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Libri, articoli, saggi che ci sono piaciuti e che vi consigliamo

Il Viaggio di Annibale

Il Viaggio di Annibale

Il viaggio di AnnibalePARTE 1 – Sto leggendo il libro di Paolo Rumiz, Annibale – Un Viaggio, edito da Feltrinelli. Si tratta del resoconto del viaggio del giornalista e scrittore Paolo Rumiz, sulle tracce del passaggio di Annibale da Cartagine, alla Spagna, alle Alpi, all’Italia, alla Tunisia, all’Armenia. Un viaggio affascinante, narrato con stile giornalistico “all’americana” (con i nomi delle guide e dei ristoratori), e che riesce a coinvolgere nella passione per la ricerca mitologica, più che storica. Poco importa, dice Rumiz, se Annibale sia passato da questo passo alpino piuttosto che da quell’altro: quello che conta sono le tracce che ha lasciato nelle vallate e nelle storie degli uomini. E di quello che sembra essere alla ricerca l’autore: di un motivo ricorrente che ha fatto di Annibale, vituperato e cancellato dalla storia romana, un personaggio archetipico. Ma qual è questo archetipo? Chi incarna Annibale per noi esseri umani del ventunesimo secolo? Nel libro, e nella nostra interiorità la risposta! 🙂

PARTE 2 – Ho terminato la lettura del libro si Paolo Rumiz su Annibale. Ve lo consiglio caldamente! Intanto vien voglia di partire per un viaggio, dopo la lettura. Non un viaggio da agenzia, ma un viaggio lento, meglio ancora a piedi, fuori dalle vie di comunicazione, su per sentieri e strade abbandonate, alla ricerca non di vecchi sassi ma di miti vissuti (o costruitisi nel passato) e che ancora comunicano qualcosa alla nostra psiche. “Nell’arena non c’è nessuno oltre a noi. Fruscio di passeri nella sterpaglia, passerelle, voragini che si aprono sugli inferi dei gladiatori e delle belve. Il moncone sud dell’anfiteatro che si staglia nel cielo bianco come il teschio di un bisonte. Questo non è il colosseo, infestato di orde in bermuda. Tutto è infinitamente più misterioso, come sulla Trebbia o a Canne. Dove è passato Annibale la magia resta, e la peste dei non luoghi non attecchisce. C’è un’energia primordiale che percepiamo ovunque.” (pagina 126). Un antico anfiteatro si trasforma da un insieme di rocce abbandonate in un luogo ricco di significato solo se vi associamo il vissuto che stiamo cercando, il mito che ci spinge a cercare quello che ci serve.

Rumiz a pagina 12 racconta di come un compagno di viaggio sulle Alpi, mentre sono alla ricerca del passo alpino attraverso il quale Annibale ha raggiunto l’Italia, rimette nello zaino le guide e le cartine e ne estrae le Storie di Polibio, di cui legge ad alta voce un estratto. “È cambiato tutto. La lettura ci inonda, ci apre i pori della pelle, svela l’energia del luogo. Il Libro, ecco la chiave. Il Libro venuto dal tempo. Improvvisamente le nostre guide, i nostri Baedeker perdono significato. Non importa nulla sapere della quota o dei bivi dei sentieri. Conta solo l’evento narrato e l’immaginario che si scatena in noi”. Proprio così, un viaggio reale ma alla ricerca di un luogo vero per la psiche non di una montagna in particolare. Poi però, anche la guida del mito può chiuderti gli occhi, impedirti di vedere la realtà in cui vivi e in cui il mito si cristallizza momentaneamente, per te e per la tua esperienza di vita. Ed ecco che anche Rumiz decide di tornare a guardare il mondo con gli occhi reali, i suoi, attraverso i quali il mito, Annibale, torna nel mondo. “Prendo l’unica decisione possibile: consumare un distacco dal libro. Temporaneo, almeno. Chiudo Polibio, chiudo Livio, li metto in fondo al sacco e subito mi sento più leggero. I pori della pelle respirano, assetati di meraviglie.” (pagina 65) Verità psichica e realtà terrena: è quando le due si uniscono che la sorpresa e la meraviglia fanno capolino nella ricerca.

PARTE 3 – E poi, ad un certo punto, il mito si fa incerto, sfuggente, va in qualche modo inventato. “Ormai Tito Livio e Polibio non ci fanno più da guide, e il nostro viaggio continua a tentoni” (pagina 167). È l’affrancamento dai maestri, il lasciarsi guidare e stupire dal personaggio, dal mito, che ormai è divenuto parte di noi, e a cui noi diamo vita.

E alla fine, scoperto quello che rimane della tomba di Annibale, un monumento voluto da Atatürk , il padre della moderna Turchia, nel 1934, Rumiz si ritrova “pieno di una forza visionaria enorme” dove la realtà assume “un senso nuovo e invisibile… Certo, non ho trovato le sue ceneri, ma il suo mito sì, ed è questo quello che conta” (pagina 184).

E il mito di Annibale, che spesso si confonde con quello di Ercole, riempie di meraviglia e stupore per la sua ricchezza e per il suo mistero che vien voglia di esplorare personalmente. Al lavoro!

Un’ultima chicca dal libro di Rumiz, che mi ha fatto piacere rileggere: la definizione di OZIO. “Ah, otium, nobilissima parola! Ma dove sta scritto che l’ozio è dei fannulloni? In latino vuol dire un’altra cosa: “tempo libero utilmente impiegato” in studio, giardinaggio, camminate. È la più sublime delle attività umane. Se così non fosse, il lavoro quotidiano non si chiamerebbe negotium, degradazione (o negazione) dell’ozio” (Paolo Rumiz, Annibale. Un Viaggio, Feltrinelli 2008, pagina 135). Lo scrivo così me lo ricordo quando mi faccio sopraffare dalle attività quotidiane! 🙂

Andreas Barella

Cosa facciamo noi de La Voce delle Muse

La trilogia degli Hunger Games

La trilogia degli Hunger Games
La trilogia completa

La trilogia completa

Ho finito tutti e tre i volumi di Hunger Games. La lettura è appassionante e scorre rapida da un colpo di scena all’altro. Però però… la freschezza della novità del primo volume è scomparsa, i collegamenti e i richiami agli archetipi della mitologia, si diluiscono e spariscono nel corso della lettura. Il secondo e soprattutto il terzo capitolo della saga di Katniss divengono libri (e film… sembrano scritti proprio per essere trasferiti sul grande schermo) avventurosi che devono portare a compimento il ciclo narrativo. Ogni quesito riceverà una risposta, ogni arcano sarà svelato, ogni matassa verrà dipanata. Il lettore è soddisfatto, meno l’amante della mitologia: quella capacità di lasciare molti dettagli all’immaginazione e al potere amplificatorio del lettore scompare e ci lascia in mano solo fatti certi e poco spazio per far risuonare l’esperienza della vergine cacciatrice nella nostra vita quotidiana. Katniss, nel corso del secondo e terzo volume, diviene più una supereroina con i noti patemi d’animo dei supereroi torturati a cui ci ha abituato la produzione fumettistica americana… sensi di colpa per l’impossibilità di salvare il mondo, dolore fisico a coprire presupposti dolori psicologici profondi e antichi, solitudine cercata e/o provocata dall’altrui incomprensione…

Andreas

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Hunger Games, il primo film

Hunger Games, il primo film
Katniss: tra eccitazione e paura

Katniss: tra eccitazione e paura

In questo post volevo approfondire l’atroce e crudele concomitanza di due emozioni che attanagliano i partecipanti al reality Hunger Games. I tributi dei dodici distretti sono obbligati a combattere l’uno contro l’altro nell’arena, fino a quando non ne rimarrà vivo uno solo. Inoltre ogni distretto manda due “vittime”, che si conoscono e sanno che solo una di loro potrà (in caso di successo nel gioco) tornare a casa viva. Provengono dallo stesso distretto, ma potenzialmente si devono uccidere tra loro, per avere una qualche speranza. Lo dice anche il malvagio presidente Snow, nel film: “Un po’ di speranza va bene, tanta è pericolosa…” Per cui va bene il sentimento di vicinanza, di fratellanza tra vittime dello stesso distretto, ma non troppo. Il pensiero dietro gli HG è “divide et impera” come dicevano gli antichi: tieni separati i distretti, mettili in concorrenza uno con l’altro, schiacciali con la paura e con l’arroganza del potere che chiede vittime di sangue, e comandali ricordando loro che potresti annientarli ma non lo fai perché sei buono. “Capitol City ha riportato la pace nel paese, dopo il periodo buio della rivolta,” recita il filmato prima della mietitura. Una logica basata sulla paura, sulla possibilità di farla franca (“due vittime all’anno… magari non tocca a me”), sull’accettazione della forza spropositata della Capitale che punisce senza pietà ogni tentativo di ribellione, sul senso di colpa per aver causato dolore a tutta la nazione con la ribellione di tre quarti di secolo prima. Divide et impera, quindi. Ogni distretto è solo, isolato, non sa nulla di cosa capita negli altri distretti. E questo permette alla capitale di controllarli meglio. Ma è interessante notare che i ragazzi partecipanti agli Hunger Games ne subiscono il fascino. Cresciuti guardando la programmazione televisiva obbligatoria di Capitol City, conoscono i “giochi” e sanno del successo e del prestigio di cui godono i vincitori. Per cui quando vengono intervistati prima dell’entrata nell’arena, si confrontano con la pressione della notorietà, con la possibilità di sedurre sponsor e pubblico. È forse la metafora più crudele del nostro mondo: adolescenti (i partecipanti agli HG hanno tra 12 e 18 anni) con un ricco potere mediatico e finanziario che fanno sognare i ricchi di Capitol City e anche in parte i poveri dei distretti (il reality è uno strumento di morte e punizione, ma di fatto l’unica remota possibilità di migliorare finanziariamente il proprio livello di vita). “Devi dare la vita, devi rischiare di morire per il potere, se vuoi che, dopo aver venduto l’anima al diavolo, dopo aver ucciso altri poveracci come te, noi ti riconosciamo come degno di farci sognare e ti riempiamo di oro e cibi buonissimi”. Per Capitol City, solo chi tradisce i propri simili, solo chi sopravvive per permettere al Potere di ricordare a tutti che chi sta alle regole dei giochi (=uccide in nome del potere) viene premiato. Terribile!

Le immagini del film sono molto azzeccate e vedere Katniss con il fatuo presentatore televisivo rende proprio l’idea dell’essere spaesati e bilanciati tra emozioni contrastanti: paura di morire e eccitazione per la notorietà, per il fatto di essere in grado di entusiasmare le folle con la propria storia. “Sii te stessa,” dice Cinna a Katniss prima che essa esca sul palco. La semplicità da “buoni selvaggi” dei tributi dei distretti agricoli o industriali piace molto a Capitol City. Anche Katniss, benché attenta e guardinga, viene in parte sedotta dal potere della notorietà. Che pero, come si apprende subito dopo, uccide. Nel film in modo letterale, nella nostra società la ricerca di un successo facile basato sulla presenza e freschezza della giovane età seduce e rovina in modi più sottili.

Andreas

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Hunger Games, la vergine cacciatrice

Hunger Games, la vergine cacciatrice
Katniss

Katniss

Su pressante richiesta di una ragazzona bionda con i rasta (mia figlia) ho letto il primo volume di Hunger Games, il fortunato romanzo di Suzanne Collins. Vi confesso… ho iniziato un po’ di controvoglia, ma appena cominciata la lettura, sono stato assorbito dal ritmo accattivante della narrazione e dalla ricchezza del substrato simbolico che traspare dal racconto. La storia è abbastanza semplice: a seguito di una catastrofe ecologica (appena menzionata in un paio di frasi) il mondo è sprofondato in un medioevo prossimo venturo. Nel continente nordamericano vi è una ricca capitale, Capitol City, e 12 distretti poverissimi e sottomessi alla capitale che 75 anni prima si sono ribellati al potere centrale. Per punire i distretti la Capitale li obbliga ogni anno a spedire due ragazzi (un maschio e una femmina tra i 12 e i 20 anni) per partecipare a un reality show in cui i 24 ragazzi si affrontano fino alla morte. L’unico che rimane vivo alla fine, vince e viene ricoperto di gloria e denaro. Il reality è una sorta di controllo sociale e politico sui distretti, ai quali viene ricordato costantemente che ribellarsi al potere centrale è un peccato mortale. Il libro è la storia di una di questi “tributi” (il nome che viene dato alle 24 vittime del gioco), Katniss, una ragazza del distretto 12 (dove si estrae il carbone dalla miniere) che caccia di frodo nei boschi appena al di fuori della recinzione che delimita il territorio del distretto. Katniss è quindi una bravissima arciera, cosa che la aiuterà nel suo tentativo di sopravvivenza…

Ora, naturalmente non vi svelerò la trama se non la conoscete… 🙂 ma volevo tracciare qualche collegamento tra il romanzo e gli aspetti mitologici che contiene. Il primo che balza all’occhio è quello dei tributi umani per espiare le colpa di una comunità nei confronti di un’altra, che ricorda il mito di Teseo e il Minotauro. Anche lì Atene deve pagare un tributo di sette ragazzi e sette ragazze (ogni nove anni) a Creta, e queste giovani vite vengono date in pasto al Minotauro, che sta al centro dell’impero cretese, nascosto nel labirinto sotto al Palazzo di Cnosso. Teseo e Katniss si offrono entrambi volontari per partire. In Hunger Games il labirinto è l’arena dove si svolge il reality show: luogo sterminato e pieno di boschi, fiumi, laghi e pericoli naturali e orchestrati dagli strateghi del “gioco” e nel quale si entra per non uscire più. Il filo d’Arianna esiste? Sì, c’è pure quello in Hunger Games, ma non ve lo svelo per non rovinarvi la sorpresa… c’è, e come nel mito, si basa sui sentimenti  che i due tributi del distretto 12 (Katniss e Peeta) hanno una per l’altro.

Il Teseo di Hunger Games non è un uomo ma una ragazza, Katniss, appunto. E lei ricorda un altro personaggio mitologico: la vergine guerriera, Atalanta la cacciatrice o la sua dea di riferimento che è Artemide, la dea della caccia. Katniss si sente veramente viva solo nel suo regno, il bosco, quando può cacciare e prendersi cura della sua famiglia. E quando, in definitiva, si sente libera e in armonia con la natura (cosa che cercherà di fare anche nell’arena). Vergine in quanto “pura”, che ha deciso di vivere separata dal mondo maschile, anche se il suo cammino si incrocia spesso con quello maschile: molti cacciatori sono uomini. Katniss, come Atalanta, vive il rapporto con il maschile in modo conflittuale, se si sposa va incontro a guai (Atalanta ha un oracolo che le sconsiglia di convolare a nozze, Katniss sa che i suoi eventuali figli sarebbero futuri possibili concorrenti di una nuova edizione dei giochi mortali). Nei due link che trovate sopra potete scoprire molti altri punti in comune tra la protagonista del libro e gli archetipi che l’hanno ispirata. E, mi auguro, scoprirete come è affascinante tracciarli e arricchire la nostra visione del mito, del romanzo, della nostra esperienza di lettura.

Un ultimo pensiero: Capitol City con la sua ricchezza e frivolezza, con i suoi capelli e carnagioni azzurrine, con i facili entusiasmi per scenari raccapriccianti e fatui, siamo ovviamente noi, il ricco mondo occidentale. E i Distretti poveri, che lavorano e muoiono per garantire il superfluo a chi ha già tutto, chi sono? Chi, nella nostra società è parte integrante di essa ma non gode dei frutti del proprio lavoro e sopravvive a stento e si sacrifica per il padrone? A voi la ricerca di una risposta, io non l’ho ancora trovata. Quello che mi è chiaro, e lo dico seduto alla mia bella scrivania e con un bel caffè caldo davanti, è che l’umanità che traspare dai miserabili che vivono schiavizzati nei distretti, la vita che conducono, seppur sempre a un passo dalla morte, è preferibile a quella senza senso dei decadenti, vacui abitanti di Capitol City.

Una lettura interessante. Del primo volume è già uscito qualche tempo fa la versione cinematografica. Ora torno alla lettura del secondo volume! In attesa del film in uscita tra poche settimane.

Qui il trailer del primo film

Andreas

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Atalanta la Cacciatrice

Atalanta la Cacciatrice
Atalanta e Peleo si contendono la pelle e il trofeo del cinghiale calidonio

Atalanta e Peleo si contendono la pelle e il trofeo del cinghiale calidonio

Il testo che segue è tratto da Andreas Barella, Adolescenza il Giardino Nascosto, Casa editrice Ericlea, 2010.  

“Cominciamo dalla storia, adattata dalla versione raccolta da Robert Graves. Le storie utilizzate per il lavoro pratico sono qui riportate al tempo verbale al presente in quanto così vengono narrate e percepite durante la messa in scena.

Atalanta dai piè veloci è l’unica figlia di Iaso e di Climene. Iaso desiderava un erede maschio, e alla nascita di Atalanta rimane tanto deluso che abbandona la bimba sulla collina Partenia presso Calidone. Artemide la salva mandandole un’Orsa che la allatta. Più grande, Atalanta cresce in un gruppo di pastori che l’hanno trovata e allevata, rimane vergine e porta sempre arco e frecce con sé. Un giorno giunge assetata a Cifanta e, colpita una roccia con la punta della lancia, ne fa scaturire una sorgente.

Un enorme cinghiale mandato da Artemide per punire il re Eneo che si è dimenticato di celebrarla negli annuali sacrifici agli dèi, uccide il bestiame del re, ne dilania i servi e distrugge i raccolti. Il re invia gli araldi in tutta la Grecia per costituire un gruppo di cacciatori che possa fronteggiare la belva. Chiunque l’avesse uccisa, se ne sarebbe assicurato la pelle e le zanne, fonte di grande onore per ogni cacciatore. Molti eroi rispondono, e tra questi anche Atalanta si presenta all’appello. Alcuni uomini non vogliono cacciare in compagnia di una donna, ma Meleagro, il figlio del re Eneo, ne convince alcuni con le buone e alcuni minacciando di annullare la battuta di caccia. In verità Meleagro si è perdutamente innamorato di Atalanta e cerca di ingraziarsela. Atalanta è armata d’arco e di frecce, gli altri di spiedi, di giavellotti e di asce. Ognuno è così smanioso di assicurarsi la pelle della belva che la battuta minaccia di svolgersi in modo disordinato. Su consiglio di Meleagro i cacciatori avanzano in formazione di mezzaluna, a qualche passo di distanza l’uno dall’altro, nella foresta dove il cinghiale ha la sua tana.

Il primo sangue versato non è quello della bestia. Atalanta ha preso posizione all’estrema destra, a una certa distanza dai compagni, e due centauri, Ileo e Reco, che si sono uniti alla caccia, tentano di usarle violenza. Ma non appena si precipitano su di lei, Atalanta li trafigge con le sue frecce e va a combattere al fianco di Meleagro.

Il cinghiale è infine snidato nei pressi di un corso d’acqua fiancheggiato da salici. L’animale balza fuori dal folto, uccide due cacciatori e ne ferisce un altro recidendogli i tendini del garretto, mentre il giovane Nestore, che molto tempo dopo avrebbe combattuto a Troia, trova scampo su un albero. Giasone e alcuni altri scagliano i giavellotti mancando il bersaglio, e il solo Ificle riesce a scalfire una spalla dell’animale. Poi Telamone e Peleo avanzano coraggiosamente con gli spiedi in mano, ma Telamone inciampa in una radice di un albero e, mentre Peleo lo aiuta a rialzarsi, il cinghiale li carica. Atalanta scocca appena in tempo una freccia che colpisce il cinghiale all’orecchio e lo mette in fuga. Anceo grida sprezzante: “Questo non è il modo di cacciare! Guardate me!” Scaglia la sua ascia contro il cinghiale che sta tornando alla carica, ma non è abbastanza svelto: un istante dopo giace a terra castrato e sventrato. Nella sua eccitazione Peleo uccide Eurizione con un giavellotto che avrebbe dovuto colpire il cinghiale, mentre Anfiarao riesce ad accecare la belva con una freccia. Teseo, che ha lanciato un giavellotto a vuoto, sta per essere a sua volta travolto, allorché Meleagro conficca il giavellotto nel ventre del cinghiale e, mentre l’animale gira su se stesso nel tentativo di liberarsi dall’arma, lo trafigge con un colpo di lancia che gli giunge al cuore. Il cinghiale finalmente si abbatte morto al suolo. Subito Meleagro lo scuoia e ne offre la pelle ad Atalanta dicendo: “Tu hai versato il primo sangue; se non ci fossimo accaniti tutti quanti attorno a questa bestia, l’avresti finita con le tue frecce”.

Gli zii di Meleagro sono molto offesi. Il maggiore, Plessippo, protesta dicendo che Meleagro merita la pelle per sé e che, se la rifiuta, bisogna assegnarla alla persona più autorevole fra i presenti, cioè a lui stesso, come cognato di Eneo. Suo fratello minore lo appoggia e sostiene che Ificle e non Atalanta ha versato il primo sangue. Meleagro, infuriato per amore, li uccide entrambi.

Esultante per il successo della figlia Atalanta, il padre Iaso la riconosce degna di essere sua figlia. Quando essa torna trionfante a palazzo, le prime parole del padre sono: “Figlia mia, preparati a prendere marito!” Un annuncio poco gradito per Atalanta, cui un oracolo delfico ha consigliato di non sposarsi. Essa risponde: “Padre, io acconsento ma a una condizione. Ogni pretendente alla mia mano dovrà battermi in una gara di corsa, oppure lasciarsi uccidere da me”. “E così sia,” risponde Iaso.

Molti sventurati principi perdono in tal modo la vita, poiché Atalanta è la più veloce dei mortali; ma Melanione un figlio di Anfidamante l’arcade, invoca l’aiuto di Afrodite. Essa gli dona tre mele d’oro e gli dice: “Atalanta indugerà per raccogliere queste mele se le lascerai cadere a una a una durante la corsa”. Lo stratagemma è coronato da successo. Atalanta si ferma per raccogliere le mele e raggiunge il traguardo subito dopo Melanione.

Le nozze hanno luogo, ma l’ammonimento dell’oracolo si rivela giusto perché un giorno, mentre passano davanti al sacro recinto di Zeus, Melanione induce Atalanta a entrarvi e a giacersi con lui. Irritato da questa profanazione, Zeus li trasforma ambedue in leoni: i leoni, infatti, non si accoppiano fra loro ma soltanto con i leopardi, e dunque Atalanta e Melanione non possono più godere l’uno dell’altra.”

Tratto da: Andreas Barella, Adolescenza, il Giardino Nascosto, Ericlea, 2010. Maggiori dettagli sul libro li trovate qua.