi di miti che vanno raccontati sempre allo stesso modo, come per esempio la scena di Odisseo e il Ciclope e il gioco con il nome Nessuno), che il rapporto con il pubblico che ascolta è parte integrante del mito narrato, che il mito ci viene consegnato da chi lo ha narrato prima di noi ma che non è definitivo, che va di nuovo fatto vivere e crescere per permettergli di far danzare la psiche degli ascoltatori (e dei narratori… mica che quando narriamo rimaniamo indifferenti… il mito lavora anche su di noi!). Potremmo affermare che il mito viene passato di mano in “versione archetipica” e che il narratore lo deve declinare in “versione costellata sulla terra”, vale a dire che lo deve adattare alle condizioni particolari in cui lo narra. Devo dire che queste cose mi riempiono di gioia e anche mi angosciano un po’: siamo in grado di raccogliere la sfida di far di nuovo danzare le storie mitologiche nella vita delle persone? E seguendo quali regole e vincoli? In che modo abbiamo ricevuto queste storie da chi ci ha preceduto? Come le possiamo “sviluppare” lasciandole fedeli a loro stesse, ai secoli e alle esigenze psichiche che le hanno forgiate?

Una risposta interessante viene da una lettura particolare del significato di “memoria”. La memoria, dice Foer nel suo libro, è un procedimento che utilizza soprattutto la fantasia. L’apprendimento, la memoria e la creatività sono, di fatto, il medesimo processo seppur orientato a scopi diversi. L’arte e la scienza della memoria sono il potenziamento della capacità di creare rapidamente immagini in grado di collegare le idee più disparate. La creatività è l’abilità di formare connessioni analoghe tra immagini differenti per creare qualcosa di nuovo e proiettarlo nel futuro perché diventi una poesia, un palazzo, un ballo, un romanzo. In un certo senso, la creatività è la memoria del futuro. Se l’essenza della memoria è creare legami tra idee e fatti eterogenei, maggiore è la facilità con cui una persona crea associazioni e più numerosi sono i fatti e le idee che ha a disposizione, più è probabile che sviluppi nuovi pensieri. D’altra parte Mnemosine, dea della memoria, è la Madre di tutte le Muse! Per questo è importante continuare a leggere di Miti, a collegarli uno con l’altro, a raccontarli alle platee più disparate, di adulti, di bambini, di persone pronte a mettersi in discussione e a crescere. E proprio questo continueremo a fare!

Andreas

(Pensieri sviluppati leggendo il libro di Joshua Foer, L’arte di ricordare tutto, Longanesi. Alcuni passaggi sono presi pari pari dal libro.Il post è dedicato ad Andrea Della Neve e alle nostre discussioni su questi argomenti! 🙂 )

Cosa facciamo noi de La Voce delle Muse

Estasi – Quando Dioniso Giunse a Tebe – Rappresentazioni 2014

Estasi – Quando Dioniso Giunse a Tebe – Rappresentazioni 2014

Dioniso con broccaBen ritrovate e Ben ritrovati care e cari amanti della mitologia! Buon 2014 all’insegna dei miti e della ricerca personale che di mitologia si nutre! È con sommo piacere che vi annunciamo il ritorno del DIO DIONISO!

La Voce delle Muse è lieta di presentare il suo “ESTASI – QUANDO DIONISO GIUNSE A TEBE” Cena greca con spettacolo teatrale in versione 2014! Saremo al Ristorante la Meridiana da Stella sabato 15 febbraio e all’Osteria del Teatro di Banco il 1 marzo. EVVIVA! Venite a vederci e a gustare i preziosi manicaretti preparati dagli Chef dei due ristoranti.

Come forse saprete la serata è organizzata così: le portate di cibi si mischiano con gli accadimenti teatrali per creare una sinfonia di gusti e significati, tutti imperniati sulla GRECIA: cibi e significati mitologici che si alternano per divertirvi e farvi sognare.

NON MANCATE! PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA

Ecco il Programma serata Dioniso alla Meridiana 2014
Ed ecco il Programma di Banco Programma serata Dioniso al Teatro di Banco 2014
Qua la pagina dedicata interamente all’evento, con foto, trailer e maggiori informazioni.