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Recensione a “Le Stanze del Silenzio” di Mariavittoria Antico Gallina

Recensione a “Le Stanze del Silenzio” di Mariavittoria Antico Gallina

download (2)È sempre voyeuristico leggere del dolore altrui. E non è facile neppure parlare del dolore di un’altra persona. Se lo si fa razionalmente, con la testa, si risulta supponenti o professionalmente distaccati: si rischia di descrivere le fasi cliniche attraverso le quali passa la persona che ha subito la perdita, si propongono consigli o fatti statistici. Se lo si fa con il cuore, se si parla senza essere distaccati, paragonando i propri dolori a quelli dell’altro, e con-patendo (soffrendo con) l’altra persona, ecco che le parole si bloccano e si piange, in silenzio o sonoramente. E se si cerca di commentare il lutto con la pancia, con l’istinto, ecco che la reazione diviene quella di fuga o di rifiuto di una realtà – la morte – che ci atterrisce.

La morte. Ogni discorso su questa “fase di passaggio” (per chi resta e forse, a dipendenza delle credenze religiose, anche di chi è deceduto) porta a confrontarsi con quel “Mysterium tremenum et fascinans” che è la vita e che si basa proprio sul succedersi di esistenze che si nutrono di altre vite (vegetali, animali). Una situazione che la nostra cultura ha cercato di mitigare, di nascondere, di edulcorare, ma che nel momento del lutto, torna a mostrarsi in tutta la sua fiera brutalità. E quando la morte ci viene a visitare, quando si porta via una persona a noi cara, dobbiamo per forza scendere a patti con il nostro dolore e con la fase di vuoto che si presenta – sterminata – sul nostro cammino terreno. È proprio il racconto della straziante fase di lutto causata dalla scomparsa dell’amatissimo marito Enrico che ci narra Mariavittoria Antico Gallina nel suo “Le Stanze del Silenzio”, volume edito da Giancarlo Zedde Editore nel 2009.

Il percorso spirituale della Prof. Antico Gallina si snoda tra le pagine del volume e passa attraverso diverse fasi, nel corso del lutto: inizia con una negazione iniziale della possibilità di un ricongiungimento futuro: “E se non ti trovassi là dove tutti credono, come credevo anch’io, che debbano giungere le anime? Se fosse tutto un grande bluff? Se mi illudessi a tal punto da vivere nell’attesa di quel giorno, quel mio ultimo giorno, nella speranza che sia il primo giorno con te in una nuova, sconosciuta dimensione?” (pag. 19). Il dubbio è legittimo, figlio dell’evento traumatico della morte del marito e diviene porta d’ingresso di una fase nella quale le certezze, anche quelle legate alla spiritualità, sono andate perdute. Per sempre? Momentaneamente? Lo scopriremo nel corso della lettura. Il numinoso, la parte ultraterrena, scompare per l’Autrice, assorbita dall’esperienza del confronto con la finitudine terrestre e umana: “Il credente vede in questa eternità la vera vita, come già la prima cristianità vedeva nel giorno della morte il dies natalis, il giorno della “nascita”. Io vedo una eternità tutta terrena, rotta solo, temo, dalla volontà degli uomini, così come l’archeologo rompe il silenzio di una sepoltura dopo secoli e secoli di una immobilità che avrebbe potuto essere, appunto senza fine.” (21)

Addirittura l’Autrice mette in dubbio, certo con una similitudine, ma poco importa, il senso del suo lavoro e della sua passione, l’Archeologia. L’impressione che il lettore si fa è quella che l’Autrice stia soppesando e giudicando ogni scelta compiuta in passato: la vita professionale diviene un disturbare cose che andrebbero lasciate nascoste sotto il peso dei secoli, e la vita ultraterrena e la spiritualità sono solo vecchi e polverosi orpelli privi di utilità. Eppure la Prof. Antico Gallina continua a interrogarsi sui temi spirituali: “Mi hai abbandonato, Signore? Stai punendo la mia incredulità? […] Mi sto punendo con le mie mani? Mi sto torturando perché voglio torturarmi?” (23) Interessante notare come si passi continuamente da una visione (critica) cosmica a un interrogarsi sul proprio vissuto spirituale, chiaro segnale di una crisi che scuote fino nel profondo ogni certezza. Un meccanismo valido per separare la pula dal grano, per capire cosa ha ancora senso e cosa invece va gettato come involucro privo ormai di senso. E la spiritualità, il rapporto con il Divino sembra essere ormai sprovvisto di quel significato che potrebbe dar conforto nel mondo ormai povero di senso nel quale si ritrova l’Autrice.

Dio rimane però spesso e volentieri interlocutore privilegiato per l’Autrice: “Si può vivere anche così, Dio? Anche senza il compagno che ho amato infinitamente e che amo? Tu credi che sia possibile? Forse!” (25) Interessante quel “Forse!” seguito dalla forza e dalle risorse personali contenute in quel punto esclamativo: quasi un grido di speranza, un guizzo vitale che lascia ben sperare per il futuro della discesa nel regno della tristezza che compiamo in questo libro accompagnando Mariavittoria Antico Gallina. “Per chi non ha una salda fede la morte è un confine fra noto e ignoto che fa orrore!” Il Dio invocato durante la malattia del marito è, in qualche modo, ritenuto almeno in parte responsabile della morte del consorte: “Invocavo il Suo aiuto per lui, la Sua vicinanza, la Sua mano, il Suo intervento.” (49) L’intervento miracoloso purtroppo non avviene, contribuendo così, forse, all’inizio di una crisi piena di legittimi dubbi, più su se stessa e sul proprio modo di intendere e vivere la fede che sulla spiritualità in quanto tale. Un percorso, anche questo, di crescita, un tentativo di passare a un livello diverso di rapporto con il divino, con il mistero della vita e della morte.

A un certo punto della sua “emergenza spirituale” la Prof. Antico Gallina scopre che è il momento di andare, in qualche modo, oltre il passato e di esplorare nuove vie. “Ho voglia di perdonare!” (79). Quale modo migliore che cancellare con una spugna i torti subiti, permettendosi di affrontare situazioni e persone con quel candore innocente e pieno di carezze e di abbracci che caratterizza la prima scoperta dei rapporti umani e della bellezza del mondo, quando ancora bambini o adolescenti ci affacciamo alla scoperta dell’”altro”. E comincia perdonando se stessa, poi gli altri, poi le ingiustizie del mondo. E, in questo modo, si permette anche la possibilità di un rapporto nuovo con lo spirito, con il trascendente. Un rapporto vero, che pulsa della propria esperienza di dolore nel quale ancora si trova. Per risalire la china, l’Autrice utilizza lo straordinario strumento della scrittura: scrive di sé, ricorda il marito, narra molte fasi della vita dei figli, in un arioso affresco che le permette, partendo dal proprio centro di dolore, di andare nella direzione del mondo. Dal centro chiuso e protetto del dolore all’apertura del mondo che attorno pulsa della vita che si riaccende grazie ai ricordi e alla bellezza delle immagini che rivivono grazie alla parola e al ricordo. Che non è sterile rimembranza: è intessere, immagini, suoni, trame di vita e di sensazioni fisiche con il momento di dolore per creare il tessuto della vita che ancora deve venire, che ci si creda oppure no.

La scomparsa di una persona amata è una fase di passaggio, dicevamo. Come le altre, che la Prof. Antico Gallina ben descrive nel suo libro: l’innamoramento, il matrimonio, la nascita dei figli e poi la loro partenza dal nido familiare. Tutte fasi che, nella nostra società sono state abbandonate a se stesse, non hanno più un ruolo centrale nella vita della cultura e del gruppo. Questo vivere senza segnalare culturalmente le fasi di passaggio rende più difficoltoso per ognuno di noi il dovercisi confrontare, perché ogni volta dobbiamo costruire nuovi strumenti per affrontare la situazione. Gli antichi miti ci possono dare una mano per comprendere quali potrebbero essere delle strade percorribili anche per noi esseri umani del 21° secolo. Vediamone qualcuno.

Nell’antichità il mondo infero era presieduto da Ade, il dio oscuro e temibile che non si poteva neppure nominare. Spesso ci si riferiva a lui come a Plutone, il copioso, il generoso. E veniva rappresentato con in braccio una cornucopia traboccante di frutti e fiori. Il dio della morte era visto come una divinità generosa e fonte di ricchezza. Dal profondo del suo regno potevano giungere, per gli Antichi, dei doni inaspettati che sgorgano dalla notte più buia, quando la luce sembra essere stata definitivamente sconfitta dalle tenebre. Non ha senso, come fa Orfeo con la giovane moglie Euridice morta per il morso di un serpente, scendere nel regno dei morti alla ricerca della persona amata con lo scopo di riportarla sulla terra. Le regole dell’universo lo vietano e neppure gli dèi vi si possono opporre. Orfeo fallisce nella sua missione in quanto fa affidamento sulle sue capacità terrene, seppur straordinarie, di musicista, senza considerare la totale alterità del mondo in cui si addentra. Un aldilà che risponde a regole diverse e che lui non accetta, sancendo la sua stessa morte per mano di un gruppo di Menadi. La Prof. Antico Gallina non cade nello stesso errore di Orfeo ed esplora nel suo “diario” tutta una serie di risorse per sopravvivere emotivamente e psicologicamente alla scomparsa di Enrico, suo marito, l’uomo della sua vita: la preghiera, il silenzio, la scrittura, la serietà e la crescita personale, il rapporto con il tempo passato e quello presente, il confronto con il concetto di eternità, di perfezione e di limiti. E lo fa passando attraverso la disperazione, il rifiuto di strumenti che non le appartengono (più) come la preghiera e la fede, salvo poi trovare la sua definizione personale e di nuovo viva del mondo spirituale. Insomma, come dicevo prima, la perfetta descrizione di una fase di passaggio, di un’”emergenza spirituale” che presenta sia la possibilità di frantumarsi nel dolore sia la opportunità di trovare un modo adatto per entrare in una fase diversa dell’esistenza. Diversa e non “nuova” perché, nella parole della Prof. Antico Gallina: “Non si può più parlare di nuovo, una connotazione positiva che non mi interessa.”

E poi, quando l’Oscura Notte dell’Anima sembra non avere più fine, ecco che d’improvviso, la bellezza della vita fa capolino e prende il sopravvento, di soppiatto, in un mattino di primavera. “Alzi gli occhi al cielo, terso azzurro, immobile; osservi il fogliame fresco, leggero, trasparente; inspiri le fragranze che si spandono in questa primavera diversa, unica, la prima senza il tuo compagno, eppure ugualmente primavera, con prati e arbusti che si risvegliano. Dio, che bello il tuo mondo.” (131) Ed eccola che riemerge attraverso la bellezza del Creato, anche la Spiritualità, quella che fa levare le lodi indirizzandole verso qualcosa di più grande di noi, di non completamente comprensibile con la ragione, ma che possiamo sentire vibrare nella pancia e rimbombare nel cuore. Non nasce dal nulla, come si potrebbe pensare, è un parto caratterizzato dal lungo travaglio doloroso attraverso il quale è passata l’Autrice: la spiritualità nasce dalle domande, dai dubbi, dalla crisi.

Sembra un libro sul lutto questo “Le Stanze del Silenzio” di Mariavittoria Antico Gallina, ma è un libro d’amore. D’amore per la vita e per il ricordo che non è sterile testimonianza del passato ma fecondo seme per il futuro, per la vita che, benché si nutra di altre vite, resta sempre un mistero affascinante e fonte di aspettativa. E un luogo dove la spiritualità, il senso numinoso degli accadimenti e delle esperienze che la Vita ci mette sul percorso, rimangono sempre fonte di meraviglia, anche quando sono dolorose. Una lettura consigliata a tutte quelle persone che si trovano a dover affrontare lo stesso viaggio attraverso i bui meandri della tristezza causata da un lutto. Ma non solo: anche i lettori che stanno attraversando una fase di passaggio, che si confrontano con una emergenza spirituale, troveranno nelle pagine di Mariavittoria Antico Gallina, anche nelle pagine più dure, più tristi, più buie, un’incessante energia che ricerca, che spinge a non arrendersi ma a rimanere, magari fermi, magari in attesa, con lo sguardo rivolto verso la grandezza dello spirito e del mistero della vita. Andreas Barella

Mariavittoria Antico Gallina, Le Stanze del Silenzio, Giancarlo Zedde Editore, 2010.

Qui trovate la rivista sulla quale a pagina 25 è stato pubblicata la recensione: Laborcare Journal, n°8 2014

Il Viaggio di Annibale

Il Viaggio di Annibale

Il viaggio di AnnibalePARTE 1 – Sto leggendo il libro di Paolo Rumiz, Annibale – Un Viaggio, edito da Feltrinelli. Si tratta del resoconto del viaggio del giornalista e scrittore Paolo Rumiz, sulle tracce del passaggio di Annibale da Cartagine, alla Spagna, alle Alpi, all’Italia, alla Tunisia, all’Armenia. Un viaggio affascinante, narrato con stile giornalistico “all’americana” (con i nomi delle guide e dei ristoratori), e che riesce a coinvolgere nella passione per la ricerca mitologica, più che storica. Poco importa, dice Rumiz, se Annibale sia passato da questo passo alpino piuttosto che da quell’altro: quello che conta sono le tracce che ha lasciato nelle vallate e nelle storie degli uomini. E di quello che sembra essere alla ricerca l’autore: di un motivo ricorrente che ha fatto di Annibale, vituperato e cancellato dalla storia romana, un personaggio archetipico. Ma qual è questo archetipo? Chi incarna Annibale per noi esseri umani del ventunesimo secolo? Nel libro, e nella nostra interiorità la risposta! 🙂

PARTE 2 – Ho terminato la lettura del libro si Paolo Rumiz su Annibale. Ve lo consiglio caldamente! Intanto vien voglia di partire per un viaggio, dopo la lettura. Non un viaggio da agenzia, ma un viaggio lento, meglio ancora a piedi, fuori dalle vie di comunicazione, su per sentieri e strade abbandonate, alla ricerca non di vecchi sassi ma di miti vissuti (o costruitisi nel passato) e che ancora comunicano qualcosa alla nostra psiche. “Nell’arena non c’è nessuno oltre a noi. Fruscio di passeri nella sterpaglia, passerelle, voragini che si aprono sugli inferi dei gladiatori e delle belve. Il moncone sud dell’anfiteatro che si staglia nel cielo bianco come il teschio di un bisonte. Questo non è il colosseo, infestato di orde in bermuda. Tutto è infinitamente più misterioso, come sulla Trebbia o a Canne. Dove è passato Annibale la magia resta, e la peste dei non luoghi non attecchisce. C’è un’energia primordiale che percepiamo ovunque.” (pagina 126). Un antico anfiteatro si trasforma da un insieme di rocce abbandonate in un luogo ricco di significato solo se vi associamo il vissuto che stiamo cercando, il mito che ci spinge a cercare quello che ci serve.

Rumiz a pagina 12 racconta di come un compagno di viaggio sulle Alpi, mentre sono alla ricerca del passo alpino attraverso il quale Annibale ha raggiunto l’Italia, rimette nello zaino le guide e le cartine e ne estrae le Storie di Polibio, di cui legge ad alta voce un estratto. “È cambiato tutto. La lettura ci inonda, ci apre i pori della pelle, svela l’energia del luogo. Il Libro, ecco la chiave. Il Libro venuto dal tempo. Improvvisamente le nostre guide, i nostri Baedeker perdono significato. Non importa nulla sapere della quota o dei bivi dei sentieri. Conta solo l’evento narrato e l’immaginario che si scatena in noi”. Proprio così, un viaggio reale ma alla ricerca di un luogo vero per la psiche non di una montagna in particolare. Poi però, anche la guida del mito può chiuderti gli occhi, impedirti di vedere la realtà in cui vivi e in cui il mito si cristallizza momentaneamente, per te e per la tua esperienza di vita. Ed ecco che anche Rumiz decide di tornare a guardare il mondo con gli occhi reali, i suoi, attraverso i quali il mito, Annibale, torna nel mondo. “Prendo l’unica decisione possibile: consumare un distacco dal libro. Temporaneo, almeno. Chiudo Polibio, chiudo Livio, li metto in fondo al sacco e subito mi sento più leggero. I pori della pelle respirano, assetati di meraviglie.” (pagina 65) Verità psichica e realtà terrena: è quando le due si uniscono che la sorpresa e la meraviglia fanno capolino nella ricerca.

PARTE 3 – E poi, ad un certo punto, il mito si fa incerto, sfuggente, va in qualche modo inventato. “Ormai Tito Livio e Polibio non ci fanno più da guide, e il nostro viaggio continua a tentoni” (pagina 167). È l’affrancamento dai maestri, il lasciarsi guidare e stupire dal personaggio, dal mito, che ormai è divenuto parte di noi, e a cui noi diamo vita.

E alla fine, scoperto quello che rimane della tomba di Annibale, un monumento voluto da Atatürk , il padre della moderna Turchia, nel 1934, Rumiz si ritrova “pieno di una forza visionaria enorme” dove la realtà assume “un senso nuovo e invisibile… Certo, non ho trovato le sue ceneri, ma il suo mito sì, ed è questo quello che conta” (pagina 184).

E il mito di Annibale, che spesso si confonde con quello di Ercole, riempie di meraviglia e stupore per la sua ricchezza e per il suo mistero che vien voglia di esplorare personalmente. Al lavoro!

Un’ultima chicca dal libro di Rumiz, che mi ha fatto piacere rileggere: la definizione di OZIO. “Ah, otium, nobilissima parola! Ma dove sta scritto che l’ozio è dei fannulloni? In latino vuol dire un’altra cosa: “tempo libero utilmente impiegato” in studio, giardinaggio, camminate. È la più sublime delle attività umane. Se così non fosse, il lavoro quotidiano non si chiamerebbe negotium, degradazione (o negazione) dell’ozio” (Paolo Rumiz, Annibale. Un Viaggio, Feltrinelli 2008, pagina 135). Lo scrivo così me lo ricordo quando mi faccio sopraffare dalle attività quotidiane! 🙂

Andreas Barella

Cosa facciamo noi de La Voce delle Muse

La trilogia degli Hunger Games

La trilogia degli Hunger Games
La trilogia completa

La trilogia completa

Ho finito tutti e tre i volumi di Hunger Games. La lettura è appassionante e scorre rapida da un colpo di scena all’altro. Però però… la freschezza della novità del primo volume è scomparsa, i collegamenti e i richiami agli archetipi della mitologia, si diluiscono e spariscono nel corso della lettura. Il secondo e soprattutto il terzo capitolo della saga di Katniss divengono libri (e film… sembrano scritti proprio per essere trasferiti sul grande schermo) avventurosi che devono portare a compimento il ciclo narrativo. Ogni quesito riceverà una risposta, ogni arcano sarà svelato, ogni matassa verrà dipanata. Il lettore è soddisfatto, meno l’amante della mitologia: quella capacità di lasciare molti dettagli all’immaginazione e al potere amplificatorio del lettore scompare e ci lascia in mano solo fatti certi e poco spazio per far risuonare l’esperienza della vergine cacciatrice nella nostra vita quotidiana. Katniss, nel corso del secondo e terzo volume, diviene più una supereroina con i noti patemi d’animo dei supereroi torturati a cui ci ha abituato la produzione fumettistica americana… sensi di colpa per l’impossibilità di salvare il mondo, dolore fisico a coprire presupposti dolori psicologici profondi e antichi, solitudine cercata e/o provocata dall’altrui incomprensione…

Andreas

Cosa facciamo noi de La Voce delle Muse

Il ciclo romanzesco di Dune

Il ciclo romanzesco di Dune
Frank Herbert's DUNE

Frank Herbert’s DUNE

Dopo anni di seduzione a distanza, di occhieggiamenti dagli scaffali delle librerie e delle biblioteche pubbliche, questa estate mi sono deciso e ho letto il romanzo Dune di Frank Herbert. Avevo visto il vecchio film di David Lynch, e ricordavo il mio spaesamento e le perplessità per una trama complessa e piena di concetti da imparare (le Bene Gesserit, i Mentat, i linguaggi settoriali, eccetera). Ricordavo però anche l’affascinate mondo di Arrakis, le dure condizioni di vita sul pianeta deserto, e naturalmente i Fremen e i Vermi Giganti. Così, in vacanza, quando in una libreria di libri usati ho visto il volume, non ho saputo resistere e invogliato anche dai commenti (sulla copertina) di George Lucas “Senza Dune, Guerre Stellari non sarebbe mi esistito” e di Steven Spielberg “Dune è parte integrante del mio universo fantastico” mi sono messo alla lettura.

Quando George Lucas ha affermato che “senza Dune, Guerre Stellari non sarebbe mai esistito” diceva la verità! 🙂 In effetti le ispirazioni che ha tratto dal romanzo di Frank Herbert sono parecchie, e tutte affascinanti. I predoni del deserto sembrano i Fremen, sia nell’abbigliamento che nella ferocia; gli zii di Luke condensano l’umidità come gli abitanti di Dune; il pianeta di Luke ricorda Arrakis, con i suoi territori deserti che celano misteri e saggezza (dove vive Ben Kenobi? E come sopravvive? Il deserto è tabù anche su Tatooine). La stessa “Forza Jedi” di George Lucas è un miscuglio delle arti delle Bene Gesserit e della loro speranza di creare il Kwisatz Haderach (il messia onnisciente e salvatore). Certo, tutti concetti mistici e presenti in molte mitologie e molte religioni, e proprio per questo così affascinanti, sia in Dune che in Star Wars. Anche l’idea di mescolare arcaicità (Dune: nessun computer, banditi da una guerra santa contro le macchine pensanti; GS: la storia si svolge “Tanto tempo fa…”) e ipertecnologia (Dune: le macchine segrete di Ix, le vasche dei Tleilax, dove si clonano esseri umani; GS: le astronavi, le armi) crea quell’atemporalità che affascina nelle due opere. Ma le somiglianze che balzano all’occhio durante la lettura sono molte di più! Personaggi, scene, ambientazioni, riprese e sviluppate con gusto personale da George Lucas. Fa piacere rincontrarle nel libro! Chi ne ha notata qualcuna ce lo faccia sapere!

Andreas

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