La guerra di Troia Da Ecuba e da Andromaca così come da Antigone, dovremmo imparare, noi donne, una lezione. Dal grembo dobbiamo partorire figli che non possono essere uccisi. Nel XII Canto dell’Iliade c’è un passo che parla della guerra fra la Russia e l’Ucraina (pardon: della guerra fra la Russia, la Nato e in mezzo l’Ucraina). È la scena precedente la morte di Ettore. Sono passati dieci anni dall’assedio e Troia sta per capitolare. La vittoria da parte dei Greci aggressori è preannunciata. Ettore sta per affrontare l’ultimo duello contro Achille, un campione nelle armi, una macchina da guerra, creato dagli Dei per lo sterminio di massa. Ettore sa che da questo duello uscirà sconfitto, torturato, morto; ma anche lui è un Eroe, epicamente (ideologicamente) addestrato alla difesa della Patria. Non può tirarsi indietro.
Priamo ed Ecuba, il padre e la madre che già tanti dolori hanno visto, compresa la progressiva distruzione della loro bella e civile città, tentano di fermarlo, di dissuaderlo da quell’incontro sicuro con l’Ade. Ma tutto è inutile. Allora Ecuba disperata – perché non c’è nulla di più tremendo della morte di un figlio – fa un gesto estremo: scopre le poppe e gliele mostra dicendo: «Abbi pietà di queste!». Si affida cioè al seno, alla sua forza nutritrice e generatrice, per ricordargli che la vita deve essere sempre più forte della morte, che se né lei né la moglie Andromaca potranno più abbracciarlo, di lui non rimarrà nemmeno il ricordo. E neanche di Troia rimarrà più nulla: solo macerie e macerie e macerie.
Anche Andromaca si unisce alla supplica di Ecuba: fermati amore mio, gli dice. Fermati perché la tua patria non sono solo le mura. La patria non è un confine, un recinto. La patria sono le mie carezze, è nostro figlio che rimarrà solo, sono le tue sorelle e i tuoi fratelli, sono i tuoi amici. La patria è quella schiava, quel lavoratore. La patria è il tuo popolo che, senza di te, senza una guida, sarà trucidato e disperso. Ma Ettore è sordo: l’onore, la sfida di un maschio verso un altro maschio, viene prima di tutto. L’esito di questo spargimento d’onore sarà il suo corpo squartato.
Si scontrano in quel momento lontano di quasi 3000 anni fa due idee della convivenza e del futuro: l’una armata, militare, che intende la Patria come un territorio da espugnare o da mantenere senza bisogno di parole. L’altra, piena di parole d’amore, che intende la Patria come una Matria, una terra delle madri in cui a prevalere sono le parti materne, anche negli uomini, anche in Priamo che è un padre/madre. Una terra dove, alla violenza e alla forza distruttrice, si contrappone il dialogo e la forza generatrice.
Da Ecuba e da Andromaca, così come da Antigone, dovremmo imparare, noi donne, una lezione. Dal grembo dobbiamo partorire figli che non possono essere uccisi. Che non possono essere squartati e torturati. Il nostro impegno storico e civile è proteggerli, custodirli. Li abbiamo attesi e questa attesa deve ricostruire in senso affettivo la storia: una generazione dopo l’altra, intessuta l’una nell’altra dalle nostre ninne-nanne, dalle nostre fiabe, dalle canzoni, dai dolci ricordi d’infanzia. Per questo noi donne sempre, sempre, dobbiamo essere contro la guerra: si chiami invasione, resistenza, liberazione. Sempre dobbiamo mostrare il seno contro le armi. In questa guerra oscena però anche le donne si mettono l’elmetto e dicono ad Ettore di andare avanti verso il suo e il nostro disastro. Anche le donne indossano divise militari.
Anche raffinate intellettuali sono sedotte dal fascino dei campi di battaglia e dall’odore del nemico ucciso. Mettono così a rischio non solo le nostre vite, ma la Vita, l’Amore, la Voce che dice e canta: vieni, ragioniamo, facciamo pace. Mettono a rischio la genealogia della Natura custode e matrice. E allora che conta se le donne hanno raggiunto parità di cognome? Cosa conta se questa genealogia assume tutti i disvalori del patriarcato, a cominciare dalla guerra, dal razzismo di guerra, dall’odio di guerra? Che conta una discendenza anche femminile, se questa non è materna, ovvero alternativa e trasformativa. Non conta se, nel Nome della Madre, non c’è anche il gesto di Ecuba, la sua estrema supplica.
Laura Marchetti è autrice di Matria, edizioni Marotta e Cafiero 2021. Maggiori informazioni sul volume.
Qui trovate la recensione di Antonietta Lelario al volume.
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