Nel marzo del 1959, lo psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung fece questa intervista con John Freeman per il programma televisivo della BBC “Face to Face”. L’intervista venne registrata nella sua casa alla Seestraße a Küsnacht, sul lago di Zurigo. Il documentario introdusse Jung al grande pubblico, più delle sue opere e di altre interviste: il tono onesto e discorsivo di Jung affascina e arricchisce. Nel filmato lo sentirete parlare della sua famiglia, della sua infanzia, dei suoi studi, del suo primo incontro con Freud, dell’inconscio collettivo, del destino dell’umanità.
Andreas Barella, da sempre innamorato di questa intervista, la ha completamente sottotitolata da zero (le traduzioni esistenti e quelle automatiche non lo soddisfacevano). Qui trovate tutta la lunga e ricchissima intervista a Carl Gustav Jung, sul canale youtube di Andreas, ISCRIVETEVI AL CANALE! (Basta cliccare sul rotondino con la faccia di Andreas in alto a sinistra, in seguito su “iscriviti”) GRAZIE MILLE!
BIBLIOGRAFIA MENZIONATA NEL FILMATO
Nel corso dell’intervista, si parla dei seguenti volumi:
OPERE DI JUNG RECENSITE DA ANDREAS QUA SUL SITO DELLE MUSE
Ricordi, Sogni, Riflessioni di Carl Gustav Jung è un libro che offre una profonda e personale introspezione sulla vita dell’autore e sulla sua comprensione della psicologia umana. Jung, noto come uno dei più importanti psicoanalisti della storia, ci guida attraverso i momenti salienti della sua vita, dai sogni infantili ai viaggi nel deserto, alle conversazioni con Freud e alla scoperta dell’inconscio collettivo. La scrittura è fluida e coinvolgente, e la profondità delle riflessioni di Jung è sorprendente. Si ha l’impressione di essere seduti accanto a lui mentre rivela i dettagli della sua vita e delle sue teorie… Continua a leggere la recensione di Andreas Barella
Simboli della trasformazione è il quinto volume delle Opere dello psichiatra e analista svizzero ed esplora il processo di individuazione e la natura simbolica dell’inconscio. Prima di parlarne, ecco un riassunto costruito con alcune citazioni significative tratte dall’opera… Continua a leggere la recensione
«Vi sono parole che cantano il mondo. È su queste parole che i Mercoledì autunnali della Fondazione Sasso Corbaro vogliono dialogare. Parole per stare nel mondo, parole per vivere il mondo, parole per fuggire dal mondo. Parole che appartengono ai paesaggi della lentezza, come fermarsi, oziare, andare lento, riposare per potersi curare, prendersi cura, avere cura, divenire cura, essere cura. Parole smarrite mentre corriamo senza meta, perché temiamo che sia l’esistenza stessa a sfuggirci lasciandoci nel vuoto. Questo il paesaggio umano in cui abitare? Parole che costruiscono paesaggi in cui, come evoca il Qohélet, la vita non è che havèl havalìm, “fumo di fumi”. Parole in cui proviamo a sopravvivere. Parole perché i cieli si popolino di nuovo e ricomincino a parlarci. Parole che nulla hanno a che fare con la comunicazione. Parole che parlano nelle radure del bosco, in cui qualcosa di inatteso può sempre accadere». Graziano Martignoni, vicepresidente Fondazione Sasso Corbaro
Con queste parole Graziano Martignoni presenta il ciclo di conferenze “I mercoledì della Fondazione Sasso Corbaro” che fino a dicembre si possono seguire nella sala dedicata a Edgar Morin nella sede della Fondazione in via Lugano 4a, Piazzetta Lucia Buonvicini a Bellinzona (Scarica la locandina del ciclo di conferenze). Il ciclo autunnale 2023 è all’insegna di “Parole per uscire dal mondo, parole per uscire nel mondo”. Il 20 settembre, nella serata dal titolo “Nel Riposo” Martignoni ha dialogato con Andreas Barella (una delle tre Muse) e Lia Galli, poetessa. Qui avete il testo del contributo di Andreas, ripreso dal sito della rivista “Sentieri” edito dalla Fondazione.
All’alba dell’estate 2023 sono stato contattato per partecipare a I Mercoledì della Fondazione Sasso Corbaro: ho accettato con piacere ed entusiasmo. Da buon procrastinatore ho rimandato la preparazione dei contenuti: l’incontro si sarebbe tenuto a fine settembre. Il tema della serata, discettare a ruota libera con Graziano Martignoni e la poetessa Lia Galli sul termine “riposo”, mi ha subito catturato e ha continuato a tornare a bussare alla porta della coscienza. Infatti, durante le vacanze estive, sotto l’ombrellone, in uno stato di RIPOSO sono stato visitato da un’immagine che mi ha indicato la direzione in cui dirigere la mia attenzione, i miei pensieri e il mio intervento. Si tratta di un’immagine della Mundaka Upanishad: «Due begli uccelli, l’un l’altro compagno, abitano assieme sul medesimo albero. L’uno si ciba del dolce frutto del pippala, l’altro, senza mangiare, con lo sguardo tutto abbraccia». (III, 1, 1)
L’immagine con i due uccelli si è sviluppata in due direzioni, una contrapposta all’altra: un uccellino lavora, è attivo, lotta, si confronta con la vita e con la morte, con le dolcezze e le amarezze dei frutti e del contatto con il mondo. L’altro contempla, guarda, è introverso, non usa il cervello ma qualche cosa d’altro, contempla le distese interiori e “fa anima”. Sulla spiaggia mi è sovvenuta questa intuizione: il riposo ha a che fare con la mancanza di contatto con il mondo della vita quotidiana dominata dal razionale; riposare vuole dire abbandonare per un periodo di tempo il regno del conosciuto e immergersi in un reame diverso.
E allora? Qual è questo mondo che visitiamo quando ci riposiamo? Non può essere semplicemente una “assenza di lavoro”: il riposo ha maggiore dignità di quella di essere l’assenza di qualche cosa d’altro. Un po’ come nelle diatribe teologiche medievali in cui si concepiva il male come l’assenza del bene, negando dignità e realtà al male stesso. Andiamo dunque alla ricerca di un altro punto d’accesso al concetto di riposo. Ripartiamo con l’etimologia del termine.
“Riposo” nasce dall’unione della particella intensiva e reiterativa “Re-” e dal verbo “posare” (“pausare”), con il significato di “stare in quiete”. “Quiete” dal latino “quies -etis”, deriva dalla radice proto-ariana “Ki-” e significa “sedere”, “giacere”, “riposarsi”, “dormire”, o per estensione “dimorare”, “abitare”. L’etimologia sembra confermare la nostra idea iniziale: riposare significa “abitare e dimorare” in un altro luogo, diverso da quello in cui ci muoviamo quando siamo attivi. Ma quale può essere questo luogo, questo altrove? Vediamo qualche esempio di illustri “riposatori”.
Il primo abitatore del regno del riposo, uno dei più conosciuti nella nostra cultura è probabilmente il Dio della Genesi. Dopo aver descritto la Creazione, durata sei giorni, il libro della Genesi recita: “Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. Allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto.” (Genesi, 2, 1-3)
Dio benedice e consacra il settimo giorno. Il riposo del sabato conferisce all’opera di creazione la benedizione divina. Dopo sei giorni di creazione, per essere completo, l’universo necessita ancora di qualcosa, che Dio crea il settimo giorno: il riposo appunto. Nel riposo, l’universo si compie definitivamente. Non si tratta di inattività, si tratta della vera manifestazione del divino: il sacro non si manifesta solo nell’attività, ma anche (e soprattutto?) nella contemplazione.
La Genesi sembra suggerirci la possibilità che, se subordiniamo il riposo al lavoro, se il riposo altro non è che tempo vuoto in cui non lavoriamo, allora perdiamo il contatto con il divino e il sacro, fuori e dentro di noi, e di conseguenza perdiamo la possibilità di essere completi e non soltanto parziali, perdiamo il contatto con quella parte che è “altro” e “diverso” dalla coscienza logico deduttiva e razionale propria del cervello. Insomma, per dirla con Jung, perdiamo il contatto con l’inconscio, con la potenza creatrice di una parte della nostra psiche, con la possibilità di “fare anima”.
Per noi esseri umani il riposo potrebbe essere un luogo e un tempo in cui completiamo e rivisitiamo quello che abbiamo fatto e creato. Lasciamo il mondo dell’attività, del disordine, del caos, della chiacchiera (termini affatto negativi: descrivono la vita quotidiana, ricca di fascino, di incontri e di novità…) per abitare una terra interiore dove, nel silenzio, possiamo ascoltare un’altra voce, quella della FESTA potenzialmente sacra, opposta alla vita quotidiana essenzialmente profana, della celebrazione di un mondo di immagini interiori, spirituali e nutritive. Un’intensità di vita diversa, non migliore né peggiore di quella della vita quotidiana, ma diversa e in qualche modo compensatoria al logorio che la vita profana produce nel nostro vissuto interiore.
Ai Mercoledì della Fondazione Sasso Corbaro si partecipa per condividere, per stare insieme, per costruire significato condiviso e arricchente. Proprio come nelle feste: la collettività aggiunge significato e ricchezza alla vita del singolo e lo fa in modo gratuito, senza obiettivi pratici, senza subordinazione a uno scopo se non quello del piacere del prendersi un Tempo di Qualità, arricchente e nutriente, e di farlo con altre persone. E nel riposo, nell’indugiare, nell’attendere l’arrivo delle immagini, riecheggia l’eternità della creazione, la voce di un significato ricco e duraturo. Il Dr. Med. Graziano Martignoni nella sua presentazione alle quattro serate di questo ciclo di incontri scrive: «Vi sono parole che cantano il mondo. È su queste parole che i Mercoledì autunnali della Fondazione Sasso Corbaro vogliono dialogare. Parole per stare nel mondo, parole per vivere il mondo, parole per fuggire dal mondo.»
Il riposo ci consente proprio la fuga dal mondo, ma non una fuga rinunciataria e irreversibile, un rifiuto della vita quotidiana, ma uno spazio di arricchimento del substrato che ci permette di vivere in modo sacro e più pieno la nostra interiorità e di portarla, di conseguenza, nel mondo attivo. Lo conferma anche Martignoni: «Parole che appartengono ai paesaggi della lentezza, come fermarsi, oziare, andare lento, riposare per potersi curare, prendersi cura, avere cura, divenire cura, essere cura. Parole smarrite mentre corriamo senza meta, perché temiamo che sia l’esistenza stessa a sfuggirci lasciandoci nel vuoto.»
Parafrasando Martignoni, quando il mondo quotidiano ci sembra invadere e permeare completamente la nostra vita interiore, quando il lavoro, la vita attiva prende il sopravvento e cancella tutto il resto, ecco che la nostra psiche sembra voler far ritorno, in modo compensatorio, a un regno diverso e arcaico, formato da immagini e da relazioni significative. Questo mondo arcaico non è naturalmente solo buono e popolato da immagini positive: come diceva Rudolph Otto, il teologo tedesco che ha sviluppato il concetto di psicologia della religione, questo regno ci confronta con il mysterium (il significato è nascosto) tremendum (che fa tremare, ma di riverenza non di paura) et fascinans (attira spaventando e spaventa attirando) che ha a che fare con il mistero del Divino e della psiche… Quando ci confrontiamo con qualcosa che è e che non è allo stesso tempo, come affrontarlo? La razionalità non pare essere in grado di fornirci gli strumenti necessari. Dobbiamo ragionare per immagini, per archetipi che ci vengono a visitare: proprio come l’immagine degli uccellini sull’albero, la psiche non spiega, ma suggerisce e arricchisce la nostra chiave interpretativa del mondo.
Per riassumere: nel riposo andiamo alla ricerca di una dimensione diversa, complementare a quella che abitiamo nella vita attiva: una dimensione misteriosa, legata al sacro, legata al silenzio, legata alla ricchezza delle immagini che la popolano e che ci visitano e ci arricchiscono (a volte anche provocando qualche spavento, non sempre le immagini sono benigne e collaborative). Visitare il mondo del riposo non vuole però dire non fare nulla, non significa stare nel vuoto, ma compensare con la ricchezza del sacro e dell’inconscio, le mancanze del pur ricco mondo quotidiano fatto di incontri e di azione. Il mondo del vero riposo può spaventare e può spingere a evitarlo: si trasforma allora in una semplice pausa per riprendersi dalla fatica fisica del lavoro. Se però il riposo si impoverisce in questo modo, diviene un semplice tempo vuoto, un angosciante “far niente” possibile prodromo di un malessere psichico causato dalla mancanza di senso.
Ištar (spesso scritto Ishtar) è la dea dell’amore, della fertilità e dell’erotismo, dea anche della guerra, nella mitologia babilonese, derivata dall’omologa dea sumera Inanna (ne abbiamo parlato qua). A lei era dedicata una delle otto porte di Babilonia. Essa aveva contemporaneamente l’aspetto di dea benefica (amore, pietà, vegetazione, maternità) e di dea terrificante (guerra e tempeste). I principali centri del suo culto erano Uruk, Assur, Babilonia, Ninive.
I numerosi miti riguardanti Ištar sono spesso in contrasto tra loro. In alcuni racconti è figlia di Sin, dio della Luna, e sorella di Šamaš, dio del sole, mentre in altri è descritta come figlia di Anu, dio del cielo. In ogni versione, tuttavia, Ištar è descritta come sorella di Ereshkigal e sua controparte. In tutti i racconti si mantiene comunque l’associazione della dea con il pianeta Venere, che le comporta l’appellativo di Signora della Luce Risplendente. L’iconografia della dea è associata anche alla stella a otto punte, un simbolo che si ritrova anche nell’iconografia cattolica correlato alla Vergine Maria. Il simbolo della stella a otto punte rievoca il fatto che il pianeta Venere ripercorre le stesse fasi in corrispondenza di un ciclo di 8 anni terrestri, cosa già ampiamente conosciuta agli astronomi/astrologi sumeri.
Nell’Epopea di Gilgameš Ištar rappresenta l’amore sensuale e viene descritta come innamorata via via di diversi pastori, tra cui Tammuz (Dumuzi nel mito di Inanna), e di un giardiniere, che furono poi condannati dalla dea stessa, trasformandoli in diversi animali, tra cui: un uccello dalle ali spezzate, un lupo, una rana. Gilgamesh rifiuta l’amore della dea Ištar, perché sa che non riceverà un trattamento migliore.
La morte di Tammuz è anche descritta nell’opera Discesa di Ištar negli Inferi, dove la dea, dopo essere discesa nell’oltretomba ed essere stata giudicata e giustiziata, rinasce scambiando il proprio corpo con quello dello sposo Tammuz. Dopo la morte di Tammuz tutte le donne, compresa la dea, assumono lo stato di lutto che dura un mese, detto appunto il mese di Tammuz. Alcune caratteristiche di questo rituale di lutto, quali per esempio il fondamentale digiuno mensile, sono state trasmesse alle cerimonie religiose islamiche. Durante la sua discesa negli inferi la terra si arresta e nulla può essere creato.
I suoi appellativi sono: “Argentea”, “Donatrice di Semi”, quindi governava anche la fertilità e il raccolto. In un’epoca successiva divenne anche la protettrice delle prostitute e dell’amore sessuale. Era la dea delle tempeste, dei sogni e dei presagi e distribuiva agli uomini potere e conoscenza.
Il culto di Ištar si diffuse anche in Egitto durante la XVIII dinastia. Secondo la tradizione il culto potrebbe essere stato importato in Egitto da Amenofi III con la richiesta fatta a Tushratta, re di Mitanni, di poter avere la statua della dea conservata a Ninive allo scopo di curare una malattia del sovrano egizio. La figura di Ištar si trova connessa con molte altre divinità del Vicino Oriente antico come Anath, Anutit, Aruru, Asdar, Asherat, Astarte, Ashtoreth, Athtar, Belit, Inanna, Innimi, Kiliti, Mash, Meni, Nan, Ninhursag, Ninlil Nintud e Tanit. Da questo fatto deriva anche la grande quantità di simboli diversi associati alla dea.
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Inanna è la dea sumera della fecondità, della bellezza e dell’amore, inteso come relazione erotica piuttosto che coniugale; successivamente assimilata alla dea accadica, quindi babilonese e assira, Ištar (anche Eštar, vedi qui). Inanna/Ištar è la più importante divinità femminile mesopotamica. Inanna era anche dea della guerra, della giustizia, dell’agricoltura e regolava i cicli della natura. La sua natura dualistica (dea delle piogge gentili ed assassine) la rende una delle figure più interessanti della mitologia arcaica. Inanna incarnava la massima rappresentazione divina, in quanto ermafrodita. La poetessa e sacerdotessa Enheduanna, i cui poemi risalenti al XXIV sec. a.C. rappresentano i primi esempi di poesia mai ritrovati, elevò Inanna a dea principale dell’intero pantheon sumero nella sua opera “L’esaltazione di Inanna” (ne abbiamo parlato qua).
La più antica attestazione del nome di questa divinità è riscontrabile nelle tavole di argilla rinvenute nell’antico complesso templare dell’Eanna (Uruk), e risalenti ai periodi tardo Uruk-Gemdet Nasr, quindi intorno al 3400-3000 a.C.
La Lista degli dèi di Fara riporta il suo nome dopo quello di An e di Enlil e prima di quello di Enki, comunque sia, le fonti pre-sargoniche non sembrano prestare particolare attenzione a questa divinità. La principale tradizione sumerica (città di Uruk) la vuole figlia del dio del Cielo, An (in questo contesto assume il titolo di nu.gig.an.na (“ierodula di An”). Un’altra tradizione (città di Isin) la vuole invece figlia del dio della Luna, Nanna e sorella gemella del dio del Sole, Utu.
Bellissime sono le poesie d’amore scritte da Inanna e rivolte al proprio amore e promesso sposo Dumuzi. Ella dona agli abitanti di Uruk, la città di cui è protettrice, i Me sottratti a Enki con un inganno (lo fece ubriacare dopo averlo sedotto con la sua bellezza), in modo che gli uomini possano vivere in prosperità e benessere. Dopo la perdita del suo innamorato divenne una seduttrice di uomini e di dei: nella saga di Gilgamesh, questi rifiuta le sue profferte di sesso, rinfacciandole che nessun uomo è rimasto vivo fino all’indomani mattina, dopo avere giaciuto con lei nella notte.
Il testo più lungo e complesso su Inanna giunto fino a noi è il poema La discesa di Inanna, conosciuto per la maggior parte da tavolette rinvenute negli scavi archeologici eseguiti tra il 1889 e il 1900 sulle rovine della città di Nippur, nel sud della Mesopotamia (attuale Iraq).
Il mito narra come Inanna scenda nel Kur, gli Inferi (ma il testo superstite non fornisce la ragione del viaggio). Prende con sé sette Me (personificati come accessori e capi di vestiario della dea) e parte con la fida ancella Ninšubur alla cui raccomanda: “Se non tornerò tra 3 giorni e 3 notti, dovrai avvertire gli altri Dei perché riescano a liberarmi!”. Bussa alle porte della “Terra” – termine con cui comunemente viene identificato l’oltretomba. Le viene chiesto da parte di Neti, il custode, il motivo di un tale viaggio. Inanna spiega che è venuta per rendere omaggio a sua mostruosa sorella Ereshkigal, signora dell’Oltretomba, e a portarle le sue condoglianze per la morte di Gugalanna, suo marito, il “Toro del cielo” ucciso da Gilgameš. Viene fatta entrare sola e passa attraverso sette porte, ove le vengono sottratti progressivamente i sette Me. Infine, nuda, viene introdotta davanti a Ereshkigal e agli Anunnaki (i giudici degli inferi in questa versione del mito), che la condannano e la mettono a morte. Dopo tre giorni e tre notti, Ninshubur corre a chiedere aiuto per la signora e la sua supplica trova ascolto presso Enki. Il dio modella con lo “sporco” tratto da sotto le sue unghie due creature “né femmina né maschio” (che non potendo generare, non sono soggette al potere della morte): Kurgarra e Galatur. Costoro volano fino negl’Inferi e circuiscono Ereshkigal con le loro lusinghe fino a che ella non promette loro come premio qualunque cosa vogliano. I due chiedono il cadavere di Inanna e, avutolo, fanno risorgere la dea aspergendola del cibo e dell’acqua della vita.
Inanna però non può tornare dagli Inferi senza fornire qualcuno che la sostituisca. I gallu (demoni del destino) le propongono diversi sostituti: Ninshubur, i suoi due figli Shara e Lulal, ma la dea rifiuta di condannare a morte queste persone rimastele fedeli anche mentre era morta. Per ultimo, la conducono dal suo sposo Dumuzi. Dumuzi viene sorpreso mentre siede soddisfatto sul suo trono, sfoggiando ricche vesti, senza portare il lutto per Inanna. Presa dall’ira, Inanna lo consegna ai gallu. Dumuzi riesce a fuggire per opera del dio Utu, ma viene ripreso dopo un lungo inseguimento e condotto agli inferi. La sorella di Dumuzi, Geshtinanna, va alla sua ricerca e le sue lacrime impietosiscono Inanna, che decide di accompagnarla. La dea e la mortale vagano a lungo, finché una “mosca sacra” dice loro dove si trova Dumuzi: in Arali, luogo di confine tra il mondo degli uomini e gli inferi, dove viene raggiunto infine da Inanna e Geshtinanna. Tuttavia, per la legge del Kur, Dumuzi e Geshtinanna devono risiedere a turno per metà dell’anno nel regno di Ereshkigal.
Il mito è generalmente interpretato come una raffigurazione del ciclo della vegetazione. Dumuzi e Geshtinanna (divinità della fertilità), giacciono per sei mesi con Inanna (che rappresenta la potenza della generazione) e per sei mesi con Ereshkigal (il letargo invernale, rappresentato simbolicamente dalla morte). Il dualismo Dumuzi-Geshtinanna viene messo in relazione con l’alternarsi stagionale dei frutti della terra (le messi per Dumuzi e la vite per Geshtinanna).
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Diceva Thomas Hobbes che «gli Stati sono istituiti dai padri e non dalle madri di famiglia». Pur ammettendo – unico fra i pensatori moderni – una naturale uguaglianza fra i sessi in termini di forza e intelligenza, il filosofo inglese constatava, con il suo solito realismo, che a comandare sono sempre stati gli uomini. Inutile girarci intorno, il potere ha sempre avuto e sempre avrà una connotazione essenzialmente maschile, ci ricorda Hobbes. Sarebbe perciò irrealistico pensare che il sapere che l’Occidente ha prodotto sul potere non sia maschilista o patriarcale, come si dice in un gergo ormai desueto. Si tratta di rapporti di forza, direbbe Foucault sulla scorta di Nietzsche. I maschi hanno sempre comandato, ergo i maschi hanno pure dettato le regole di trasmissione di un sapere che sistematizza i termini di quel comandare.
Da Aristotele a Rousseau, senza soluzione di continuità, si afferma in esso quanto segue: il maschio è il soggetto adatto a decidere, comandare, governare; la femmina a obbedire. I discorsi in cui quel sapere si formulava non si presentavano come proclami ideologici o pamphlet polemici, non erano insomma libri autoprodotti. Erano, al contrario, autorevoli esiti del sapere dotto, legittimo, universale. Hanno configurato una tradizione, la cui efficacia ancora si riverbera nella nostra sgangherata contemporaneità. Per fortuna un po’ scalfita, l’efficacia di quella tradizione, dal lento mutamento dei rapporti di forza. Gli studi femministi, negli ultimi decenni, sono divenuti parte essenziale di tale mutamento, producendo un sapere che ha finalmente demistificato la pretesa di validità universale della tradizione.
Il libro di Giulia Sissa L’errore di Aristotele – Donne potenti, donne possibili, dai Greci a noi (Carocci editore «Sfere», pp. 375, euro 29,00), prosegue con grande capacità analitica dei testi antichi e moderni, l’opera di demistificazione. Anzi, oltre a farci scoprire un Aristotele meno conosciuto – quasi divertente – ne traccia l’ininterrotta influenza nella cultura europea medievale e moderna, attraverso la sua canonizzazione da parte del cristianesimo, la sua rielaborazione da parte dei pensatori moderni, tutti – o quasi – ancora del suo parere per quanto riguarda le donne. Ciò che Aristotele disse sulle donne, ad esempio ritorna, quasi immutato, nel moderno Rousseau, il quale afferma che esse, per natura, devono obbedire al maschio, essere mogli docili e fedeli, perché così la natura vuole.
Nel percorrere analiticamente una simile continuità, il libro di Sissa fa emergere con chiarezza una cosa che a noi oggi pare davvero straordinaria, persino divertente se non fosse stata così influente: le autorevoli e spassionate trattazioni della differenza fra i sessi si presentano nella storia del sapere come oggettive e scientifiche, senza che mai a nessuno dei dotti compilatori – Aristotele, Epitteto, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Rousseau, solo per fare alcuni nomi di autori che Sissa analizza con grande acume – venisse in mente di essere un po’ di parte. Nessuna donna entrò mai nei dibattiti sulla “natura” femminile, sarà per questo che tale natura è descritta sempre in termini passivi, subordinati, infidi e inaffidabili?
Come a dire, ogni produzione di sapere ha al suo interno una specifica dimensione di potere. Il libro di Sissa ci conduce in un appassionante viaggio nella costruzione del regime di verità patriarcale, nella fase del suo stabilizzarsi scientifico. Se oggi siamo, a detta di molte autorevoli pensatrici femministe, alla fine del patriarcato – di cui i femminicidi, gli stupri sarebbero i feroci colpi di coda – l’epoca di Aristotele fu invece la fase in cui il sapere maschile sul mondo – e soprattutto sulle donne – divenne episteme, scienza. Tale episteme, inutile dirlo, deve ad Aristotele – il grande sistematizzatore del sapere greco antico – la sua fortuna. Giulia Sissa ci racconta la costruzione epistemica dell’inferiorità femminile, e la racconta attraverso una minuziosa analisi dei testi. Del resto, nonostante Aristotele fosse, come detto, un sistematizzatore, un elencatore, egli si rivelò anche uno straordinario fornitore di immagini, di metafore, di modi di pensare che restituiscono, attraverso una interessante «logica del concreto», che la differenza sessuale si dà nei corpi, per natura. Ci sono delle specifiche disposizioni fisiche che determinano le posizioni politiche: la passionalità, l’esuberanza, in una parola la virtù politica antica per eccellenza, l’andreia, è sinonimo di virilità, di ciò che per natura caratterizza gli uomini (aner). E tale natura immediatamente determina la cultura: gli uomini hanno il sangue caldo, ma proprio per questo sono coraggiosi, risoluti, adatti a governare. Le donne, invece, pur essendo intelligenti, hanno una «complessione fredda» – non sono stupide ma molli, incapaci di decidere, «superflue, inutili, pericolose. Sono un ostacolo nella lotta come nell’arena politica». Anatomia e fisiologia decidono insomma delle sorti politiche delle donne (e degli uomini). Guarda un po’, la differenza sessuale! Perché essa gode di così poca stima oggi? Perché viene accusata di essere “essenzialista”, biologista, escludente? Forse perché, come si evince da questo bellissimo libro, ne abbiamo sempre avuto a disposizione una versione patriarcale, maschile, androcentrica. Una lettura dell’anatomia e della fisiologia tutta a vantaggio di chi, in effetti, ne scriveva, ovvero i maschi. Quando si dice i rapporti di forza.
Eppure, la cultura greco-antica, oltre Aristotele, nella sua straordinaria complessità e ricchezza, ci tramanda anche dell’altro, non è solo sistematizzazione patriarcale della “natura”. Figure di donne forti e risolute, capaci di decidere e di agire, di consigliare e temperare gli eccessi passionali di maschi molto caldi, o di incitare all’azione giusta maschi indecisi, fanno da contraltare alla narrazione fisiologica di Aristotele, nel teatro, nella storiografia, nella poesia. Giocasta delle Fenicie, Etra nelle Supplici, Antigone, sono donne che divergono dagli schemi patriarcali e mostrano, agli ateniesi che andavano a teatro, come a noi oggi, le possibilità della potenza femminile. Le narrazioni alternative, le letture possibili del femminile, i percorsi di libertà che le donne possono compiere, oltre gli stereotipi prodotti dall’episteme fisiologico-politica, iniziano già all’epoca dello stabilizzarsi di quell’episteme, di quel sapere che invece vuole irrigidire la differenza sessuale in una gerarchia. Il libro di Giulia Sissa argutamente combatte, con sapienza e ironia, quell’irrigidimento, dando ampio spazio alle potenzialità alternative di narrazioni del femminile.
Agli antipodi di Aristotele c’è, infine, come argomenta la studiosa negli ultimi due capitoli del libro, la luce della modernità, accesa innanzitutto dal pensatore seicentesco Poullain de la Barre, che per primo prende sul serio l’uguaglianza naturale di tutti gli esseri umani, insistendo sulla non naturalità di una inferiorità delle donne. Chi la predica è vittima del proprio pregiudizio – di uomo – o si ferma a semplici apparenze. Dopo di lui, un altro pensatore divergente è il marchese de Condorcet, che in epoca rivoluzionaria sostiene – isolato – la causa del diritto di cittadinanza alle donne, in virtù del fatto che non c’è in natura una inferiorità femminile. Si tratta, anche qui, solo di pregiudizio. Infatti, afferma Condorcet, i diritti scaturiscono esclusivamente dal fatto che gli esseri umani sono «esseri sensibili capaci di acquisire idee morali e ragionare su di esse». È solo frutto di pregiudizio affermare che le donne possano essere escluse da questa definizione universale, che siano incapaci di imparare, ragionare, decidere. La loro inferiorità non è per natura, ma è il prodotto di una specifica cultura, che le priva di adeguata educazione, come afferma, nello stesso periodo, Mary Wollstonecraft.
Insomma, solo poche voci maschili sostengono la causa delle donne, nella lunga storia della loro universale inferiorizzazione. Eppure, a esse – e all’apertura moderna che inaugurano – Sissa affida quella che lei chiama una «nota di ottimismo». Non ci sarà però speranza per il genere umano se la mascolinità non si sottoporrà a una demistificazione, uguale e contraria a quella che le donne hanno faticosamente intrapreso per sottrarsi alla presa invalidante della tradizione. È necessario, scrive Sissa, che anche il corpo maschile di cui Aristotele ci parla, «che si vuole onnipotente, quella virilità che crede che tutto sia permesso, quella soggettività per cui tutto dev’essere fattibile» venga messo in discussione. «Spostare lo sguardo critico su quel corpo vissuto al maschile non corrisponde a ciò che viene chiamato essenzialismo. Il corpo è una sfida, la si può raccogliere in modi diversi».
Olivia Guaraldo su “Alias – Il manifesto”, 10 settembre 2023 (noi l’abbiamo ripreso dal sito della Libreria delle donne di Milano, che ringraziamo! Andate regolarmente sul loro sito: ci sono sempre idee e articoli interessanti!)
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