Ho finito tutti e tre i volumi di Hunger Games. La lettura è appassionante e scorre rapida da un colpo di scena all’altro. Però però… la freschezza della novità del primo volume è scomparsa, i collegamenti e i richiami agli archetipi della mitologia, si diluiscono e spariscono nel corso della lettura. Il secondo e soprattutto il terzo capitolo della saga di Katniss divengono libri (e film… sembrano scritti proprio per essere trasferiti sul grande schermo) avventurosi che devono portare a compimento il ciclo narrativo. Ogni quesito riceverà una risposta, ogni arcano sarà svelato, ogni matassa verrà dipanata. Il lettore è soddisfatto, meno l’amante della mitologia: quella capacità di lasciare molti dettagli all’immaginazione e al potere amplificatorio del lettore scompare e ci lascia in mano solo fatti certi e poco spazio per far risuonare l’esperienza della vergine cacciatrice nella nostra vita quotidiana. Katniss, nel corso del secondo e terzo volume, diviene più una supereroina con i noti patemi d’animo dei supereroi torturati a cui ci ha abituato la produzione fumettistica americana… sensi di colpa per l’impossibilità di salvare il mondo, dolore fisico a coprire presupposti dolori psicologici profondi e antichi, solitudine cercata e/o provocata dall’altrui incomprensione…
In questo post volevo approfondire l’atroce e crudele concomitanza di due emozioni che attanagliano i partecipanti al reality Hunger Games. I tributi dei dodici distretti sono obbligati a combattere l’uno contro l’altro nell’arena, fino a quando non ne rimarrà vivo uno solo. Inoltre ogni distretto manda due “vittime”, che si conoscono e sanno che solo una di loro potrà (in caso di successo nel gioco) tornare a casa viva. Provengono dallo stesso distretto, ma potenzialmente si devono uccidere tra loro, per avere una qualche speranza. Lo dice anche il malvagio presidente Snow, nel film: “Un po’ di speranza va bene, tanta è pericolosa…” Per cui va bene il sentimento di vicinanza, di fratellanza tra vittime dello stesso distretto, ma non troppo. Il pensiero dietro gli HG è “divide et impera” come dicevano gli antichi: tieni separati i distretti, mettili in concorrenza uno con l’altro, schiacciali con la paura e con l’arroganza del potere che chiede vittime di sangue, e comandali ricordando loro che potresti annientarli ma non lo fai perché sei buono. “Capitol City ha riportato la pace nel paese, dopo il periodo buio della rivolta,” recita il filmato prima della mietitura. Una logica basata sulla paura, sulla possibilità di farla franca (“due vittime all’anno… magari non tocca a me”), sull’accettazione della forza spropositata della Capitale che punisce senza pietà ogni tentativo di ribellione, sul senso di colpa per aver causato dolore a tutta la nazione con la ribellione di tre quarti di secolo prima. Divide et impera, quindi. Ogni distretto è solo, isolato, non sa nulla di cosa capita negli altri distretti. E questo permette alla capitale di controllarli meglio. Ma è interessante notare che i ragazzi partecipanti agli Hunger Games ne subiscono il fascino. Cresciuti guardando la programmazione televisiva obbligatoria di Capitol City, conoscono i “giochi” e sanno del successo e del prestigio di cui godono i vincitori. Per cui quando vengono intervistati prima dell’entrata nell’arena, si confrontano con la pressione della notorietà, con la possibilità di sedurre sponsor e pubblico. È forse la metafora più crudele del nostro mondo: adolescenti (i partecipanti agli HG hanno tra 12 e 18 anni) con un ricco potere mediatico e finanziario che fanno sognare i ricchi di Capitol City e anche in parte i poveri dei distretti (il reality è uno strumento di morte e punizione, ma di fatto l’unica remota possibilità di migliorare finanziariamente il proprio livello di vita). “Devi dare la vita, devi rischiare di morire per il potere, se vuoi che, dopo aver venduto l’anima al diavolo, dopo aver ucciso altri poveracci come te, noi ti riconosciamo come degno di farci sognare e ti riempiamo di oro e cibi buonissimi”. Per Capitol City, solo chi tradisce i propri simili, solo chi sopravvive per permettere al Potere di ricordare a tutti che chi sta alle regole dei giochi (=uccide in nome del potere) viene premiato. Terribile!
Le immagini del film sono molto azzeccate e vedere Katniss con il fatuo presentatore televisivo rende proprio l’idea dell’essere spaesati e bilanciati tra emozioni contrastanti: paura di morire e eccitazione per la notorietà, per il fatto di essere in grado di entusiasmare le folle con la propria storia. “Sii te stessa,” dice Cinna a Katniss prima che essa esca sul palco. La semplicità da “buoni selvaggi” dei tributi dei distretti agricoli o industriali piace molto a Capitol City. Anche Katniss, benché attenta e guardinga, viene in parte sedotta dal potere della notorietà. Che pero, come si apprende subito dopo, uccide. Nel film in modo letterale, nella nostra società la ricerca di un successo facile basato sulla presenza e freschezza della giovane età seduce e rovina in modi più sottili.
Su pressante richiesta di una ragazzona bionda con i rasta (mia figlia) ho letto il primo volume di Hunger Games, il fortunato romanzo di Suzanne Collins. Vi confesso… ho iniziato un po’ di controvoglia, ma appena cominciata la lettura, sono stato assorbito dal ritmo accattivante della narrazione e dalla ricchezza del substrato simbolico che traspare dal racconto. La storia è abbastanza semplice: a seguito di una catastrofe ecologica (appena menzionata in un paio di frasi) il mondo è sprofondato in un medioevo prossimo venturo. Nel continente nordamericano vi è una ricca capitale, Capitol City, e 12 distretti poverissimi e sottomessi alla capitale che 75 anni prima si sono ribellati al potere centrale. Per punire i distretti la Capitale li obbliga ogni anno a spedire due ragazzi (un maschio e una femmina tra i 12 e i 20 anni) per partecipare a un reality show in cui i 24 ragazzi si affrontano fino alla morte. L’unico che rimane vivo alla fine, vince e viene ricoperto di gloria e denaro. Il reality è una sorta di controllo sociale e politico sui distretti, ai quali viene ricordato costantemente che ribellarsi al potere centrale è un peccato mortale. Il libro è la storia di una di questi “tributi” (il nome che viene dato alle 24 vittime del gioco), Katniss, una ragazza del distretto 12 (dove si estrae il carbone dalla miniere) che caccia di frodo nei boschi appena al di fuori della recinzione che delimita il territorio del distretto. Katniss è quindi una bravissima arciera, cosa che la aiuterà nel suo tentativo di sopravvivenza…
Ora, naturalmente non vi svelerò la trama se non la conoscete… 🙂 ma volevo tracciare qualche collegamento tra il romanzo e gli aspetti mitologici che contiene. Il primo che balza all’occhio è quello dei tributi umani per espiare le colpa di una comunità nei confronti di un’altra, che ricorda il mito di Teseo e il Minotauro. Anche lì Atene deve pagare un tributo di sette ragazzi e sette ragazze (ogni nove anni) a Creta, e queste giovani vite vengono date in pasto al Minotauro, che sta al centro dell’impero cretese, nascosto nel labirinto sotto al Palazzo di Cnosso. Teseo e Katniss si offrono entrambi volontari per partire. In Hunger Games il labirinto è l’arena dove si svolge il reality show: luogo sterminato e pieno di boschi, fiumi, laghi e pericoli naturali e orchestrati dagli strateghi del “gioco” e nel quale si entra per non uscire più. Il filo d’Arianna esiste? Sì, c’è pure quello in Hunger Games, ma non ve lo svelo per non rovinarvi la sorpresa… c’è, e come nel mito, si basa sui sentimenti che i due tributi del distretto 12 (Katniss e Peeta) hanno una per l’altro.
Il Teseo di Hunger Games non è un uomo ma una ragazza, Katniss, appunto. E lei ricorda un altro personaggio mitologico: la vergine guerriera, Atalanta la cacciatrice o la sua dea di riferimento che è Artemide, la dea della caccia. Katniss si sente veramente viva solo nel suo regno, il bosco, quando può cacciare e prendersi cura della sua famiglia. E quando, in definitiva, si sente libera e in armonia con la natura (cosa che cercherà di fare anche nell’arena). Vergine in quanto “pura”, che ha deciso di vivere separata dal mondo maschile, anche se il suo cammino si incrocia spesso con quello maschile: molti cacciatori sono uomini. Katniss, come Atalanta, vive il rapporto con il maschile in modo conflittuale, se si sposa va incontro a guai (Atalanta ha un oracolo che le sconsiglia di convolare a nozze, Katniss sa che i suoi eventuali figli sarebbero futuri possibili concorrenti di una nuova edizione dei giochi mortali). Nei due link che trovate sopra potete scoprire molti altri punti in comune tra la protagonista del libro e gli archetipi che l’hanno ispirata. E, mi auguro, scoprirete come è affascinante tracciarli e arricchire la nostra visione del mito, del romanzo, della nostra esperienza di lettura.
Un ultimo pensiero: Capitol City con la sua ricchezza e frivolezza, con i suoi capelli e carnagioni azzurrine, con i facili entusiasmi per scenari raccapriccianti e fatui, siamo ovviamente noi, il ricco mondo occidentale. E i Distretti poveri, che lavorano e muoiono per garantire il superfluo a chi ha già tutto, chi sono? Chi, nella nostra società è parte integrante di essa ma non gode dei frutti del proprio lavoro e sopravvive a stento e si sacrifica per il padrone? A voi la ricerca di una risposta, io non l’ho ancora trovata. Quello che mi è chiaro, e lo dico seduto alla mia bella scrivania e con un bel caffè caldo davanti, è che l’umanità che traspare dai miserabili che vivono schiavizzati nei distretti, la vita che conducono, seppur sempre a un passo dalla morte, è preferibile a quella senza senso dei decadenti, vacui abitanti di Capitol City.
Una lettura interessante. Del primo volume è già uscito qualche tempo fa la versione cinematografica. Ora torno alla lettura del secondo volume! In attesa del film in uscita tra poche settimane.
Atalanta e Peleo si contendono la pelle e il trofeo del cinghiale calidonio
Il testo che segue è tratto da Andreas Barella, Adolescenza il Giardino Nascosto, Casa editrice Ericlea, 2010.
“Cominciamo dalla storia, adattata dalla versione raccolta da Robert Graves. Le storie utilizzate per il lavoro pratico sono qui riportate al tempo verbale al presente in quanto così vengono narrate e percepite durante la messa in scena.
Atalanta dai piè veloci è l’unica figlia di Iaso e di Climene. Iaso desiderava un erede maschio, e alla nascita di Atalanta rimane tanto deluso che abbandona la bimba sulla collina Partenia presso Calidone. Artemide la salva mandandole un’Orsa che la allatta. Più grande, Atalanta cresce in un gruppo di pastori che l’hanno trovata e allevata, rimane vergine e porta sempre arco e frecce con sé. Un giorno giunge assetata a Cifanta e, colpita una roccia con la punta della lancia, ne fa scaturire una sorgente.
Un enorme cinghiale mandato da Artemide per punire il re Eneo che si è dimenticato di celebrarla negli annuali sacrifici agli dèi, uccide il bestiame del re, ne dilania i servi e distrugge i raccolti. Il re invia gli araldi in tutta la Grecia per costituire un gruppo di cacciatori che possa fronteggiare la belva. Chiunque l’avesse uccisa, se ne sarebbe assicurato la pelle e le zanne, fonte di grande onore per ogni cacciatore. Molti eroi rispondono, e tra questi anche Atalanta si presenta all’appello. Alcuni uomini non vogliono cacciare in compagnia di una donna, ma Meleagro, il figlio del re Eneo, ne convince alcuni con le buone e alcuni minacciando di annullare la battuta di caccia. In verità Meleagro si è perdutamente innamorato di Atalanta e cerca di ingraziarsela. Atalanta è armata d’arco e di frecce, gli altri di spiedi, di giavellotti e di asce. Ognuno è così smanioso di assicurarsi la pelle della belva che la battuta minaccia di svolgersi in modo disordinato. Su consiglio di Meleagro i cacciatori avanzano in formazione di mezzaluna, a qualche passo di distanza l’uno dall’altro, nella foresta dove il cinghiale ha la sua tana.
Il primo sangue versato non è quello della bestia. Atalanta ha preso posizione all’estrema destra, a una certa distanza dai compagni, e due centauri, Ileo e Reco, che si sono uniti alla caccia, tentano di usarle violenza. Ma non appena si precipitano su di lei, Atalanta li trafigge con le sue frecce e va a combattere al fianco di Meleagro.
Il cinghiale è infine snidato nei pressi di un corso d’acqua fiancheggiato da salici. L’animale balza fuori dal folto, uccide due cacciatori e ne ferisce un altro recidendogli i tendini del garretto, mentre il giovane Nestore, che molto tempo dopo avrebbe combattuto a Troia, trova scampo su un albero. Giasone e alcuni altri scagliano i giavellotti mancando il bersaglio, e il solo Ificle riesce a scalfire una spalla dell’animale. Poi Telamone e Peleo avanzano coraggiosamente con gli spiedi in mano, ma Telamone inciampa in una radice di un albero e, mentre Peleo lo aiuta a rialzarsi, il cinghiale li carica. Atalanta scocca appena in tempo una freccia che colpisce il cinghiale all’orecchio e lo mette in fuga. Anceo grida sprezzante: “Questo non è il modo di cacciare! Guardate me!” Scaglia la sua ascia contro il cinghiale che sta tornando alla carica, ma non è abbastanza svelto: un istante dopo giace a terra castrato e sventrato. Nella sua eccitazione Peleo uccide Eurizione con un giavellotto che avrebbe dovuto colpire il cinghiale, mentre Anfiarao riesce ad accecare la belva con una freccia. Teseo, che ha lanciato un giavellotto a vuoto, sta per essere a sua volta travolto, allorché Meleagro conficca il giavellotto nel ventre del cinghiale e, mentre l’animale gira su se stesso nel tentativo di liberarsi dall’arma, lo trafigge con un colpo di lancia che gli giunge al cuore. Il cinghiale finalmente si abbatte morto al suolo. Subito Meleagro lo scuoia e ne offre la pelle ad Atalanta dicendo: “Tu hai versato il primo sangue; se non ci fossimo accaniti tutti quanti attorno a questa bestia, l’avresti finita con le tue frecce”.
Gli zii di Meleagro sono molto offesi. Il maggiore, Plessippo, protesta dicendo che Meleagro merita la pelle per sé e che, se la rifiuta, bisogna assegnarla alla persona più autorevole fra i presenti, cioè a lui stesso, come cognato di Eneo. Suo fratello minore lo appoggia e sostiene che Ificle e non Atalanta ha versato il primo sangue. Meleagro, infuriato per amore, li uccide entrambi.
Esultante per il successo della figlia Atalanta, il padre Iaso la riconosce degna di essere sua figlia. Quando essa torna trionfante a palazzo, le prime parole del padre sono: “Figlia mia, preparati a prendere marito!” Un annuncio poco gradito per Atalanta, cui un oracolo delfico ha consigliato di non sposarsi. Essa risponde: “Padre, io acconsento ma a una condizione. Ogni pretendente alla mia mano dovrà battermi in una gara di corsa, oppure lasciarsi uccidere da me”. “E così sia,” risponde Iaso.
Molti sventurati principi perdono in tal modo la vita, poiché Atalanta è la più veloce dei mortali; ma Melanione un figlio di Anfidamante l’arcade, invoca l’aiuto di Afrodite. Essa gli dona tre mele d’oro e gli dice: “Atalanta indugerà per raccogliere queste mele se le lascerai cadere a una a una durante la corsa”. Lo stratagemma è coronato da successo. Atalanta si ferma per raccogliere le mele e raggiunge il traguardo subito dopo Melanione.
Le nozze hanno luogo, ma l’ammonimento dell’oracolo si rivela giusto perché un giorno, mentre passano davanti al sacro recinto di Zeus, Melanione induce Atalanta a entrarvi e a giacersi con lui. Irritato da questa profanazione, Zeus li trasforma ambedue in leoni: i leoni, infatti, non si accoppiano fra loro ma soltanto con i leopardi, e dunque Atalanta e Melanione non possono più godere l’uno dell’altra.”
Il modo migliore per avvicinarsi alla dea Artemide è quello di leggere qualche mito che la vede protagonista. Consultate qualche buon libro di mitologia per trovare le storie che più vi affascinano (una lista la trovate qui). Il testo che segue è tratto da Andreas Barella, Adolescenza il Giardino Nascosto, Casa editrice Ericlea, 2010.
“Artemide è figlia di Zeus e Latona, nonché sorella gemella di Apollo. Latona, a causa di una maledizione lanciatale dalla moglie di Zeus, Era, per poter mettere al mondo i due bambini è costretta a trovare un luogo che non abbia mai visto la luce del sole. Per questo motivo Zeus fa emergere dal mare un’isola fino allora sommersa che, di conseguenza, il sole non ha ancora toccato. Si tratta dell’isola di Delo, e Latona vi partorisce aggrappata a una palma sacra. Artemide nasce per prima, dopo soli sei mesi di gestazione e aiuta la madre a dare alla luce Apollo che nasce invece il settimo mese. L’infanzia di Artemide non è raccontata da alcun mito giunto fino a noi, ma viene descritta come la dea che si diverte usando l’arco sulle montagne, immagine suggestiva. Giunta all’età di tre anni Artemide, sedendogli sulle ginocchia, chiede al padre Zeus di avverare alcuni suoi desideri: per prima cosa chiede di restare per sempre vergine, poi di non doversi mai sposare e infine di avere sempre a disposizione cani da caccia con le orecchie basse, cervi che tirino il suo carro e ninfe come compagne di caccia. Il padre la asseconda e realizza i suoi desideri. Tutte le sue compagne rimangono così vergini ed Artemide vigila strettamente sui loro voti.
Un giorno Artemide sta facendo il bagno nuda in una valle sul monte Citerone quando arriva il principe tebano Atteone, che sta andando a caccia. Si ferma a guardarla, affascinato dalla sua mirabile bellezza, e ne è talmente incantato che calpesta un ramo e per il rumore Artemide si accorge di lui. Resta così disgustata dal suo sguardo fisso che decide di lanciargli addosso dell’acqua magica e trasformarlo in un cervo: in questo modo i suoi cani, scambiandolo per una preda, lo uccidono sbranandolo. Una versione alternativa della storia narra che Atteone si è vantato di essere un cacciatore migliore di lei e che quindi la dea lo trasformi in cervo, facendolo divorare per vendetta.
Orione è un compagno di caccia di Artemide. Le versioni della leggenda sono diverse: secondo alcune è ucciso dalla dea, secondo altre da uno scorpione inviato da Gea. Alcune storie riportano che Orione tenta di stuprare una delle ninfe di Artemide e che questa lo uccide per punirlo, altre che tenta di stuprare la dea stessa che lo uccide per difendersi. Ma la versione più interessante che distingue Orione da Atteone, è quella che narra che Artemide è innamorata di Orione e vuole sposarlo, ma il fratello Apollo, geloso di questo amore, sfida la sorella a una gara di tiro con l’arco. Apollo afferma che la sorella non è in grado di colpire un tronco galleggiante nel mare, che si vede a malapena dalla spiaggia. Artemide incocca la freccia e infallibilmente colpisce quello che crede un tronco. In realtà è Orione che sta nuotando nelle acque. Distrutta dal dolore, la dea innalza l’amato al livello del cielo, facendolo diventare una costellazione che tutte le notti può ammirare.
Abbiamo con Artemide un personaggio variegato, una dea indipendente dagli uomini, a cui non appartiene, ma che costantemente deve confrontarsi con il potere maschile che cerca di riportarla all’ordine costituito, alle convenzioni. La madre la obbliga a crescere prima del tempo, ancora fanciulla deve già aiutarla nel parto e accudire il fratello gemello. Gli uomini la vedono come un essere pericoloso e mortifero, la storia di Atteone ne è un esempio: chi incontra la dea, chi incontra una donna libera e senza padrone, rischia di essere distrutto da quello che ama di più e di più familiare possiede. Nel caso di Atteone il cacciatore, quello che ha di più caro sono i suoi cani. E anche amare una donna così si rivela pericoloso e mortale: lo stesso Orione è ucciso dalle mani della dea. Insomma, la donna libera fa paura agli uomini greci.
Questo, come detto, è il punto di vista maschile, la storia è vista dalla prospettiva dell’uomo che teme la donna e ne ignora il mistero. È proprio su questo aspetto che vorrei concentrarmi: il mistero femminile e il fascino che esercita sui ragazzi e sulle ragazze stesse, che si apprestano a scoprirlo e svilupparlo. Il mito ci parla di nascita, di servizio della nascita (Artemide nutrice), di un forte legame con il gemello, di una libertà sancita dal padre degli dèi (vergine per i greci significa “libera” non legata a nessun uomo nel matrimonio, e non ha connotazioni legate alla sessualità, che la vergine gestisce liberamente). Ci parla anche di legami femminili, di voti di libertà controllati a vicenda, una sorta di comunità tutta femminile di difesa reciproca della propria libertà. Di forza magica e misteriosa che trasforma gli uomini e li punisce se si avvicinano a lei in modo sbagliato. Di ribellione al mondo maschile, o in altre parole di una visione alternativa e radicalmente diversa della vita e del ruolo dei sessi all’interno del mondo. In realtà tutte le divinità femminili hanno sempre la tendenza, una volta spogliate dalla patina interpretativa aggiunta dagli uomini (che lo ricordo, sono quelli che raccontano le storie che ci sono pervenute dal mondo greco) a ricondurci all’idea della dea Madre, della Grande divinità femminile, quella raffigurata nelle statuette arcaiche nuda in varie attitudini della grande madre che dona se stessa, il suo nutrimento e dà supporto. La Madre Terra, con due grandi seni e una grande pancia, la generatrice di vita che crea il figlio e si unisce ciclicamente allo sposo per generare altri figli. Per questo motivo ingloba in sé vita e morte, nascita e rinascita, come il mondo vegetale che tutti gli autunni sembra fermarsi e ogni primavera rinasce. Come possiamo utilizzare questa dea nel nostro percorso di arricchimento femminile (ma come abbiamo visto anche maschile)? Intanto accettando questa differenza, non lasciando che l’immagine femminile sia stereotipata o fonte di un dominio maschile (che storicamente è millenario nella nostra cultura), non solo della donna ma anche della visione che se ne ha.
Questa è la sfida più affascinante e misteriosa di tutto questo libro, di tutte le idee proposte in queste pagine. Non tocca a me, in quanto uomo, dire in che direzione debba andare questa ricerca. L’importante è che non resti qua sulla carta ma esca nel mondo e nelle classi e nella vita delle ragazze che saranno le donne, le madri, le Artemidi di domani. Il vantaggio del nostro tempo è che la libertà, la parità come persone, ha fatto passi da gigante, e le possibilità di realizzare il mistero della vergine guerriera sono tutte davanti a noi.
Per dare un’idea di suggestioni scaturite dal lavoro esperienziale con giovani persone e di come esse si rapportano con la scoperta del mistero femminile, ecco l’esempio di Atalanta.”
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