Joseph Cambell (1904-1987) ha portato, a partire dagli anni 70, la mitologia nella vita di milioni di persone. Ha anche ispirato innumerevoli autori e registi, uno su tutti George Lucas che ha affermato che senza Campbell non ci sarebbe stato neppure Star Wars. In questa raccolta di saggi, uscita postuma nel 2013 a cura della JC Foundation, che sta svolgendo un interessante lavoro di editing di conferenze, seminari, interventi pubblici dello studioso e che sta ripubblicando in edizioni ricche e accurate l’intera opera (edita e, appunto, inedita) di Campell, si trovano 8 saggi che passano in rassegna la figura della divinità femminile attraverso le varie epoche preistoriche e storiche. Campbell parte dal Paleolitico e dall’idea di Dea Natura, poi passa al Neolitico e alla prima età del bronzo, dove considera le immagini della divinità femminile riscoperte in Europa e a Creta. In seguito, si concentra sull’influsso Indo-Europeo, sulle immagini sumere, egiziane, greche (con un ricco capitolo su Odissea e Iliade). Non tralascia neppure i culti misterici tardo greci e la trasformazione della Dea nella figura della Vergine Maria e la sua rinascita nel Dolce Stil Novo medievale.
Le immagini e il substrato teorico di Campbell sono influenzate dagli studi di Marija Gimbutas, controversa Archeo-mitologa, che è stata bistrattata nei decenni appena trascorsi per una supposta mancanza di scientificità dei suoi studi, ma che attualmente il mondo scientifico sta rivalutando. L’opera di Campbell è, oltre che divulgativa e accurata nelle immagini che presenta, un’opera che parla soprattutto alla psiche delle persone, più che alla mente scientifica e storica. Le teorie che presenta, le storie che racconta, creano un’atmosfera di ricchezza interiore e ci permettono di leggere e interpretare aspetti importanti per la nostra crescita psicologica personale e per l’arricchimento della visione della nostra vita culturale e sociale. Come diceva sempre James Hillman “Nessuno come Joseph Campbell ha riportato in auge il senso mitico del mondo e ha ridato linfa vitale alle immagini eterne che animano questo senso mitico permettendo di arricchire la nostra coscienza quotidiana”. Una lettura variegata e consigliatissima dalle vostre Muse!
“A livello più semplice, quindi, la Dea è la Terra. Sul successivo piano arcaico è il cielo circostante. A livello filosofico è Māyā, le forme della sensibilità, le limitazioni dei sensi che ci avvolgono e fanno sì che il nostro pensiero avvenga entro i suoi confini. È questo. La Dea è il limite estremo della coscienza nel mondo del tempo e dello spazio. […] Le forze simboleggiate nella personificazione delle divinità sono le entità che ci caratterizzano come oggetti naturali, e che caratterizzano il mondo naturale in cui viviamo. Sono quindi sia fuori che dentro di noi. Per trattarle esistono due modi: o indirizzandosi verso l’esterno, come nella preghiera, o facendo ricorso alla meditazione, come nella tradizione induista.”
La Sicilia degli dèi di Giulio Guidorizzi e Silvia Romani non è il primo volume che i due eminenti studiosi di mitologia scrivono a quattro mani: avevano già unito le forze e le conoscenze per In viaggio con gli dèi, libro dedicato alla Grecia e per Il mare degli dèi, guida alle isole elleniche. Tutti i volumi sono pubblicati da Raffaello Cortina.
Il libro è scritto a capitoli alternati, alcuni redatti da Guidorizzi e altri da Romani, mentre le ricche e fascinose illustrazioni con mappe commentate spesso con sagacia, oggetti e luoghi sono di Michele Tranquillini. Vi sono inoltre molte fotografie che mostrano i luoghi descritti. Insomma, una guida vera e propria. La differenza sta nei testi, che non si limitano a descrivere i luoghi ma, come nei precedenti volumi, li intessono in una ricca panoplia di suggestioni personali, fiabesche, mitologiche e storiche in modo da renderle meno asettiche e fattuali, arricchendole di visioni mitologiche e leggendarie. Per chi ama viaggiare sì con il corpo, ma anche con la psiche e la fantasia, immergendosi nella terra di Sicilia, ma anche nelle storie che l’ingegno umano ha raccontato per spiegare fenomeni naturali e crescita psicologica, il libro è uno stimolante punto di partenza. Interessante è, per in seguito approfondire, la presenza delle note che informano sulle fonti letterarie che i due Autori hanno utilizzato, così è molto semplice andare a leggere di prima mano, le fiabe italiane raccolte da Italo Calvino (Colapesce e le tre colonne che sostengono l’isola di Sicilia), l’Odissea e l’episodio del Ciclope, il mito della ninfa Aretusa (celebrato a Ortigia) e così via.
“L’Isola chiama a raggiungerla, come una sirena plasmata nella terra, nella pietra, nel mare. È così dal tempo degli Immortali: la Sicilia da sempre è la tappa finale di uno splendido Grand Tour, l’approdo, il rifugio di divinità ed eroi. E, una volta lì giunti, in molti hanno deciso di restare”. Il viaggio in cui ci guidano i due Autori inizia alle Eolie, passa per Scilla e Cariddi (il modo migliore per avvicinarsi all’isola è sempre ed ancora quello per terra di Calabria prima e stretto di Messina poi) e termina a Palermo, seguendo un percorso personale e fantasioso, tracciato da miti ma anche da accadimenti storici poco noti. Ci sono storie per tutti i gusti: allegre fiabe, drammi storici, epici confronti tra mostri ed eroi, misteriose esplorazioni sottomarine…
Romani e Guidorizzi non disdegnano neppure l’espressione delle loro particolari impressioni durante i loro viaggi, e anche questo dà un tocco personale alla lettura della guida. Eccone un piccolo esempio, dedicato ad Agrigento, alla Valle dei Templi. “Di primo mattino, seduti su una pietra a contemplare le colonne del tempio “dei Dioscuri”, si avverte forte il profumo di aranci, di limoni e il sentore amaro della mandorla che provengono da una piccola valle fra il tempio dei Dioscuri e quello di Vulcano dove si apre un vero e proprio paradiso terrestre, quello della Kolymbethra, la “piscina” che Terone aveva fatto costruire per portare acqua a tutta la città”.
Un libro consigliato, prima di un viaggio sulla più grande isola del Mediterraneo, ma anche durante la visita e, eventualmente, anche per compiere un viaggio solo immaginario. Il volume è così affascinante che permette di vedere i paesaggi anche solo con gli occhi dell’anima.
Per gli amanti della mitologia vi segnaliamo il magnifico libro di Giulio Guidorizzi, Il mito greco. Si tratta di due volumi (usciti per Mondadori nel 2009 e nel 2012) che noi vi consigliamo caldamente. Qui una lista di altri volumi di Guidorizzi sul mito greco. Qui invece una selezione della altrettanto ricca e sfaccettata produzione letteraria di Silvia Romani.
Abbiamo già recensito diversi volumi scritti o curati da Silvia Romani. Le recensioni le trovate qui. Sono parecchi i post scritti da La Voce delle Muse che hanno a che fare con Giulio Guidorizzi: ecco la lista. Buona lettura!
Furibondi perché Zeus aveva confinato nel Tartaro i Titani, loro fratelli, certi altissimi e terribili Giganti, con lunghi capelli inanellati e lunghe barbe e code di serpenti in luogo dei piedi, complottarono per dare l’assalto al Cielo. Essi erano ventiquattro, nati dalla Madre Terra a Flegra in Tracia. All’improvviso, essi agguantarono massi e tizzoni ardenti e li scagliarono verso l’alto, dalle vette delle loro montagne, cosicché gli dèi dell’Olimpo si trovarono a mal partito. Era, con aria cupa, profetizzò che i Giganti non sarebbero mai stati uccisi da un dio, ma soltanto da un mortale che vestiva pelle di leone, e che anche costui non sarebbe riuscito nell’intento se non avesse trovato, prima dei Giganti stessi, una certa erba che rendeva invulnerabili e cresceva in un luogo segreto sulla terra. Zeus subito si consigliò con Atena e la mandò a informare Eracle (il mortale vestito di pelle di leone cui Era voleva chiaramente alludere) di come stavano le cose; poi proibì a Eos, a Selene e a Elio di brillare per qualche tempo. Alla debole luce delle stelle. Zeus vagò in una regione indicatagli da Atena, trovò l’erba magica e la portò in ciclo.
Gli olimpici poterono allora affrontare in battaglia i Giganti. Eracle scoccò la sua prima freccia contro Alcioneo, il capo dei nemici. Egli cadde al suolo e subito si rialzò, redivivo, poiché quella era la sua terra natale di Flegra. «Presto, nobile Eracle!» gridò Atena, «portalo in un’altra regione!» Eracle si caricò Alcioneo sulle spalle e lo portò oltre il confine della Tracia, eliminandolo poi a colpi di clava. Porfirione balzò in cielo spiccando un salto dalla grande piramide di pietre che i Giganti avevano ammucchiate, e nessuno degli dèi seppe tenergli testa. Soltanto Atena si chiuse in difesa. Passandole rapidamente dinanzi, Porfirione si precipitò su Era e cercò di strangolarla; ma ferito al fegato da una freccia scoccata tempestivamente dall’arco di Eros, la sua furia omicida si trasformò in brama lussuriosa e lacerò la veste di Era. Zeus, vedendo che il gigante stava per oltraggiate sua moglie, divenne pazzo di gelosia e abbatté Porfirione con una folgore. Porfirione si rialzò subito, ma Eracle, ritornato appena in tempo a Flegra, lo ferì mortalmente con una freccia. Frattanto, Efialte aveva impegnato Ares in battaglia e l’aveva costretto a piegare le ginocchia, ma Apollo scoccò una freccia nell’occhio sinistro del malvagio e chiamò Eracle, che subito gli scoccò un’altra freccia nell’occhio destro. E così morì Efialte.
Ora, ogni qual volta un dio ferisce un Gigante (come quando Dioniso abbatté Eurito con un tirso o Ecate bruciacchiò Clizie con le sue torce o Efesto ustionò Miniante con un ramaiolo di metallo incandescente o Atena colpì il lubrico Pallade con una pietra) è sempre Eracle che deve vibrare il colpo mortale. Demetra e la dea Estia, amanti della pace, non presero parte alla battaglia, ma rimasero in disparte, torcendosi le mani, angosciate. Le Moire, invece, scagliavano pestelli di rame cogliendo spesso nel segno. Scoraggiati, i Giganti superstiti si rifugiarono sulla terra e gli olimpici li inseguirono. Atena scagliò un gran masso contro Encelado che, colpito in pieno, si appiattì e divenne l’isola di Sicilia. Posidone tagliò via un pezzo di Coo con il suo tridente e lo scagliò verso Polibute: e quel pezzo di carne divenne l’isoletta di Nisiro, presso la quale egli giace sepolto. Gli altri Giganti tentarono di organizzare l’ultima resistenza a Bato, presso Trapezunte in Arcadia, dove il suolo ancora brucia e ossa di Giganti vengono spesso alla luce tra le zolle smosse dagli aratri. Ermes, preso in prestito l’elmo di Ade dava l’invisibilità, abbatté Ippolito, e Artemide trapassò Grazione con una freccia; mentre i proiettili infuocati delle Moire bruciavano le teste di Agrio e di Toante, Ares con una lancia e Zeus con la sua folgore si sbarazzarono degli altri, benché toccasse a Eracle di dare il colpo di grazia a ogni Gigante caduto. Ma altri dicono che la battaglia si svolse nei campi Flegrei, presso Cuma, in Italia.
Sileno, il satiro nato dalla Terra, si vanta di aver preso parte alla lotta contro i Giganti a fianco del suo pupillo Dioniso, uccidendo Encelado e spargendo il panico tra gli avversari col raglio del suo vecchio asino; ma Sileno è sempre ubriaco e non sa più distinguere il vero dal falso.
La guerra tra Olimpici e Giganti, riassunta dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves.
Zagreo (in greco antico: Ζαγρεύς, Zagreús) fu in origine una divinità agreste e ctonia, probabilmente di derivazione cretese. Il nome significa “cacciatore di selvaggina” e, più precisamente, alluderebbe a un cacciatore che non uccide le sue prede, ma le tiene in vita, per poi dilaniarle nei culti dionisiaci. Il suo mito fu al centro della religione orfica. Il mito di Zagreo, che possiede evidenti similitudini con quello di Osiride, può essere interpretato come il simbolo della morte della vegetazione in inverno e della sua rinascita in primavera. Nei misteri, Dioniso è, infatti, associato alle dee della fertilità, Demetra e Persefone, di cui sarebbe figlio Zagreo.
Il mito orfico si basa sulla concezione arcaica della colpa ereditaria. Secondo l’orfismo, infatti, l’umanità parteciperebbe della natura malvagia dei Titani e di quella divina di Zagreo. L’elaborazione orfica in chiave escatologica e soteriologica trova nella purificazione e nelle pratiche rituali il mezzo attraverso cui l’anima può ricongiungersi con il divino.
Ecco l’estratto dalle Dionisiache in cui si parla di Zagreo.
«il ventre di Persefone si gonfia di un frutto fecondo
e genera Zagreo, bambino munito di corna, che sale, lui solo,
sul trono celeste di Zeus; con la sua piccola mano
vibra il fulmine, è nelle sue mani puerili
di un neonato che si librano le saette.
Ma non occupa per molto il trono di Zeus, perché i Titani,
astuti, cosparso il volto con del gesso ingannatore,
spinti dalla rabbia profonda e spietata di Era,
lo uccidono con un pugnale venuto dal Tartaro,
mentre guardava la sua falsa immagine riflessa nello specchio.»
(Nonno di Panopoli. Dionisiache VI, 165-172. Traduzione di Daria Gigli Piccardi, Milano, Rizzoli, 2006, pp. 483-485)
Secondo il racconto narrato da Nonno di Panopoli nel libro VI delle Dionisiache, Zeus generò in segreto suo figlio Zagreo in Persefone, prima che essa fosse condotta nell’Oltretomba da suo zio Ade. Egli affidò ai Cureti cretesi figli di Rea, o secondo altri ai Coribanti, il compito di custodire la culla di Zagreo nella grotta Idea e là essi gli danzavano attorno, battendo le loro armi l’una contro l’altra, come già avevano fatto attorno alla culla di Zeus sul Ditte. Ma i Titani, nemici di Zeus, sbiancandosi il volto col gesso per rendersi irriconoscibili, attesero finché i Cureti furono addormentati e a mezzanotte indussero Zagreo a seguirli, offrendogli dei giocattoli: un cono, un rombo, mele d’oro, uno specchio, un astragalo e un batuffolo di lana. Zagreo diede prova di grande coraggio quando poi i Titani gli balzarono addosso minacciosi e si sottopose a varie metamorfosi per trarli in inganno: divenne successivamente Zeus avvolto in pelle di capra, Crono che fa cadere la pioggia, un leone, un cavallo, un serpente cornuto, una tigre e un toro. A questo punto i Titani lo afferrarono saldamente per le corna, gli affondarono i denti nella carne e lo divorarono vivo. Atena interruppe l’orrendo banchetto poco prima della fine e, impadronitasi del cuore di Zagreo, lo rinchiuse in ma figura di gesso, nella quale soffiò la vita; e così Zagreo divenne immortale. Le sue ossa furono raccolte e sepolte a Delfi, e Zeus uccise i Titani colpendoli con la folgore. I Titani, sconfitti, furono fulminati e dalle loro ceneri – o, più precisamente, dal fumo di esse – nacquero gli uomini.
Questa recensione al volume Matria di Laura Marchetti è scritta da Antonietta Lelario ed è apparsa sul Manifesto del 12 novembre 2021 con il titolo “La crisi non è mai neutra”.
Il discorso che fa risalire la crisi dell’occidente ai guasti del capitalismo senza riconoscere che quest’ultimo è figlio del patriarcato è un parlare inefficace e monco. Salta ciò che è essenziale per una critica radicale: il riconoscimento del sapere delle donne e della sua necessità. A partire da quel sapere si è aperta una profonda discussione su che cosa voglia dire sottrarsi alle misure date e ritrovare, invece, una misura nella vita. L’elaborazione femminile, sviluppatasi in questi anni, mostra bisogni e desideri che mettono in discussione l’esistente e aprono strade per tutti. Se non ci si confronta su questo e non si smascherano i meccanismi su cui si è retto l’ordine patriarcale, la risposta politica non potrà che essere povera simbolicamente e politicamente. All’elaborazione femminile dà un contributo Laura Marchetti con un piccolo ma prezioso libretto, Matria (ed. Marotta e Cafiero, pp. 86, euro 10) nel quale ricorda come la subordinazione della donna operata dal patriarcato sia il segno di un ordine del mondo che, separando corpo e anima, natura e spiritualità e gerarchizzando, strumentalizzando, desacralizzando la physis, ha giustificato ogni violenza.
L’autrice affronta da questa prospettiva il ruolo degli Stati Nazione e fa vedere come non siano in grado di affrontare la crisi economica, politica e istituzionale in atto perché anzi ne sono la causa. Sono infatti evidenti i rischi per l’umanità della logica concorrenziale che è alla base delle loro relazioni, la rapina e la spartizione a cui sottopongono i beni necessari come terra, acqua, risorse naturali. A questo contribuisce l’idea di patria con i suoi confini e i suoi muri, i suoi apparati di difesa e di sorveglianza interna che non sono stati scalfiti nemmeno dal processo di globalizzazione in corso. «La critica al razzismo e al colonialismo, l’ecologia, il femminismo, l’apertura e il dialogo con culture altre, hanno fatto ritrovare un paradigma alternativo» dice Laura Marchetti per il quale lei, ispirandosi ai fratelli Grimm, propone il termine Matria. La Matria rimette al centro la casa materna, una terra in cui risuonano le canzoni, i giochi, le fiabe raccontate dalle mamme, luogo di nutrimento dei legami affettivi e spirituali, spazio della memoria e dell’infanzia. Nella casa della madre, nella Matria appunto, e nelle fiabe, ha trovato rifugio durante il patriarcato un’idea di Natura come corpo vivo, per cui un albero ferito può dire ahi! ed essere ascoltato, dove gli animali ci parlano e chiunque può andare nel bosco a far legna.
Nelle fiabe la natura svela, con i suoi aspetti terribili, le nostre paure, ma ci permette anche di elaborare una visione del mondo che non le cancella. E dalla casa della madre questo sentimento è passato nella cultura popolare. Non a caso nella lingua comune si è continuato a dire «madre natura» conservando il carattere sacro e animato della Natura che la cultura ufficiale stava cancellando, riducendola a protesi meccanicistica dell’uomo. Marchetti mostra come questa prospettiva sia riconducibile a tutto un filone di sapere – vedi Walter Benjamin, Hannah Arendt, Edgar Morin, Carolyn Merchant – a cui lei vuole restituire forza perché vede in questa prospettiva una possibilità di incontro fra quanti vogliono ritrovare il senso della politica come philia. Fra le grandi questioni aperte dalle donne c’è quella della lingua, come mostra il saggio La lingua materna della comunità filosofica Diotima. L’autrice la riprende con riferimento alla lingualatte dei fratelli Grimm, «la lingua che ciascuno beve con amore, ricevendola, come il latte dalle carezze e dalla voce della madre», una sorta di «grembo materno della storia e della diversità linguistica». La scelta del neologismo Matria contribuisce al processo di risignificazione della madre fondamentale per il superamento del patriarcato: un processo politico ed esistenziale insieme, che genera la riconversione dal lamento alla gratitudine, dall’insignificanza simbolica della madre al suo essere fondamento di un altro ordine di senso, come mostra il saggio L’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro e recentemente il film di Pedro Almodóvar: Madres paralelas. Laura Marchetti è stata attiva nel movimento dei Verdi, ha accettato di essere sottosegretaria all’Ambiente del governo Prodi nel 2006 e insegna all’Università, mostrando con la sua vita che una donna può stare dappertutto con indipendenza simbolica e con fedeltà alla storia delle donne.
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