Il racconto del mito di Achille è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 19: Achille – Il guerriero vulnerabile.
Scoccò il secondo anno della guerra di Troia: giunse la primavera e i combattimenti ripresero. Nel primo scontro Achille invitò Ettore a farsi avanti ma il vigile Eleno gli trafisse il palmo della mano con una freccia scoccata da un arco d’avorio, dono d’amore di Apollo, e lo costrinse ad arretrare. Zeus stesso guidò al bersaglio la punta della freccia, e subito decise di dare un po’ di requie ai Troiani scoraggiati dalle incursioni dei Greci lungo le coste e dalla conseguente diserzione di certi alleati asiatici. Zeus colpì i Greci con una pestilenza e mise in urto Achille con gli altri suoi compagni. Quando Crise venne al campo per riscattare Criseide, Zeus indusse Agamennone a scacciarlo con ingiuriose parole; Apollo, invocato da Crise, si piazzò presso le navi e per giorni e giorni, incessantemente, scagliò le sue frecce tra i Greci. Gli uomini perirono a centinaia benché, come spesso accade, né re né principi fossero colpiti; al decimo giorno Calcante rivelò la presenza del dio. Per invito di Calcante, Agamennone, sia pure a malincuore, rimandò Criseide al padre con doni propiziatori, ma trovò presto un compenso a quella perdita togliendo Briseide ad Achille, che l’aveva avuta in sorte come schiava nella spartizione del bottino. Al che Achille, furibondo, dichiarò che non avrebbe più preso parte alla guerra; e sua madre Teti, indignata, interpellò Zeus, che le promise soddisfazione per Achille. Quando i Troiani si resero conto che Achille e i suoi Mirmidoni si erano ritirati dalla battaglia, ripresero animo e fecero un’audace sortita. Agamennone, allarmato, propose una tregua durante la quale Paride e Menelao si sarebbero battuti in duello per decidere la sorte di Elena e del tesoro rubato. Il duello tuttavia ebbe esito incerto perché Afrodite, quando vide che Paride stava avendo la peggio, lo avvolse in una magica nube e lo trasportò a Troia. Era allora incaricò Atena di rompere la tregua inducendo Pandaro, figlio di Licaone, a scoccare una freccia contro Menelao; al tempo stesso la dea diede a Diomede l’ispirazione di uccidere Pandaro e di ferire Enea e la madre sua Afrodite.
Agamennone, disperato, mandò Fenice, Odisseo, Aiace e due araldi alla tenda di Achille, con l’incarico di offrirgli, per placarlo, innumerevoli doni e la restituzione di Briseide (ancora vergine, come Agamennone era pronto a giurare), se avesse acconsentito a combattere ancora. Occorre qui spiegare che Crise, frattanto, aveva riportato all’accampamento greco sua figlia, che sosteneva di essere stata trattata con molta cortesia da Agamennone e desiderava rimanere con lui: essa era infatti incinta e più tardi diede alla luce Crise secondo, un bimbo la cui paternità era dubbia. Achille accolse i messaggeri con un gentile sorriso, ma rifiutò le loro offerte e dichiarò che l’indomani mattina sarebbe salpato per ritornare in patria. Il giorno seguente, tuttavia, dopo un’aspra battaglia durante la quale Agamennone, Odisseo, Euripilo e Macaone il chirurgo furono feriti, i Greci ripiegarono ed Ettore aprì una breccia nel loro muro. Incoraggiato da Apollo, Ettore si spinse poi verso le navi e nonostante l’aiuto dato da Poseidone ai due Aiaci e a Idomeneo, irruppe nelle linee greche. A questo punto Era, che odiava i Troiani, prese in prestito la cintura di Afrodite e indusse Zeus ad andare a letto con lei; questa astuzia permise a Poseidone di capovolgere le sorti della battaglia in favore dei Greci. Ma Zeus, accortosi di essere stato gabbato, rianimò Ettore che era stato intontito da Aiace con una grossa pietra, ordinò a Poseidone di allontanarsi dal campo di battaglia e rinfocolò il valore dei Troiani. Essi avanzarono di nuovo; Medone uccise Perifete, figlio di Copreo, e molti altri campioni. Perfino il Grande Aiace fu costretto a indietreggiare, e Achille, quando vide alzarsi le fiamme dalla nave di Protesilao incendiata dai Troiani, si scordò del suo rancore e incitò i Mirmidoni ad accorrere in aiuto di Patroclo. Questi aveva scagliato la lancia nel folto dei Troiani riuniti attorno alla nave di Protesilao e aveva trafitto Pirecmo, re dei Peoni. Allora i Troiani, scambiando Patroclo per Achille, fuggirono. Patroclo spense l’incendio, salvò la nave e abbattè Sarpedone. Benché Glauco cercasse di radunare i Lici per impedire che il corpo di Sarpedone fosse spogliato. Zeus permise che Patroclo inseguisse l’esercito nemico fino alle mura di Troia. Ettore fu il primo a ritirarsi, perché gravemente ferito da Aiace.
Patroclo frattanto incalzava da presso i nemici, e avrebbe conquistato Troia da solo se Apollo in gran fretta non fosse salito sulle mura respingendo per tre volte Patroclo con lo scudo, mentre questi tentava di dare la scalata. La battaglia si protrasse fino al calar della notte allorché Apollo, avvolto in una fitta nebbia, assalì Patroclo alle spalle e lo colpì con forza tra le scapole. Patroclo strabuzzò gli occhi, l’elmo gli cadde dal capo, la sua lancia andò in mille pezzi e lo scudo rotolò a terra; e Apollo con un sorriso maligno gli slacciò la corazza. Euforbo figlio di Pantoo vedendo Patroclo ridotto in quello stato, lo ferì senza timore che egli reagisse, e mentre Patroclo si allontanava barcollando, Ettore, ritornato sul campo di battaglia, lo finì con un solo colpo di lancia. Accorse Menelao e uccise Euforbo (che si dice, fra l’altro, si sia reincarnato in seguito nel filosofo Pitagora); poi ritornò alla sua tenda con le spoglie del nemico morto, lasciando che Ettore levasse a Patroclo l’armatura. Menelao e il Grande Aiace ritornarono sul posto e insieme difesero il cadavere di Patroclo fino al crepuscolo, quando riuscirono a portarlo in salvo presso le navi. Achille, avuta la triste notizia, si rotolò tra la polvere abbandonandosi a una crisi di disperazione. Teti entrò nella tenda del figlio recandogli una nuova armatura che comprendeva anche un paio di preziosi schinieri forgiati da Efesio. Achille diede subito di piglio alle armi, si riconciliò con Agamennone (che gli restituì Briseide intatta dicendo di averla voluta per puntiglio e non per desiderio) e uscì dalla tenda per vendicare Patroclo. Nessuno poté resistere alla sua furia. I Troiani ruppero le file e corsero verso lo Scamandro, dove Achille li divise in due gruppi, respingendone uno verso le mura della città e l’altro nelle acque del fiume. Il dio del fiume si precipitò su Achille con violenza, ma Efesio prese le difese dell’eroe e prosciugò le acque col calore di una fiammata improvvisa. I Troiani superstiti si rifugiarono in città come un branco di cerbiatti terrorizzati.
Quando infine Achille si trovò a faccia a faccia con Ettore e lo sfidò a duello, le due schiere nemiche arretrarono e rimasero a guardare attonite. Ettore voltò le spalle all’avversario e cominciò a correre attorno alle mura della città: con tale manovra sperava di stancare Achille che per molto tempo era rimasto inattivo e doveva dunque avere il fiato corto. Ma si sbagliava. Achille lo inseguì per tre volte attorno alle mura, sempre pronto a precederlo e a sbarrargli il passo se Ettore cercava rifugio presso una porta per ricorrere all’aiuto dei suoi fratelli. Infine Ettore si fermò, deciso a sostenere l’attacco, e subito Achille gli trapassò il petto e rifiutò di concedere il favore che Ettore morente implorava: che il suo corpo potesse essere riscattato per le esequie. Impossessatosi dell’armatura del morto. Achille gli tagliò la carne dietro i tendini dei talloni, passò strisce di cuoio nei fori e le legò al suo cocchio, poi incitati con la frusta Balio, Xanto e Pedaso, trascinò il cadavere verso le navi al piccolo trotto. La testa di Ettore, coi neri riccioli spioventi, sollevò una nube di polvere. Achille si occupò poi delle esequie di Patroclo. Quasi a placare il dolore per la morte di Patroclo, Achille si alzava ogni mattina e trascinava tre volte il corpo di Ettore attorno alla tomba dell’amico perduto. Tuttavia Apollo protesse il cadavere impedendo che si corrompesse o lacerasse e infine, per ordine di Zeus, Ermete guidò Priamo al campo greco col favore delle tenebre e indusse Achille ad accettare il prezzo del riscatto. In quella occasione Priamo si dimostrò molto magnanimo nei confronti di Achille, poiché lo trovò addormentato nella sua tenda e avrebbe potuto facilmente ucciderlo. Il prezzo del riscatto fu fissato in tanto oro quanto pesava il corpo di Ettore. I Greci portarono una bilancia dinanzi alle mura della città, posero il cadavere su un piatto e invitarono i Troiani a gettare oro sull’altro piatto. Quando già si era dato fondo al tesoro di Priamo e il greve corpo di Ettore ancora premeva il piatto della bilancia verso il basso, Polissena, che stava a guardare dalle mura, gettò giù i suoi braccialetti per completare il peso. Pieno di ammirazione, Achille disse a Priamo: «Tieniti il tuo oro; preferisco barattare il corpo di Ettore con Polissena. Dammela in sposa, e se restituirai Elena a Menelao, mi incaricherò di ristabilire la pace tra il mio popolo e il tuo». Ma a Priamo, per il momento, bastava riscattare il corpo di Ettore con l’oro. Promise tuttavia di dare Polissena in sposa ad Achille se egli avesse indotto i Greci ad andarsene senza Elena. Achille replicò che avrebbe fatto il possibile, e Priamo si portò via il cadavere del figlio.
ll mito di Achille, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
“In qualche modo bisognerà pur morire, e allora facciamolo qui, almeno daremo a qualcuno la sua gloria, o qualcuno la darà a noi.” (Alessandro Baricco, Omero, Iliade)
Dal risvolto di copertina: “Oltre l’immagine classica di forza e bellezza, di invincibilità – se non fosse per il noto tallone – e di fascino, leggiamo in queste pagine di un Achille dalla storia complessa. Nato da un matrimonio combinato dagli dèi, quello di Peleo e Teti, venne cresciuto dal centauro Chirone, ma fu da sempre predestinato alla guerra e alla morte sotto le mura di Troia. Fu amato da tanti: dalla principessa Deidamia che gli diede il figlio Neottolemo, da Patroclo, l’amico più intimo, da Briseide, fatta schiava… anche d’amore. Senza dimenticare l’immortale madre, Teti, una divinità marina che da vicino seguì, per tutta la sua vita, le vicende del figlio, intervenendo, dove poteva, a suo favore. Dalle donne al campo di battaglia, l’indimenticabile e feroce sfida con Ettore e la condanna finale. Il tutto sotto il vigile controllo divino: un eroe che non sfuggì a ciò che gli dèi avevano scritto per lui.”
Dall’introduzione di Giulio Guidorizzi: “Generoso, efferato, istintivo, invincibile: Achille è un nodo di contraddizioni ma appunto per questo nessun altro personaggio di Omero è più grande ed esemplare di lui. ‘Io – dice in un passo dell’Iliade – odio chi ha una parola sulla bocca e un’altra nel cuore.’ il contrario di Ulisse (infatti i due non si amano) che è tutto astuzia e prudenza. In generale, Achille fu per i Greci il perfetto modello di vita eroica.”
Oltre alla narrazione del mito, il volume contiene anche approfondimenti sulla sua fortuna nel corso dei secoli, in tutte le forme artistiche: letteratura (con una ricca antologia di testi classici sul mito), pittura, teatro, cinema. Inoltre vi è una tavola genealogica, e un ricco apparato bibliografico e sitografico. Il volume su Elena è curato da Tommaso Braccini, docente di filologia classica presso l’università di Torino. Qui gli ultimi volumi pubblicati.
L’intera collana di trenta volumi è a cura di Giulio Guidorizzi. Guidorizzi è grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e antropologia del mondo antico. Ha scritto numerosi libri sulla mitologia. Noi vi consigliamo, per iniziare, il suo bellissimo Il mito greco (in due volumi, usciti nel 2009 e nel 2012). Qui una lista di suoi volumi sul mito greco.
Il racconto del mito di Afrodite è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 18: Afrodite – La primavera dell’amore.
Ben di rado Afrodite cedeva in prestito alle altre dee il magico cinto che faceva innamorare chiunque lo portasse, poiché era molto gelosa dei suoi privilegi. Zeus l’aveva data in sposa a Efesto, il dio fabbro zoppo. Ma il vero padre dei tre figli che essa diede alla luce, Fobo, Deimo e Armonia, era Ares, il dio dal membro eretto, l’impetuoso, litigioso e ubriacone dio della guerra. Efesto non si accorse di essere ingannato finché gli amanti indugiarono a letto troppo a lungo nel palazzo di Ares in Tracia, ed Elio, sorgendo nel cielo, li scoprì intenti ai loro piaceri, e andò a raccontare tutto a Efesto. Efesto, furibondo, si ritirò nella sua fucina e forgiò una rete di bronzo, sottile come un velo ma solidissima, e la assicurò segretamente ai lati del suo talamo. Quando Afrodite ritornò dalla Tracia, tutta sorrisi e con la scusa pronta (assicurò infatti che si era recata a Corinto per sbrigare certe faccende), Efesto le disse: «Perdonami, cara consorte, ma debbo recarmi per una breve vacanza a Lemno, la mia isola favorita». Afrodite non si offrì di accompagnarlo, anzi, non appena Efesto fu partito, mandò a chiamare Ares, che si precipitò al palazzo. Ambedue si coricarono senza por tempo in mezzo nel talamo di Efesto, ma all’alba si trovarono prigionieri della rete, completamente nudi e senza possibilità di scampo. Efesto, ritornato dal suo viaggio, li colse sul fatto e invitò tutti gli dèi a far da testimoni al suo disonore. Annunciò poi che non avrebbe liberato la moglie finché non gli fosse stata restituita la preziosa dote che aveva dovuto pagare a Zeus, padre adottivo della sposa. Gli dei accorsero subito per vedere Afrodite nell’imbarazzo, ma le dee, per un delicato senso di pudore, rimasero a casa. Apollo, canzonando Ermes, gli disse: «Scommetto che non ti spiacerebbe trovarti al posto di Ares, con la rete e il resto». Ermes giurò sulla testa che non gli sarebbe spiaciuto affatto, anche se le reti fossero state tre anziché una, e, mentre le dee scuotevano la testa in segno di disapprovazione, Ermes e Apollo scoppiarono in una gran risata. Zeus era così disgustato che rifiutò di restituire la dote o di intromettersi in un litigio tanto volgare tra moglie e marito, dichiarando che Efesto era stato uno sciocco a mettere in piazza gli affari suoi. Poseidone che, al vedere il nudo corpo di Afrodite, si era subito innamorato di lei e a fatica celava la sua gelosia per Ares, finse di prendere le parti di Efesto. «Poiché Zeus rifiuta di venirti in aiuto», gli disse, «propongo che Ares, per riavere la libertà, ti paghi il valore equivalente alla dote di cui si discuteva poc’anzi». «Benissimo», rispose Efesto di cattivo umore, «ma se Ares non mantiene la promessa dovrai prendere il suo posto sotto la rete». «In compagnia di Afrodite?» chiese Apollo ridendo. «Non posso nemmeno immaginare che Ares non mantenga la promessa», disse Poseidone, «ma se non la mantenesse, sono pronto a pagare il debito in vece sua e a sposare Afrodite». Così Ares fu rimesso in libertà e ritornò in Tracia, mentre Afrodite andò a Pafo, dove ricuperò la propria verginità bagnandosi nel mare.
Lusingata dall’aperta dichiarazione d’amore di Ermes, Afrodite passò una notte con lui, e il frutto di quella breve avventura fu Ermafrodito, creatura dal doppio sesso. Afrodite ringraziò a modo suo anche Poseidone per essere intervenuto in suo favore, e gli generò due figli. Rodo ed Erofilo. Inutile dire che Ares non mantenne la sua promessa, sostenendo che, se Zeus si era rifiutato di pagare, egli poteva fare altrettanto. Alla fine Efesto rinunciò al risarcimento, perché era pazzamente innamorato di Afrodite e non aveva intenzione di divorziare da lei. Afrodite cedette poi anche alle lusinghe di Dioniso e gli generò Priapo, un orrendo fanciullo dagli enormi genitali: fu Era che gli diede quell’osceno aspetto, in segno di disapprovazione per la promiscuità di Afrodite. Priapo è giardiniere e porta sempre con sé un coltello da potatura. Benché Zeus, contrariamente a quanto taluni sostengono, non si giacesse mai con Afrodite, sua figlia adottiva, la magica cintura agiva anche su di lui sottoponendolo a una tentazione continua, ed egli infine decise di umiliare la dea facendola innamorare disperatamente di un mortale. Costui fu il bell’Anchise, re dei Dardani, nipote di Ilo: una notte, mentre egli dormiva nella sua capanna di mandriano sul monte Ida, presso Troia, Afrodite si recò da lui travestita da principessa frigia, il corpo avvolto in un manto di un bel rosso smagliante, e si giacque con Anchise su un letto di pelli d’orso e di leone, mentre le api ronzavano loro attorno. Quando all’alba si separarono, Afrodite rivelò al giovane la sua identità e gli fece promettere di non dire ad alcuno che era andato a letto con lei. Anchise, atterrito all’idea di avere svelato la nudità di una dea, la supplicò di risparmiargli la vita. Afrodite lo rassicurò dicendo che non aveva nulla da temere, e che il loro figliolo sarebbe diventato famoso. Alcuni giorni dopo, mentre Anchise stava bevendo in compagnia di certi amici, uno di essi gli chiese: «Non pensi sia più piacevole andare a letto con la figlia del Tal dei Tali anziché con Afrodite?» «No», rispose sbadatamente Anchise, «perché sono andato a letto con tutte e due e il paragone mi sembra assurdo». Zeus udì questa vanteria e scagliò contro Anchise una folgore che l’avrebbe ucciso senz’altro, se Afrodite non l’avesse salvato all’ultimo momento proteggendolo con la magica cintura. La folgore scoppiò ai piedi di Anchise senza ferirlo, ma lo spavento fu tale che il giovane da quel giorno non riuscì più a raddrizzare la schiena e Afrodite, dopo avergli generato il figlio Enea, perse ogni interesse per lui.
Un giorno la moglie di re Cinira di Cipro stupidamente si vantò che sua figlia Smirna era più bella della stessa Afrodite. La dea si vendicò di quell’insulto facendo sì che Smirna si innamorasse di suo padre e si introducesse nel suo letto in una notte buia, quando Cinira era tanto ubriaco da non capire quel che stava accadendo. Più tardi egli scoprì d’essere al tempo stesso padre e nonno del figlio che Smirna portava in grembo e, pazzo di rabbia, afferrò una spada e inseguì Smirna fuori del palazzo. La raggiunse sul ciglio di una collina, ma in gran fretta Afrodite trasformò Smirna in un albero di mirra, che fu tagliato in due dal gran fendente vibrato da Cinira. Dal tronco uscì il piccolo Adone. Afrodite, già pentita dell’errore commesso, chiuse Adone in un cofano e lo affidò a Persefone, regina dei Morti, chiedendole di celarlo in qualche angolo buio. Persefone, mossa dalla curiosità, aprì il cofano e vi trovò dentro Adone. Il fanciullo era così bello che Persefone lo portò con sé nel suo palazzo. Afrodite fu informata della cosa e subito scese nel Tartaro per reclamare Adone. E quando Persefone non volle cederglielo perché ne aveva già fatto il suo amante, Afrodite si appellò a Zeus. Zeus, ben sapendo che anche Afrodite era smaniosa di andare a letto con Adone, rifiutò di dirimere una questione così sgradevole e la deferì a un tribunale di minore importanza, presieduto dalla Musa Calliope. Il verdetto di Calliope fu che Persefone e Afrodite avevano uguali diritti su Adone, poiché Afrodite l’aveva salvato al momento della nascita, e Persefone l’aveva salvato in seguito, aprendo il cofano; tuttavia bisognava concedere al giovane una breve vacanza annuale, perché non dovesse sempre soggiacere alle amorose pretese delle due insaziabili dee. Calliope divise dunque l’anno in tre parti eguali: Adone avrebbe trascorso la prima in compagnia di Persefone, la seconda in compagnia di Afrodite, e la terza da solo. Afrodite non si comportò lealmente: indossando sempre la magica cintura indusse Adone a trascorrere con lei anche quella parte dell’anno che gli spettava come vacanza e ad accorciare il periodo che spettava a Persefone, disobbedendo così agli ordini del tribunale. Persefone, giustamente irata, andò in Tracia e disse al suo benefattore Ares che ormai Afrodite gli preferiva Adone. «Un semplice mortale», aggiunse, «e per di più effeminato!» Ares si ingelosì e, trasformatesi in cinghiale, si precipitò su Adone che stava cacciando sul monte Libano e lo azzannò a morte davanti agli occhi di Afrodite. Anemoni sbocciarono dal sangue di Adone e la sua anima discese al Tartaro. Afrodite, in lacrime, si recò da Zeus e chiese che fosse concesso ad Adone di trascorrere soltanto la metà più cupa e triste dell’anno in compagnia di Persefone, mentre nei mesi estivi sarebbe ridivenuto il suo compagno. E Zeus magnanimamente acconsentì.
Le Moire assegnarono ad Afrodite un solo compito divino, quello di fare all’amore; ma un giorno Atena la sorprese mentre segretamente tesseva a un telaio, e si lagnò che tentasse di usurpare le sue prerogative; Afrodite le fece le sue scuse e da allora non alzò più nemmeno un dito per lavorare.
ll mito di Afrodite, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
“Non è più un fuoco nascosto nelle mie vene, è Venere tutta intera che s’avvinghia alla sua preda.” (Jean Baptiste Racine, Fedra)
Dal risvolto di copertina: “Chi può dire di conoscere l’amore? Forse solo lei che ne è la divinità: Afrodite, poi Venere per i Romani. La sua storia è, insieme, il principio del mondo: persino l’alternarsi della notte e del giorno pare, alle origini, semplice segnale del tempo che passa. Prima di Afrodite, infatti, le potenze divine sono appena sbozzate, corpi accennati a cui manca ancora una chiara cifra anatomica. Afrodite, al contrario, è già una fanciulla, il suo corpo è perfetto, i suoi piedi inaugurano la stagione della primavera fiorente. Nata dalla spuma del mare, a seguito dell’evirazione di Urano, è il frutto di un mistero quale sarà per sempre il sentimento che presiede: l’amore. Dea potentissima, bella di una bellezza straordinaria che non le garantì però il primato nella celebre sfida arbitrata da Paride: solo la promessa dell’amore, della più bella delle belle, Elena, le portò il pomo d’oro, e ai Greci la guerra.”
Dall’introduzione di Giulio Guidorizzi: “La dea greca dell’amore è una figura complessa, in cui confluiscono tratti di antiche divinità mediterranee e orientali dell’amore come Ishtar e Astarte. Da lei dipendono il corteggiamento e la seduzione. suoi epiteti sono “amante del sorriso”, “tessitrice d’inganni”. Nota bene che non è Afrodite ma Era a governare forme istituzionalizzate dell’amore: Afrodite infatti – come dice Omero – è capace di “far perdere il senno ai più saggi.”
Oltre alla narrazione del mito, il volume contiene anche approfondimenti sulla sua fortuna nel corso dei secoli, in tutte le forme artistiche: letteratura (con una ricca antologia di testi classici sul mito), pittura, teatro, cinema. Inoltre vi è una tavola genealogica, e un ricco apparato bibliografico e sitografico. Il volume su Elena è curato da Silvia Romani, docente di Mitologia e Religioni del mondo classico all’Università Statale di Milano. Qui gli ultimi volumi pubblicati.
L’intera collana di trenta volumi è a cura di Giulio Guidorizzi. Guidorizzi è grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e antropologia del mondo antico. Ha scritto numerosi libri sulla mitologia. Noi vi consigliamo, per iniziare, il suo bellissimo Il mito greco (in due volumi, usciti nel 2009 e nel 2012). Qui una lista di suoi volumi sul mito greco.
Quando Elena, la bellissima figlia di Leda, raggiunse l’età da marito, tutti i principi di Grecia si presentarono al palazzo del suo patrigno Tindareo con ricchi doni per chiedere la sua mano, oppure si fecero rappresentare da parenti. Diomede, reduce dalla sua vittoria su Tebe, si trovò colà in compagnia di Aiace, Teucro, Filottete, Idomeneo, Patroclo, Menesteo e molti altri. Anche Odisseo giunse al palazzo, ma a mani vuote, poiché non aveva la minima possibilità di successo. Infatti benché i Dioscuri, fratelli di Elena, volessero maritarla a Menesteo di Atene, essa avrebbe dovuto essere concessa in sposa al principe Menelao, il più ricco degli Achei, rappresentato dal potente genero di Tindareo, Agamennone. E Odisseo lo sapeva. Tindareo non respinse alcuno dei pretendenti né, d’altro canto, volle accettare i doni offerti; poiché temeva che la sua preferenza per questo o quel principe potesse far nascere dispute tra gli altri. Odisseo così gli disse un giorno: «Se ti consigliassi un buon sistema per evitare una disputa, mi aiuteresti tu, in cambio, a sposare Penelope figlia di Icario?» «Affare fatto», rispose Tindareo. «Allora», continuò Odisseo, «il mio consiglio è questo: insisti perché tutti i pretendenti di Elena si impegnino a difendere il suo promesso sposo contro chiunque si adonti per la sua buona sorte». Tindareo convenne che quella era un’ottima soluzione. Dopo aver sacrificato e fatto a pezzi un cavallo, pregò tutti i pretendenti di disporsi in cerchio attorno alle carni sanguinanti e di ripetere il giuramento formulato da Odisseo. La carne del cavallo fu poi bruciata in un punto che ancora si chiama «Tomba del Cavallo».
Non si sa se Tindareo stesso scelse il marito di Elena, oppure se essa indicò la propria preferenza cingendo con una corona il capo dell’eletto. Sposò comunque Menelao che divenne re di Sparta dopo la morte di Tindareo e la divinizzazione dei Dioscuri. Un triste fato tuttavia incombeva sul loro matrimonio: anni prima, mentre stava sacrificando agli dei, Tindareo si era stupidamente scordato di Afrodite che si vendicò giurando di rendere famose per i loro adulteri le tre figlie del re: Clitennestra, Timandra ed Elena. Menelao ebbe da Elena una figlia, che chiamò Ermione; i loro figli maschi furono Eziola, Marafio, da cui si vanta di discendere la famiglia persiana dei Marafioni, e Plistene. Una schiava etolica chiamata Pieride generò poi a Menelao due bastardi gemelli: Nicostrato e Megapente. Perché, ci si chiede, Zeus e Temi fecero scoppiare la guerra di Troia? Forse per rendere famosa Elena che aveva messo l’una contro l’altra Asia ed Europa? Oppure per esaltare la stirpe dei semidei e al tempo stesso decimare le tribù popolose che opprimevano la faccia della Madre Terra? Le ragioni che mossero gli dei rimarranno per sempre oscure, ma la decisione era già stata presa quando Eris gettò la mela d’oro con la scritta «Alla più bella» sul tavolo del banchetto alle nozze tra Peleo e Teti. Zeus Onnipotente si rifiutò di appianare la disputa sorta tra Era, Atena e Afrodite, e lasciò che Ermes guidasse le tre dee sul monte Ida, dove Paride figlio di Priamo avrebbe fatto da arbitro. Ora, poco prima della nascita di Paride, Ecuba sognò di generare una fascina di legna brulicante di serpenti e si destò gridando che la città di Troia e le foreste del monte Ida erano in fiamme. Priamo subito consultò Esaco, il figliolo suo veggente, che annunciò: «II bimbo che sta per nascere sarà la rovina della nostra patria! Ti supplico di liberartene!» Pochi giorni dopo Esaco profetizzò di nuovo: «Le principesse troiane che partoriranno oggi dovranno essere uccise, e così pure i loro figli!» E infatti Priamo uccise sua sorella Cilla e il di lei figlio Munippo, nato quella mattina da segrete nozze con Timete, e li seppellì nel sacro recinto di Troo. Anche Ecuba mise alla luce un bimbo prima del calar del sole, ma Priamo risparmiò le loro vite, benché Erofila, sacerdotessa di Apollo, e altri veggenti, supplicassero Ecuba di uccidere almeno il bambino. Essa non ne ebbe il coraggio e infine Priamo decise di mandare a chiamare uno dei suoi pastori, un certo Agelao, e di affidargli quel triste compito. Agelao, che aveva il cuore troppo tenero per usare la corda o la spada, abbandonò il bimbo sul monte Ida, dove fu allattato da un’orsa. Ritornato sul posto cinque giorni dopo, Agelao rimase di stucco alla vista di quel prodigio e portò con sé il bimbo in una borsa (di qui il nome di Paride) e lo allevò con il proprio figlio appena nato; presentò poi a Priamo la lingua di un cane come prova che i suoi ordini erano stati eseguiti; ma alcuni dicono che Ecuba pagò Agelao perché risparmiasse la vita di Paride e celasse la verità a Priamo.
II nobile sangue di Paride si palesò ben presto nella sua radiosa bellezza, nella sua intelligenza e nella sua forza eccezionale; ancora fanciullo mise in fuga una banda di razziatori e ricuperò le bestie che essi avevano rubate, meritandosi così il soprannome di Alessandro. Benché a quell’epoca egli fosse poco più che uno schiavo, divenne l’amante prediletto di Enone, figlia del fiume Eneo e Ninfa delle fonti. Rea le aveva insegnato l’arte della profezia e Apollo, mentre era mandriano di Laomedonte, l’aveva istruita nella scienza della medicina. Paride ed Enone, radunati i loro greggi, usavano cacciare assieme; egli incideva il nome della Ninfa sulle cortecce dei faggi e dei pioppi. Lo svago favorito di Paride consisteva nel far lottare i tori di Agelao l’uno contro l’altro; coronava poi il vincitore con dei fiori, e il perdente con della paglia. Quando uno di codesti tori cominciò a vincere con regolarità. Paride lanciò una sfida ai tori campioni delle mandrie vicine e tutti furono sconfitti. Infine Paride propose come premio una corona d’oro al toro che riuscisse a superare il suo; Ares allora, per capriccio, si tramutò in toro e riportò la vittoria. Paride senza esitare lo premiò con la corona promessa, e quel gesto piacque molto ad Ares e a tutti gli altri dei che stavano a guardare dall’Olimpo. Ecco perché Zeus lo scelse come arbitro nella contesa delle tre dee. Paride stava pascolando la sua mandria sul monte Gargare, la vetta più alta dell’Ida, quando Ermes, accompagnato da Era, Atena e Afrodite, gli consegnò la mela d’oro e il messaggio di Zeus: «Paride, poiché tu sei un giovane tanto bello quanto esperto negli affari di cuore. Zeus ti ordina di giudicare quale di queste dee è la più bella». Paride dubbioso prese la mela tra le mani. «Come potrebbe un semplice mandriano come me divenire arbitro della divina bellezza?» disse. «Dividerò la mela fra le tre dee.» «No, no», replicò ansioso Ermes, «non puoi disobbedire all’ordine dell’Onnipotente Zeus, ne io sono autorizzato a darti il mio consiglio. Fai buon uso della tua naturale intelligenza». «E così sia», sospirò Paride. «Ma prima vorrei pregare le perdenti di non serbarmi rancore. Sono soltanto un essere umano, in grado di commettere i più stupidi errori.» Le dee in coro promisero di rimettersi alle sue decisioni. «Basterà che io le giudichi così come sono», chiese Paride a Ermes, «oppure debbono essere nude?» «Tocca a te stabilire le regole della gara», rispose Ermes con un discreto sorriso. «In tal caso, vogliono acconsentire a spogliarsi?» Ermes disse alle dee di obbedire ed educatamente voltò loro la schiena. Afrodite fu subito pronta, ma Atena volle che ella si togliesse anche la famosa cintura magica che le dava lo sleale vantaggio di fare innamorare tutti di sé. «Benissimo», rispose Afrodite seccata, «io me la toglierò, ma a patto che tu ti liberi dell’elmo: sei orribile, senza». «Ora, se non vi dispiace», disse Paride, «vorrei esaminarvi a una a una, per non essere distratto dalle discussioni. Avvicinati, divina Era! E voi due, sarete gentili da lasciarci per qualche minuto?» «Esaminami coscienziosamente», disse Era girando piano piano su se stessa per mettere in luce la sua splendida figura, «e ricordati che se mi giudicherai la più bella farò di te il padrone dell’Asia e il più ricco dei viventi». «Io non mi lascio comprare, mia signora… Benissimo, grazie. Ho veduto quanto basta. Vieni avanti, divina Atena!» «Eccomi», rispose Atena avanzando con passo risoluto. «E tu ascoltami. Paride: se sarai tanto assennato da assegnarmi il premio, farò di te il più bello e il più saggio degli uomini, vincitore di tutte le battaglie.» «Sono un umile pastore, non un guerriero», disse Paride, «e tu stessa puoi vedere che la pace regna nella Lidia e nella Frigia, e che la sovranità di re Priamo è incontestata. Ma prometto di tenere in considerazione le tue legittime pretese alla mela. Ora puoi rivestirti e rimetterti l’elmo. È pronta Afrodite?» Afrodite gli scivolò accanto e Paride arrossì perché era tanto vicina che quasi i loro corpi si toccavano. «Guarda bene. Paride, e che nemmeno un particolare ti sfugga… Bada che appena ti vidi, dissi a me stessa: “Parola mia, questo è il più bei giovane dell’intera Frigia! Perché si è seppellito su una montagna badando a una stupida mandria?” Ebbene, perché caro Paride? perché non te ne vai in città per vivere una vita civile? Che ci perderesti a sposare Elena di Sparta, a esempio, che è bella quanto me e non meno ardente? Sono certa che, se ti vedesse, abbandonerebbe la sua casa e la sua famiglia, tutto insomma, per divenire la tua amante. Certo tu hai sentito parlare di Elena!» «Mai fino ad oggi, mia signora, e ti sarò grato se vorrai descrivermela.» «Elena è bionda e di carnagione delicata, poiché nacque da un uovo di cigno. Può vantarsi di avere Zeus come padre, ama la caccia e la lotta, provocò una guerra quando era ancora bambina e, raggiunta l’età da marito, fu chiesta in sposa da tutti i principi della Grecia. Ora è moglie di Menelao, fratello del gran re Agamennone; ma ciò non crea ostacoli, può essere tua se lo vorrai,» «Come è possibile, se è già sposata?» «O cielo! Quanta innocenza! Non hai mai saputo che è mio divino dovere sistemare questioni del genere? Ti consiglio di recarti in Grecia sotto la guida di mio figlio Eros. Non appena avrai raggiunto Sparta, egli farà in modo che Elena si innamori pazzamente di te.» «Puoi giurarmelo?» gridò Paride eccitato. Afrodite pronunciò un giuramento solenne e Paride, senza pensarci due volte, le consegnò la mela d’oro. Con questo suo giudizio si attirò l’odio insanabile di Era e di Atena, che si allontanarono a braccetto complottando la distruzione di Troia; mentre Afrodite, con un perfido sorriso, già pensava a come tenere fede alla sua promessa.
Poco tempo dopo, Priamo mandò i suoi servi a scegliere un toro nella mandria di Agelao. L’animale avrebbe dovuto essere assegnato in premio al vincitore dei giochi funebri che si celebravano ogni anno in onore del morto figlio del re. Quando i servi scelsero il toro campione. Paride provò l’irresistibile desiderio di partecipare ai giochi. Invano Agelao tentò di distoglierlo dal suo proposito: «Puoi continuare a far combattere i tori anche quassù. Che altro vuoi?» Ma Paride insistette e infine Agelao lo accompagnò a Troia. Era usanza troiana che, al termine del sesto giro di pista della corsa dei cocchi, i concorrenti alla gara di pugilato cominciassero a battersi dinanzi al trono. Paride decise di competere e, nonostante le suppliche di Agelao, balzò nell’arena e vinse la corona, più per coraggio che per abilità. Arrivò primo anche nella gara di corsa e la cosa esasperò i figli di Priamo che lo sfidarono di nuovo: e così vinse la terza corona. Vergognandosi per quella pubblica umiliazione, i principi pensarono allora di ucciderlo e posero una guardia armata a ogni uscita dello stadio, mentre Ettore e Deifobo attaccavano Paride con le loro spade. Paride si rifugiò sull’altare di Zeus e Agelao corse verso Priamo gridando: «Maestà, questo giovane è il figlio vostro che credevate perduto!» Priamo convocò subito Ecuba la quale, esaminato un sonaglio che Agelao aveva trovato nelle mani del bimbo abbandonato, confermò l’identità di Paride. Questi allora fu condotto trionfalmente al palazzo dove Priamo festeggiò il suo ritorno con un sontuoso banchetto e sacrifici agli dei. Tuttavia, non appena i sacerdoti di Apollo ebbero udito questa notizia, annunciarono che Paride doveva essere immediatamente condannato a morte, altrimenti Troia sarebbe stata distrutta. Il loro verdetto fu riferito a Priamo che rispose: «Perisca pure Troia, ma non il mio bel figliolo!» I fratelli di Paride che erano già sposati insistettero perché egli prendesse moglie; ma Paride rispose che Afrodite gli avrebbe scelto la sposa, e come al solito innalzava a lei ogni giorno le sue preghiere. Quando fu convocato un altro concilio per discutere della liberazione di Esione, dato che le offerte pacifiche erano state respinte dai Greci, Paride si offerse volontario per guidare la spedizione, se Priamo gli avesse allestito una flotta potente e ben munita. Aggiunse astutamente che, se non fosse riuscito a riprendersi Esione, forse avrebbe portato con sé una principessa greca sua pari per trattare il riscatto. Ma in cuor suo, naturalmente, egli aveva già deciso di recarsi a Sparta e di rapire Elena.Quello stesso giorno Menelao arrivò inaspettatamente a Troia e chiese di visitare le tombe di Lieo e di Chimere, figli di Prometeo e di Celeno l’Atlantide; disse che l’oracolo delfico gli aveva imposto di sacrificare sulle loro tombe per por fine alla pestilenza che faceva strage in Sparta. Paride si intrattenne con Menelao e gli chiese di essere purificato da lui a Sparta, poiché senza volerlo egli aveva ucciso Anteo, il giovane figlio di Antenore, con una spada da bambini. Quando Menelao acconsentì, Paride, per consiglio di Afrodite, ordinò a Fereclo, figlio di Tettone, di allestire la flotta promessagli da Priamo; la figura che ornava la prua della nave ammiraglia era un’Afrodite con un piccolo Eros tra le braccia. Il cugino di Paride, Enea, figlio di Anchise, acconsentì ad accompagnarlo. Cassandra, i capelli irti in capo, predisse la guerra che sarebbe nata da quel viaggio ed Eleno appoggiò le sue parole; ma Priamo non badò ai suoi figli profetici. Nemmeno Enone riuscì a dissuadere Paride benché egli piangesse al momento del congedo. «Ritorna da me semmai sarai ferito», gli disse Enone, «perché io sola saprò curarti.» Appena la flotta fu salpata, Afrodite fece alzare una brezza favorevole e Paride ben presto giunse a Sparta, dove Menelao festeggiò il suo arrivo per nove giorni. Durante il banchetto, Paride offrì a Elena i doni che le aveva portato da Troia; e i suoi sguardi infuocati, i suoi alti sospiri e i suoi arditi cenni la misero in grande imbarazzo. Preso tra le mani il calice di Elena, Paride se lo portò alle labbra dalla parte dove la regina aveva bevuto; arrivò a tracciare sulla tovaglia col dito intinto di vino le parole: «Ti amo, Elena!» Elena ebbe paura che Menelao la sospettasse di incoraggiare la passione di Paride; ma Menelao che era uomo poco osservatore partì per Creta, dove doveva partecipare alle esequie di suo nonno Catreo, e lasciò a Elena il compito di intrattenere gli ospiti e di governare in sua assenza.
Elena fuggì con Paride la sera stessa e gli fece dono di sé nel primo porto dove gettarono l’ancora, cioè nell’isola di Cranae. Sulla terraferma, di fronte a Cranae, sorge ora il tempio di Afrodite che Unisce, fondato da Paride per ricordare l’evento. Alcuni sostengono erroneamente che Elena rifiutò le proposte di Paride e che egli la rapì con la forza mentre partecipavano assieme a una partita di caccia; oppure in Sparta stessa; oppure assumendo, con l’aiuto di Afrodite, l’aspetto di Menelao. Elena abbandonò a Sparta la figlia Ermione di nove anni, ma portò via con sé il figlio Plistene, la maggior parte dei tesori di corte e oro per il valore di tre talenti dal tempio di Apollo; inoltre la accompagnarono cinque ancelle, tra le quali erano due ex regine, Etra, la madre di Teseo e Tisadia, sorella di Piritoo. Mentre la flotta troiana veleggiava verso Troia, una violenta tempesta suscitata da Era costrinse Paride a rifugiarsi a Cipro. Di lì egli fece vela per Sidone e ivi fu accolto dal re; ma Paride, ormai esperto degli usi del mondo greco, assassinò e derubò a tradimento il suo ospite nella sala dei banchetti. Mentre il ricco bottino veniva imbarcato sulle navi, un gruppo di Sidoni attaccò i Troiani; questi li respinsero, e dopo aspra lotta che costò loro la perdita di due navi, presero il largo. Temendo di essere inseguito da Menelao, Paride si attardò per molti mesi in Fenicia, a Cipro e in Egitto; poi, raggiunta infine Troia, celebrò le sue nozze con Elena. I Troiani accolsero Elena con entusiasmo, rapiti da tanta bellezza. Un giorno, trovato sulla cittadella di Troia un sasso che stillava sangue se lo si soffregava contro un altro, Elena riconobbe in esso un potente afrodisiaco e lo usò per tener desta la passione di Paride. Non soltanto: tutta Troia si innamorò di lei e Priamo giurò di non lasciarla mai più ripartire.
Secondo una versione del tutto diversa, Ermes rapì Elena per ordine di Zeus e la affidò a re Proteo d’Egitto; frattanto un fantasma di Elena, fabbricato da Era (o secondo altri, da Proteo) con una nuvola, fu mandato a Troia con Paride, al solo scopo di provocare la guerra. I sacerdoti egiziani affermano, e la loro ipotesi è altrettanto improbabile, che la flotta troiana fu spinta fuori rotta dai venti contrari e che Paride approdò alla Pianura Salata, presso la bocca canopica del Nilo. Là sorge un tempio di Eracle, asilo per gli schiavi fuggiaschi che quando vi giungono si offrono al dio e ricevono certe sacre impronte sul loro corpo. I servi di Paride vi si rifugiarono e, dopo essersi assicurata la protezione dei sacerdoti, accusarono il padrone d’aver rapito Elena. La notizia fu portata a conoscenza di re Proteo a Menti e il re fece arrestare Paride e ordinò che glielo portassero dinanzi, con Elena e il tesoro rubato. Dopo un severo interrogatorio. Proteo scacciò Paride ma trattenne in Egitto Elena e il tesoro, in attesa che Menelao venisse a riprenderseli. In Menti sorge il tempio di Afrodite la Straniera, che si dice sia stato consacrato da Elena stessa. Elena generò a Paride tre figli, Bunomo, Agano e Ideo, morti tutti e tre ancora bambini, a Troia, per il crollo di un tetto; e una figlia, chiamata anch’essa Elena. Paride aveva avuto da Enone un figlio maggiore, di nome Corito; ed Enone, gelosa di Elena, lo mandò tra i Greci perché li guidasse contro Troia.
ll mito di Elena, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
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