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I viaggi di Odisseo – Il Regno di Ade – Parte 3 (di 4)

I viaggi di Odisseo – Il Regno di Ade – Parte 3 (di 4)

Il racconto del mito di Odisseo è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 6: Ulisse – Il viaggio della ragione.

Prima di questo post, se non l’hai ancora letto, leggi: I Viaggi di Odisseo – Eolo, i Lestrigoni e Circe – Parte 2 (di 4)

Odisseo costrinse i suoi uomini a imbarcarsi, poiché a malincuore essi lasciavano l’isola di Eea per recarsi nella terra di Ade. Circe fece spirare un vento favorevole che li spinse verso il fiume Oceano e gli sperduti limiti del mondo dove i Cimmeri avvolti nella nebbia, cittadini del Perpetuo Crepuscolo, vivono senza godere della luce del sole. Quando avvistarono il bosco di Persefone, Odisseo sbarcò e fece esattamente ciò che Circe gli aveva consigliato di fare. La prima ombra ad apparire sui limite della fossa fu quella di Elpenore, uno dei marinai di Odisseo che pochi giorni prima, addormentatosi ubriaco sul tetto del palazzo di Circe, ne era rotolato giù e si era ucciso; Odisseo che, lasciata Eea in gran fretta s’era accorto troppo tardi dell’assenza di Elpenore, gli promise ora solenni esequie. «Se penso che tu sei giunto qui a piedi più rapidamente di noi con la nave!» esclamò. Ma non permise che Elpenore bevesse un solo sorso di sangue, sordo alle sue imploranti suppliche.

Una frotta d’ombre si riunì frattanto attorno alla fossa, uomini e donne d’ogni età, compresa la madre di Odisseo, Anticlea. Ma egli non volle che alcuno bevesse prima di Tiresia. E Tiresia infine apparve, bevve avidamente il sangue e ammonì Odisseo a tenere sotto stretto controllo i suoi uomini non appena avessero avvistato la Sicilia, perché non fossero tentati di rubare la mandria del Titano solare Iperione. In Itaca, poi, egli doveva attendersi ogni sorta di guai, e benché potesse sperare di vendicarsi dei mascalzoni che stavano dilapidando i suoi beni nell’isola natia, i suoi viaggi non sarebbero finiti. Doveva prendere un remo e caricarselo su una spalla e camminare nell’entroterra finché raggiungesse una regione dove gli uomini non mangiavano carne salata e ignoravano le cose del mare tanto da scambiare il remo per un ventilabro. Sacrificando allora a Poseidone, avrebbe potuto ritornare a Itaca e vivere sereno fino a tarda età. Ma la morte gli sarebbe giunta dal mare.

Ringraziato Tiresia e promessogli il sangue di un’altra pecora nera al suo ritorno in patria, Odisseo permise a sua madre di placare la sete. Essa gli diede notizie di Itaca ma tacque discretamente sul conto dei pretendenti di Penelope. Quando infine si congedò, le ombre di molte regine e principesse si strinsero attorno alla fossa per lambire il sangue. Odisseo fu onorato di conoscere personaggi famosi come Antiope, Giocasta, Doride, Pero, Leda, Ifimedea, Fedra, Procri, Arianna, Mera, Climene ed Erifile.

Si intrattenne poi con un gruppo di vecchi compagni: Agamennone, che gli consigliò di sbarcare a Itaca in segreto; Achille, che si rallegrò all’udire notizie delle imprese di suo figlio Nettolemo, e il Grande Aiace, che ancora gli serbava rancore e si allontanò cupo in volto. Odisseo vide inoltre Minosse che giudicava le ombre, Orione intento a cacciare, Tantalo e Sisifo torturati ed Eracle (o meglio l’ombra di Eracle, poiché Eracle stesso banchettava tra gli dei immortali) che lo commiserò per le sue fatiche, paragonandole alle proprie.

Odisseo ritornò dunque a Eea, dove diede sepoltura al corpo di Elpenore e piantò un remo sul tumulo in suo ricordo. Circe lo accolse sorridendo: «Quale ardire hai mostrato visitando la terra di Ade!» disse. «Una sola morte spetta alla maggior parte degli uomini, ma tu ora ne avrai due!» Lo avverti poi che sarebbe passato presso l’Isola delle Sirene, le cui belle voci incantano i marinai. Codeste figlie di Acheloo o di Forci e della Musa Tersicore o Sterope, figlia di Portaone, avevano volti di fanciulle ma zampe e piume d’uccello, e a proposito di questa loro caratteristica si raccontano varie storie: a esempio, che esse stavano giocando con Core quando Ade la rapì e che Demetra, irata perché non erano accorse in aiuto di sua figlia, fece spuntare penne sui loro corpi e ordinò: «Andate a cercare Core in tutto il mondo!» Oppure che Afrodite le trasformò in uccelli perché orgogliosamente rifiutavano di sacrificare la loro verginità a dei o a uomini mortali. Non avevano più la possibilità di volare dal giorno in cui le Muse le avevano sconfitte in una gara di canto, strappando poi loro le ali per farsene delle corone. Ora sedevano cantando in un prato, tra le ossa sbiancate dei marinai che avevano trascinato alla morte. «Tura con cera le orecchie dei tuoi uomini», consigliò Circe a Odisseo, «e se davvero sei curioso di udire i canti delle Sirene fatti legare dai marinai all’albero maestro e inducili a giurare di non scioglierti, per quanto tu li supplichi o li minacci». Quando Odisseo si congedò da lei, Circe lo mise in guardia contro altri pericoli che lo attendevano e infine egli salpò, di nuovo favorito dal vento.

Vai a: I Viaggi di Odisseo – Le Sirene, Calipso, i Feaci – Parte 4 (di 4)

I Viaggi di Odisseo, riassunti dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves

Il piano dell’opera “Grandi Miti Greci” e recensioni agli altri volumi.

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I viaggi di Odisseo – Eolo, i Lestrigoni e Circe – Parte 2 (di 4)

I viaggi di Odisseo – Eolo, i Lestrigoni e Circe – Parte 2 (di 4)

Il racconto del mito di Odisseo è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 6: Ulisse – Il viaggio della ragione.

Prima di questo post, se non l’hai ancora letto, leggi: I viaggi di Odisseo – Partenza e Polifemo – Parte 1 (di 4)

Odisseo puntò la prua verso nord e raggiunse l’isola di Eolo Custode dei Venti, che lo ospitò regalmente per un mese intero e l’ultimo giorno gli offrì un otre zeppo di venti, spiegandogli che fino a quando la bocca ne fosse rimasta chiusa e stretta da un filo d’argento, tutto sarebbe andato bene. Quell’otre conteneva tutti i venti, all’infuori del dolce vento d’occidente, che avrebbe spinto direttamente la flotta attraverso lo Ionio fino a Itaca; ma Odisseo poteva liberare gli altri venti a uno a uno, se per una qualche ragione avesse voluto modificare la rotta. E già si poteva scorgere il fumo che si alzava dai camini del palazzo di Odisseo in Itaca, allorché egli cadde addormentato, sopraffatto dalla stanchezza. I suoi uomini, che attendevano con ansia quel momento, aprirono l’otre dei venti, convinti che contenesse vino. E subito i venti tutti assieme soffiarono galoppando verso la loro dimora e spingendo la nave; così Odisseo si ritrovò nell’isola Eolia. Con profonde scuse implorò l’aiuto di Eolo, ma gli fu risposto che desse di piglio ai remi; nemmeno un soffio del vento dell’ovest gli sarebbe stato concesso. «Non posso aiutare un uomo che è inviso agli dei», gridò Eolo sbattendogli la porta in faccia.

Dopo sette giorni di navigazione Odisseo giunse alla terra dei Lestrigoni governati da re Lamo, e taluni dicono che tale terra si trovasse nella parte nordoccidentale della Sicilia, altri nei pressi di Formia in Italia, dove la nobile gente di Lamia si vanta di discendere da re Lamo; e la cosa pare credibile, perché chi si vanterebbe di discendere dai cannibali se ciò non fosse noto a tutti? Nella terra dei Lestrigoni il giorno e la notte si susseguono così rapidamente che i pastori i quali riconducono le greggi al chiuso al calar del sole danno la voce a quelli che si preparano a uscire all’alba. I capitani della flotta di Odisseo entrarono a vele spiegate nel porto di Telepilo che è chiuso tutt’attorno da rocce scoscese, e spinsero le navi in secco presso un sentiero che serpeggiava su per la vallata. Odisseo, più cauto dei suoi compagni, legò la propria nave a un albero all’imboccatura del porto e mandò tre uomini in ricognizione nell’interno dell’isola. Essi seguirono il sentiero finché si imbatterono in una fanciulla che attingeva acqua a una fonte. Era la figlia di Antifate, capitano dei Lestrigoni, e li guidò alla sua dimora. Ma colà essi furono assaliti da un’orda di selvaggi che afferrato uno di essi lo uccisero per cucinarlo; gli altri due fuggirono a gambe levate e i selvaggi, anziché inseguirli, afferrarono grosse pietre dai fianchi dei monti e le scagliarono sulle navi in secco fracassandole prima che potessero riprendere il mare. Poi, calati sulla riva, fecero strage tra gli equipaggi divorando chiunque capitasse loro tra le mani. Odisseo riuscì a fuggire recidendo con un colpo di spada la gomena che tratteneva la sua nave e incitò i compagni a vogare se era loro cara la vita.

Con l’unica nave rimasta si diresse verso est e dopo un lungo viaggio raggiunse Eea, l’isola dell’alba, dove regnava la dea Circe figlia di Elio e di Persa e dunque sorella di Eete, il feroce re della Colchide. Circe era maga esperta in ogni sorta di incantesimi, ma nemica del genere umano. Quando si estrasse a sorte chi dovesse rimanere di guardia sulla nave e chi dovesse scendere a terra, toccò a Euriloco di esplorare l’isola con altri ventidue compagni. L’isola era ricca di querce e di altri alberi d’alto fusto e dopo aver vagato tra i boschi gli uomini giunsero infine al palazzo di Circe che sorgeva in un’ampia radura al centro dell’isola. Lupi e leoni erravano lì attorno, ma anziché assalire Euriloco e i suoi compagni, affettuosamente li lambirono con la lingua, ritti sulle gambe posteriori. Li si sarebbe detti esseri umani e tali erano infatti, trasformati in bestie dagli incantesimi di Circe.

Circe sedeva nella sala del palazzo e cantava, intenta al suo telaio. Quando udì il richiamo di Euriloco, si affacciò sulla soglia e con un sorriso invitò tutti a cenare alla sua tavola. Gli uomini accettarono con piacere, e il solo Euriloco, insospettito, indugiò all’esterno, spiando dalle finestre. La dea posò sulla mensa formaggio, orzo, miele e vino; ma i cibi contenevano tarmaci maligni e non appena i marinai ebbero mangiato i primi bocconi la dea li percosse con una verga e li trasformò in maiali. Con maligno sorriso li spinse allora nel porcile, gettò loro una manciata di ghiande e di corniole e li lasciò, richiudendo la porta.

Euriloco ritornò alla nave piangendo e narrò ogni cosa a Odisseo che sguainò la spada e partì per recare aiuto agli sventurati compagni, pur non avendo stabilito un piano ben chiaro nella sua testa. Con grande sorpresa incontrò il dio Ermes che lo salutò cortesemente e gli offrì un talismano per rendere inefficaci gli incantesimi di Circe: un bianco fiore profumato e dalla nera radice, chiamato moli, che gli dei soltanto possono riconoscere e raccogliere. Odisseo accettò grato il dono e, proseguendo il cammino, fu infine accolto da Circe. Quando egli ebbe mangiato il cibo affatturato, la maga gli batté la verga sulla spalla e gli ordinò: «Vai dunque a raggiungere i tuoi compagni!» Ma poiché in segreto aveva fiutato il magico fiore, Odisseo non subì la metamorfosi e subito balzò in piedi sguainando la spada. Circe cadde ai suoi piedi piangendo. «Risparmiami», gridò, «e dividerai il mio letto e regnerai sull’isola al mio fianco». Ben sapendo che le maghe possono indebolire e a poco a poco uccidere i loro amanti, Odisseo volle che Circe giurasse solennemente di non tramare nuovi inganni. Circe giurò su tutti gli dei e dopo aver preparato per Ulisse un bagno tiepido, offertogli vino in coppe dorate e una cena squisita, si preparò a trascorrere con lui la notte in un letto dalle coltri purpuree. Tuttavia, Odisseo si rifiutò di accettare le sue amorose carezze finché ella non avesse liberato i suoi compagni e tutti gli altri marinai tramutati in belve prima di loro. Quando ciò fu fatto, ben volentieri Odisseo rimase in Eea finché Circe gli ebbe partorito tre figli, Agrio, Latino e Telegono.

Venne il giorno in cui Odisseo chiese di ripartire e Circe gli concesse di lasciarla. Prima però doveva scendere nel Tartaro e interrogare Tiresia il veggente che avrebbe profetizzato ciò che lo attendeva in Itaca, se mai vi fosse giunto, e negli anni seguenti. «Lascia che il Vento del Nord gonfi le tue vele», disse Circe, «finché giungerai al fiume Oceano e al sacro bosco di Persefone, denso di bianchi pioppi e di antichi salici. Là dove il Flegetonte e il Cocito confluiscono nell’Acheronte, scava una fossa e sacrifica un giovane ariete e una pecora nera (che io stessa ti fornirò) ad Ade e a Persefone. Lascia che il sangue scorra nella fossa e mentre attendi l’arrivo di Tiresia tieni lontane con la tua spada tutte le altre ombre. Al solo Tiresia permetterai di bere quanto voglia e ascolterai con attenzione i suoi consigli».

Vai a: I Viaggi di Odisseo – Il Regno di Ade – Parte 3 (di 4)

I Viaggi di Odisseo, riassunti dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves

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I viaggi di Odisseo – Partenza e Polifemo – Parte 1 (di 4)

I viaggi di Odisseo – Partenza e Polifemo – Parte 1 (di 4)

Il racconto del mito di Odisseo è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 7: Ulisse – Il viaggio della ragione.

Odisseo salpò da Troia ben sapendo che avrebbe dovuto vagare per altri dieci anni prima di raggiungere Itaca; sbarcò a Ismaro Ciconia e la prese d’assalto. Nel saccheggio che seguì fu risparmiato soltanto Marone, sacerdote di Apollo, che in segno di gratitudine donò a Odisseo alcune giare di vino dolce. Ma i Ciconi che abitavano nell’interno videro densi globi di fumo innalzarsi sopra la città e, assaliti i Greci che bevevano il vino sulla riva del mare, li misero in fuga disordinata. Quando Odisseo riuscì infine a radunare e imbarcare i suoi uomini che avevano subito gravi perdite, un vento furioso di nordest spinse le navi al di là del mare Egeo, verso Citera. Il quarto giorno, approfittando di una temporanea pausa della tempesta, Odisseo tentò di doppiare il capo Malea e di spingersi a nord, fino a Itaca; ma il vento contrario si alzò più forte che mai. Dopo nove giorni di pene e di tormenti si profilò all’orizzonte il promontorio libico dove vivono i mangiatori di loto. Ora il loto è un frutto senza nocciolo, color zafferano e grande pressappoco come una fava, che cresce in grappoli assai belli a vedersi: ma chi ne assaggia perde il ricordo della terra natale; alcuni viaggiatori, tuttavia, lo descrivono come una sorta di mela dalla quale si estrae un sidro molto forte. Odisseo sbarcò per far provvista d’acqua e mandò avanti in esplorazione tre uomini che mangiarono il loto offerto loro dagli indigeni e si scordarono completamente del compito a essi affidato. Impensierito per quel ritardo. Odisseo andò in cerca dei tre marinai e benché si vedesse offrire i magici frutti li rifiutò. Poi, riportati sulla nave i disertori, li mise ai ferri e alzò le vele in gran fretta.

Giunse così a un’isola fertile e boscosa che pareva abitata soltanto da innumerevoli capre selvatiche e ne uccise parecchie per banchettare con le loro carni. Gli equipaggi sbarcarono al completo e a una sola nave fu affidato il compito di compiere in esplorazione il periplo dell’isola. Quella terra apparteneva, ahimè, ai barbari Ciclopi, così chiamati per via dell’unico grande occhio rotondo che baluginava nel mezzo della loro fronte. Ormai scordata l’arte degli avi loro che lavoravano come fabbri per Zeus, erano pastori senza legge né navi né moneta o mercati. Vivevano corrucciati, l’uno lontano dall’altro, in caverne che si allungavano nei fianchi di montagne rocciose. Scorto da lontano l’ingresso di una di tali caverne, che si apriva alto e ombreggiato da piante di lauro al di là di uno steccato, Odisseo e i suoi compagni avanzarono, ignari di trovarsi nella proprietà di Polifemo, gigantesco figlio di Poseidone e della Ninfa Toosa, che era abituato a nutrirsi di carne umana. I Greci sedettero allegramente attorno al focolare, sgozzarono e arrostirono alcuni capretti trovati nella grotta, si servirono dei formaggi allineati nei canestri lungo le pareti e banchettarono in letizia. Verso sera apparve Polifemo. Egli spinse il suo gregge nella caverna e ne chiuse l’ingresso con una pietra così pesante che venti paia di buoi sarebbero riusciti a stento a smuoverla; poi, senza rendersi conto che aveva ospiti, sedette per mungere pecore e capre. Infine, alzò l’occhio dal mastello e vide Odisseo e i suoi compagni riuniti attorno al focolare. Chiese irosamente che cosa mai facessero nella caverna. Odisseo rispose: «Mostro gentile, noi siamo Greci e torniamo alle nostre case dopo il saccheggio di Troia; rammenta, ti prego, ciò che devi agli dei e accoglici ospitalmente». Per tutta risposta Polifemo sbuffò, agguantò due marinai per i piedi, fracassò il loro cranio al suolo e ne divorò le carni crude, spolpando le ossa come un leone montano.

Odisseo avrebbe voluto vendicare i suoi compagni prima dell’alba, ma non si arrischiò, perché soltanto Polifemo aveva la forza necessaria per smuovere il masso di roccia dall’ingresso della caverna. Trascorse dunque la notte col capo stretto tra le mani, elaborando un piano di fuga, mentre Polifemo russava in modo spaventoso. Come prima colazione il mostro uccise e divorò altri due marinai, poi spinse dinanzi a sé il gregge e richiuse l’ingresso della caverna con il masso; ma Odisseo si impadronì di una trave di olivo ancor verde, ne appunti una estremità indurendola al calore del fuoco e poi la nascose sotto un mucchio di sterco. Quella sera il Ciclope ritornò e mangiò altri due dei dodici marinai; ma tosto Odisseo gli offrì cortesemente una tazza del forte vino donategli da Marone di Ismaro Ciconia; per fortuna Odisseo ne aveva portato con sé un otre pieno. Polifemo bevve avidamente e ne chiese una seconda coppa, poiché in vita sua non aveva mai assaggiato niente di più inebriante del siero di latte, e accondiscese a chiedere il nome di Odisseo. «Mi chiamo Oudeis», rispose Odisseo, «o almeno questo è il soprannome che tutti mi danno». Ora, Oudeis significa nessuno. «Ti mangerò per ultimo, caro Nessuno», disse Polifemo.

Non appena il Ciclope cadde nel profondo sonno degli ubriachi, poiché il vino non era stato allungato con acqua, Odisseo e i suoi compagni arroventarono la punta della picca nelle braci del focolare; poi la conficcarono nell’unico occhio di Polifemo e mentre i suoi compagni la premevano verso il basso, Odisseo la fece girare così come gira un succhiello nel legno di una nave. La carne bruciata sibilò e Polifemo lanciò un urlo orribile che indusse tutti i suoi compagni ad accorrere da vicino e da lontano per vedere che cosa mai accadeva. «Sono cieco e il mio dolore è spaventoso!» gridava Polifemo. «Tutta colpa di Oudeis.» «Povero disgraziato», replicarono gli altri Ciclopi, «se, come tu dici, la colpa è di nessuno, di certo la febbre ti fa delirare. Prega il padre tuo Poseidone affinché ti ridoni la salute e smettila di strillare a questo modo!» Se ne andarono brontolando e Polifemo si avvicinò a tastoni all’ingresso della caverna, spostò la pietra e, le mani protese dinanzi a sé, attese ansioso di poter agguantare i Greci mentre cercavano di fuggire. Ma Odisseo legò ciascuno dei suoi compagni sotto il ventre di un ariete con dei vimini, e ne assicurò le estremità ad altri due montoni, distribuendo uniformemente il peso, in modo che il montone sotto il quale stava l’uomo si trovasse nel mezzo e gli altri due ai lati. Per sé scelse un enorme ariete, il capo del gregge, e si aggrappò al pelo del suo ventre con le dita dei piedi e delle mani.

All’alba Polifemo spinse il gregge al pascolo, accarezzando il dorso di ogni bestia per assicurarsi che non vi fosse un uomo sopra a cavalcioni, e indugiò a parlare con voce mesta all’ariete che portava Odisseo. «Perché, caro, non guidi il gregge, come sei solito fare? Forse ti impietosisce la mia sventura?» Ma alla fine lo fece uscire con gli altri.

Così Odisseo riuscì a liberare sé e i suoi compagni, e a spingere l’intero gregge verso la nave. Subito la misero in mare e non appena gli uomini, dato di piglio ai remi, cominciarono a vogare, Odisseo non poté trattenersi dal lanciare un ironico saluto al Ciclope. Per tutta risposta Polifemo scagliò in acqua un masso che cadde a poca distanza dalla prua della nave e sollevò un’onda che per poco non la respinse sulla spiaggia. Odisseo rise e gridò: «Se qualcuno ti chiederà chi ti ha accecato, rispondi che non fu Oudeis, ma Odisseo d’Itaca!» II furibondo Ciclope pregò allora Poseidone: «Padre, fa’ sì che il mio nemico Odisseo, se mai ritorni in patria, vi giunga tardi e a stento, su nave altrui, dopo aver perso tutti i suoi compagni, e nuove sciagure trovi oltre la soglia della sua casa!» Poi scagliò un secondo masso che cadde dietro la nave e la spinse veloce verso la spiaggia dove i compagni di Odisseo lo attendevano ansiosi. Ma Poseidone accolse la supplica di Polifemo e promise di vendicarlo.

Vai a: I Viaggi di Odisseo – Eolo, i Lestrigoni e Circe – Parte 2 (di 4)

I Viaggi di Odisseo, riassunti dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves

Il piano dell’opera “Grandi Miti Greci” e recensioni agli altri volumi.

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Recensione: Ulisse – Il viaggio della ragione

Recensione: Ulisse – Il viaggio della ragione

Dal risvolto di copertina: “Il primo personaggio della letteratura occidentale e il primo uomo moderno, Ulisse, l’eroe che i Greci chiamavano Odisseo: l’eroe che osò superare le colonne d’Ercole, il viaggiatore inquieto simbolo dell’eterna ricerca, l’uomo diviso fra l’amore per la propria patria, la casa, la sposa, e il fascino dell’ignoto, dell’inesplorato: forse l’eroe che più di ogni altro ci è vicino, un eroe imperfetto, che non si sottrae all’avventura, che dubita, si contraddice, ma sempre alza lo sguardo all’orizzonte, mai sazio di esplorare, di scoprire, di superare i propri limiti, di sperimentare e di conoscere. Dante nel XXVI canto dell’Inferno gli fa dire: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, a per seguir virtute e canoscenza”. Celebri terzine che riportano l’attenzione sulla vocazione più alta dell’uomo che Ulisse ci invita, come lo stesso Dante, a non tradire.”

Dall’introduzione di Giulio Guidorizzi: “Ulisse è polymetis, “l’uomo dalle molte astuzie”, ma anche polytropos, “l’uomo dalle molte forme”, che sa recitare tante parti rimanendo sempre lui, l’eroe astuto, il polytlas, “colui che molto sa sopportare”, persino insulti e bastonate, in attesa di trionfare con la sua astuzia. Questo è Ulisse. Un uomo che sa fingere e mentire, ma non è un semplice imbroglione, perché dietro le sue finzioni vi sono compagni da salvare e imprese da compiere. Potrebbe essere immortale e vivere accanto a una dea, ma preferisce tornare, affrontando i pericoli del mare  e quelli che lo attendono in patria, una terra di caprai e pastori, povera, rocciosa, abitata da gente qualunque, ma la sua terra. Ulisse è anche in questo senso l’ultimo degli eroi, con un piede nel mito e l’altro nella realtà quotidiana.”

Oltre alla narrazione del mito, il volume contiene anche approfondimenti sulla sua fortuna nel corso dei secoli, in tutte le forme artistiche: letteratura, pittura, teatro, cinema. Inoltre vi è una tavola genealogica, e un ricco apparato bibliografico e sitografico. Il volume su Ulisse è curato da Simone Beta, professore di filosofia classica presso l’Università di Siena. I suoi ultimi lavori.

L’intera collana di trenta volumi è a cura di Giulio Guidorizzi. Guidorizzi è grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e antropologia del mondo antico. Ha scritto numerosi libri sulla mitologia. Noi vi consigliamo, per iniziare, il suo bellissimo Il mito greco (in due volumi, usciti nel 2009 e nel 2012). Qui una lista di suoi volumi sul mito greco.

Il racconto del mito di Ulisse-Odisseo comincia qua: I viaggi di Odisseo – Partenza e Polifemo – Parte 1 (di 4)
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Il mito di Orfeo e Euridice

Il mito di Orfeo e Euridice

Il racconto del mito di Orfeo e Euridice è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 6: Orfeo – La nascita della poesia

Orfeo, il più famoso poeta e musicista che la storia abbia mai avuto, non ha eguali tra uomini e dèi. È figlio del re Eagro e della musa Calliope. Il Dio Apollo un giorno gli dona una lira e le Muse gli insegnano a usarla. Diviene talmente abile che alla sua dolce musica il fragore dei torrenti cessa e l’acqua si dimentica di proseguire il cammino. Le selve inerti si muovono conducendo sugli alberi gli uccelli; o se qualcuno di questi vola, commuovendosi nell’ascoltare il dolce canto, perde le forze e cade. Le Driadi, uscendo dalle loro querce, si affrettano verso il cantore, e perfino le belve accorrono dalle loro tane al melodioso canto. Orfeo acquista una tale padronanza dello strumento che aggiunge due corde supplementari, portando a nove il loro numero per avere una melodia più soave.

Come prima grande impresa Orfeo partecipa alla spedizione degli Argonauti e quando la nave Argo giunge in prossimità dell’isola delle Sirene, è grazie a Orfeo e alla sua cetra che gli argonauti riescono a non cedere alle insidie nascoste nel canto. Durante la spedizione Orfeo dà innumerevoli prove della forza invincibile della sua arte, salvando la truppa in molte occasioni; con la lira e con il canto fa salpare la nave rimasta inchiodata nel porto di Jolco, dà coraggio ai naviganti esausti a Lemno, placa a Cizico l’ira di Rea, ferma le rocce semoventi alle Simplegadi, si fa amica Ecate, addormenta il drago che custodisce il Vello d’oro.

Ogni creatura ama Orfeo ed è incantata dalla sua musica e dalla sua poesia ma Orfeo ha occhi solo per una donna: Euridice, figlia di Nereo e di Doride che diviene sua sposa. Aristeo, uno dei tanti figli di Apollo, ama perdutamente Euridice e, sebbene il suo amore non sia corrisposto, continua a rivolgerle le sue attenzioni. La fanciulla per sfuggire alle sue insistenze si mette a correre ma ha la sfortuna di calpestare un serpente nascosto nell’erba che la morde, provocandone la morte istantanea. Orfeo, impazzito dal dolore e non riuscendo a concepire la propria vita senza la sua sposa, decide di scendere nell’Ade per cercare di strapparla dal regno dei morti. Lacerato dal dolore, scende allora nel mondo sotterraneo con la sua inseparabile lira per riportarla in vita. Raggiunto lo Stige, è dapprima fermato da Caronte. Orfeo, per oltrepassare il fiume, incanta il traghettatore con la sua musica. Sempre con la musica placa anche Cerbero, il cane a tre teste, guardiano dell’Ade. Una volta raggiunta la sala del trono degli Inferi, Orfeo incontra Ade e Persefone. Giunto al loro cospetto, Orfeo inizia a suonare e a cantare la sua disperazione e solitudine e le sue melodie sono così piene di dolore e di angoscia che gli stessi signori dell’Oltretomba si commuovono; le Erinni piangono; la ruota di Issione si ferma e i perfidi avvoltoi che divorano il fegato di Tizio non hanno il coraggio di continuare nel loro macabro compito; Sisifo si può fermare per un po’ a riposare sul sasso che continua a spingere su per la collina. Anche Tantalo dimentica la sua sete. Per la prima volta nell’oltretomba si conosce la pietà. È così che viene concesso a Orfeo di ricondurre Euridice nel regno dei vivi a condizione che durante il viaggio verso la terra la preceda e non si volti a guardarla fino a quando non siano giunti alla luce del sole.

Insieme ad Ermes (che deve controllare che Orfeo non si volti), si incamminano e iniziano la salita. Euridice, non sapendo del patto, continua a chiamare in modo malinconico Orfeo, pensa che lui non la guardi perché è brutta, ma lui, con grande dolore, deve continuare imperterrito senza voltarsi. Appena vede un po’ di luce, Orfeo, capisce di essere uscito dagli Inferi e si volta. Euridice però ha accusato un dolore alla caviglia morsa dal serpente e si è attardata… Orfeo ha trasgredito la condizione posta da Ade. Solo ora Euridice capisce e, all’amato, sussurra parole drammatiche e struggenti: «Grazie, amore mio, hai fatto tutto ciò che potevi per salvarmi». Si danno poi la mano, consapevoli che quella sarà l’ultima volta. Ermes con volto triste ed espressione compassionevole trattiene Euridice per una mano, perché ha promesso ad Ade di controllare ed è ciò che deve fare. Orfeo vede scomparire Euridice e si dispera, perché sa che non la vedrà mai più.

Orfeo per sette giorni cerca di convincere Caronte a condurlo nuovamente alla presenza del signore del regno sotterraneo, ma questi per tutta risposta lo ricaccia alla luce della vita. Orfeo si rifugia allora sul monte Rodope, in Tracia trascorrendo il tempo in solitudine e nella disperazione. Unica sua consolazione è la lira; suona e suona e suona. Gli alberi, i sassi e i fiumi lo ascoltano deliziati. Decide allora di non desiderare più nessuna donna dopo la sua Euridice. Un gruppo di Menadi ubriache lo invita a partecipare a un’orgia dionisiaca. Per tener fede a ciò che ha detto, rinuncia. Le Menadi, infuriate, lo uccidono, lo fanno a pezzi e gettano la sua testa nel fiume Ebro, insieme alla sua lira. La testa cade proprio sulla lira e galleggia, continuando a cantare soavemente. Zeus, toccato da questo prodigio, prende la lira e la mette in cielo formando una costellazione. La testa scende fino al mare e da qui alle rive di Metimna, presso l’isola di Lesbo, dove Febo Apollo la protegge da un serpente che le si è avventato contro.

Secondo altre versioni, i resti del cantore sarebbero stati seppelliti dalle impietosite Muse nella città di Libetra. Le Muse recuperano le membra di Orfeo e le seppelliscono ai piedi del monte Olimpo e ancor oggi, in quel luogo, il canto degli usignoli è più soave che in qualunque altra parte della terra.

La versione del mito di Orfeo ed Euridice è tratta da Orfeo e Euridice di Andreas Barella, edito dalla Casa Editrice Ericlea (per gentile concessione della casa editrice). Vai al sito della Ericlea per una ricca presentazione del volume.

Il piano dell’opera “Grandi Miti Greci” e recensioni agli altri volumi.

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