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Il ritorno primaverile delle Muse

Il ritorno primaverile delle Muse

Buongiorno a tutte e tutti i nostri amici. Dopo un certo periodo di silenzio vi preannunciamo che La Voce delle Muse si prepara a tornare ad allietare grandi e piccini! Intanto abbiamo scelto, a grande richiesta, di abbandonare i soliti caldi lidi greci e di spostarci a nord, nelle brumose terre degli dèi nordici; andremo a esplorare i luoghi di Odino, Thor, e del malvagio Loki.

Or ora ci stiamo preparando e stiamo leggendo miti e leggende, fiabe e tradizioni locali. A primavera saremo pronti e con nuove forze ci presenteremo ai nostri piccoli ascoltatori nelle librerie della Svizzera italiana! A presto, piccoli eroi!

Gilgamesh nella Foresta dei Cedri

Gilgamesh nella Foresta dei Cedri

humbaba gilgames ed enkidu

Ecco l’episodio con protagonista Humbaba e Gilgames. Tratto dalla pagina www.homolaicus.com/storia/antica/gilgamesh a cui rimandiamo per una sintesi dell’intera epopea di Gilgames. Un sito ben fatto!

Una notte Enkidu fu turbato da un sogno nel quale vide di essere trasportato nel regno dei morti, il triste Arali, donde non vi era ritorno e dove le anime, simili a uccelli, si nutrivano di polvere e cenere, senza mai vedere il sole. Enkidu si svegliò triste e turbato: un’ombra gli oscurava il volto.

Gilgameš, nel vedere il suo compagno depresso, gli propose di partire per una nuova impresa: sarebbero andati nel Paese delle Montagne, dove si trovava la Foresta di Cedri, e lì avrebbero raccolto legname per le costruzioni che il re intendeva fare. Allora Enkidu fu preso dal terrore. Era stato già alla Foresta di Cedri, conosceva colui che ne stava a guardia, l’orribile Humbaba, e ne aveva terrore.

Cercò di dissuadere Gilgameš dal suo progetto: – O mio re, poiché tu che non hai visto quel mostro non hai paura di lui. Ma io che l’ho visto sono pieno di terrore. I denti del mostro sono denti di drago; gli occhi del mostro sono occhi di leone; il petto del mostro è un diluvio travolgente. Nessuno sfugge alla sua ira. O mio re, tu naviga verso il Paese delle Montagne, io navigherò verso la città. A tua madre racconterò della tua gloria, così ella gioirà, e poi le racconterò della tua morte, così ella piangerà. Se lì regna il terrore, torniamo indietro. Se lì regna la paura, torniamo indietro.

Ma Gilgameš lo apostrofò: – Soltanto gli dèi vivono per sempre. Invece noi uomini abbiamo i giorni contati, le nostre faccende sono un soffio di vento. Se cado, lascerò ai posteri un nome duraturo. Di me gli uomini diranno: Gilgameš è caduto nella lotta contro il feroce Humbaba.

Allora Enkidu consigliò all’amico di sacrificare preventivamente al dio del sole Utu, poiché le leggi del Paese delle Montagne appartenevano a lui. Gilgameš si recò nell’Egalmah, il tempio di Utu, e sacrificò al dio del sole con queste parole:

O Utu, io ti voglio parlare, presta ascolto alle mie parole.
Io mi voglio rivolgere a te, dammi il tuo consiglio.
Nella mia città si muore, il cuore è oppresso;
i miei cittadini muoiono, il cuore è prostrato.
Io son salito sulle mura della mia città
e ho visto i cadaveri trasportati dalle acque del fiume.
Ed io pure io sarò così un giorno?
L’uomo, per quanto alto egli sia, non può raggiungere il cielo.
L’uomo, per quanto grasso egli sia, non può coprire il Paese.
Io voglio andare verso il Paese delle Montagne, voglio porre colà il mio nome;
nel luogo dove ci sono già i nomi, voglio porre il mio nome;
nel luogo dove non ci sono nomi, voglio porre il nome degli dèi.

Gilgameš ed Enkidu impiegarono tre giorni per coprire una distanza che avrebbe richiesto una marcia di sei settimane. Giunsero a un’immensa foresta, a cui si accedeva tramite un portone altrettanto possente. Dopo aver sbirciato all’interno dallo spiraglio, Enkidu disse a Gilgameš che questo era il momento giusto di entrare, perché così avrebbero colto Humbaba di sorpresa. Infatti, quando usciva per ispezionare il suo dominio, il mostro si avvolgeva il corpo di sette “terrori”. Ma adesso Humbaba stava riposando e ne aveva uno solo. Ma, mentre Enkidu stava ancora parlando, la grande porta girò sui cardini e gli schiacciò la mano.

Per dodici giorni Enkidu giacque gemendo dal dolore e implorando il compagno di recedere dalla sua folle impresa, ma Gilgameš rifiutò di prestare ascolto alle sue parole. Attesero che Enkidu guarisse, e poi entrarono nella foresta e raggiunsero il monte dei cedri, quel monte alto e maestoso sulla cui vetta gli dèi si riuniscono a concilio. Al momento di coricarsi, fecero un nuovo sacrificio a Utu perché mandasse sogni ai due eroi. Infatti gli strani sogni che ebbe Gilgameš durante la notte furono interpretati da Enkidu come auspici favorevoli per la buona riuscita della spedizione. Ma quando, dopo un altro giorno di cammino, si coricarono di nuovo, Enkidu ebbe tre sogni, di cui l’ultimo si palesava particolarmente funesto.

Giunti alla base del monte, Gilgameš abbattè il primo cedro. Allora un sonno incomprensibile lo prese, e mentre il mondo si oscurava Gilgameš cadde a terra addormentato. Enkidu lo richiamò più volte, finché egli si svegliò. Allora supplicò Gilgameš di evitare la battaglia, ma Gilgameš rispose:

– Non ancora sarà desolato il mio popolo, né verrà accesa la pira nella mia casa, né verrà bruciata la mia dimora. Dammi oggi il tuo aiuto e avrai il mio. Che cosa potrà andarci male? Tutti gli esseri nati da donna siederanno alla fine sulla barca dell’ovest e quando la barca affonderà, saranno scomparsi. Noi andremo avanti e poseremo gli occhi su Humbaba. Se il tuo cuore ha paura, getta via la paura. Se in esso vi è il terrore, getta via il terrore. Prendi in mano la scure e agisci!

Quando Humbaba udì da lontano il rumore degli alberi che venivano abbattuti, uscì infuriato dalla sua tana e corse verso di loro. Gilgameš aveva già tagliato sette cedri, quando gli alberi si aprirono e il volto orrendo di Humbaba si levò si di lui. Il mostro rivolse su Gilgameš l’occhio della morte. Ma subito il dio Utu gli lanciò contro otto venti potentissimi, simili a fuoco ardente, che si abbatterono nell’occhio di Humbaba, accecandolo e paralizzandolo.

Allora Gilgameš rovesciò il mostro e gli legò i gomiti assieme. A Humbaba salirono le lacrime agli occhi: – Gilgameš, fammi parlare. Io non ho mai conosciuta una madre e nemmeno un padre che mi allevasse. Nacqui dalla Montagna, fu lei ad allevarmi, ed Enlil mi fece custode di questa foresta. Lasciami andare libero, Gilgameš, e io sarò il tuo servo, tu sarai il mio signore e tutti gli alberi della foresta che io curavo saranno tuoi.

Gilgameš fu mosso a compassione e disse: – O Enkidu, l’uccello intrappolato non dovrà far ritorno al nido, il prigioniero ritornare tra le braccia della madre?

– Signore, se tu permetterai a questo mostro di andare via libero, non farai mai ritorno alla città dove attende la madre che ti ha fatto nascere – rispose Enkidu. – Egli ti sbarrerà la via della montagna e renderà inaccessibili i suoi sentieri.

– O Enkidu, ciò che hai detto è male! – gridò Humbaba. – Tu, un servo, che dipendi da Gilgameš per il tuo proprio pane! Per invidia e timore di un rivale hai pronunciato parole malvage! Solo nel tuo spirito possono albergare pensieri ostili. Il mercenario ha il cuore pieno di livore perché è costretto ad andare sempre dietro. È questa la tua condizione. Tu non riuscirai mai a rassomigliare a Gilgameš!

Allora Enkidu colpì Humbaba con la spada, una, due, tre volte. Al terzo colpo il mostro crollò al suolo. In tutta la foresta vi fu gran subbuglio perché il guardiano era morto.

Gilgameš, conscio dell’enormità dell’atto compiuto da Enkidu, donò la testa di Humbaba ad Enlil, il dio del vento. Ma Enlil non gradì affatto quel dono: quando vide la testa mozzata di Humbaba si infuriò e maledì i due eroi.

L’epopea di Gilgamesh

Humbaba, il guardiano della divina foresta dei Cedri

Humbaba, il guardiano della divina foresta dei Cedri

HumbabaProprio ieri, passeggiando, sono incappato in un cedro del Libano monumentale. Antico, maestoso, fermo nell’aria calma dell’inverno. Appoggiato al suo tronco odoroso mi sono riposato per un po’. L’immagine che mi è giunta alla mente è quella di Humbaba…

Ḫumbaba o Ḫubaba o Ḫuwawa è, nella cultura religiosa mesopotamica, il divino guardiano della Foresta dei Cedri, localizzata nella “Montagna che dà la vita” (Kur). Nella versione dell’Epopea  di Gilgameš, tale luogo è anche sede degli dèi.

Ḫumbaba viene ucciso dal re di Uruk, il divino Gilgameš, quando questi, accompagnato da Enkidu, sfida il guardiano aiutato dal dio Sole, Šamaš. Humbaba, che muovendosi per la lussureggiante foresta provoca terremoti, è rappresentato con denti di drago e una repellente faccia di viscere. Di lui si dice che emette un urlo assordante come il diluvio e che indossi sette veli sacri che lo rendono quasi imbattibile.

Trovate tutto l’episodio su questa pagina.

L’epopea di Gilgamesh

Un angolo segreto della Foresta Sacra.

Un angolo segreto della Foresta Sacra.

Un FOLLE progetto

Un FOLLE progetto

progetto Ligabue articolo di Andrea Della NeveIl festival internazionale di narrazione di Arzo partner del “Progetto Ligabue – Arte Marginalità Follia” di Andrea Della Neve (che è una delle mitiche Muse!)

Quando l’arte è urgente e salvifica. Eccoci di fronte a un esempio perfetto di come il teatro e ogni altra opera d’arte dovrebbero sempre nascere: da un’esigenza, un’emergenza, un’urgenza personale ed intima dell’artista. In questo caso l’artista è Mario Perrotta, narratore leccese classe 1970, e l’opera d’arte destinata a superare chi l’ha concepita è un progetto di ampio respiro, su tre anni, volto a ridare dignità a un pittore svizzero-reggiano vissuto ai margini della società in compagnia del suo lacerante bisogno d’amore.

L’incontro. Mario Perrotta s’imbatte nella figura di Antonio Ligabue un paio d’anni fa, durante una lunga tournée che fa scalo a Gualtieri, mentre nella vita privata sta percorrendo una “tournée” ancor più lunga: quella dell’adozione internazionale. In quel momento l’unica cosa data di sapere sul suo futuro figlio era che sarebbe arrivato dal Centrafrica. Con conseguenti logiche riflessioni su quanto ne consegue a livello di “diversità”: per molti una ricchezza, per tanti un problema. Quando Mario arriva nel paese di Antonio e ne incontra la storia, è cortocircuito: è quello il nucleo da indagare per risolvere il suo presente.

Antonio Ligabue. Antonio Ligabue nasce a Zurigo il 18 dicembre del 1899. Da adulto si convince che se fosse nato tredici giorni dopo, il 1° gennaio 1900, con il “vento nuovo” la sua vita sarebbe stata giusta. E invece. Un’infanzia dapprima difficile, poi tragica, destinata a segnare irrimediabilmente gli anni della maturità. Figlio di una ragazza madre del Bellunese, è adottato da tal Bonfiglio Laccabue, originario di Reggio Emilia, che gli dà il cognome (poi cambiato, nel 1942, in Ligabue). Presto orfano della madre e di ben tre fratellastri tutti morti in circostanze poco chiare, viene affidato a una famiglia svizzera con cui, poco più che ragazzo, litigherà furiosamente fino a farsi espellere dal paese, non senza aver conosciuto la reclusione in una clinica psichiatrica, il primo ricovero di una lunga serie. Ha quasi vent’anni (è il 1919) quando da Chiasso abbandona la Svizzera per raggiungere Gualtieri, paese del Reggiano dove era nato e aveva vissuto a lungo il padre adottivo. Senza conoscere l’italiano, è costretto a vivere del lavoro occasionale nei campi e della carità dell’ospizio comunale. Nel 1920 comincia a dipingere tele audaci e coloratissime: paesaggi della Bassa con campanili svizzeri sullo sfondo, molti autoritratti in cui il suo sguardo “buca” la tela, tantissimi animali, tigri, volpi, aquile e cavalli imbizzarriti. Nei quarant’anni successivi, tra un ricovero e l’altro nei manicomi emiliani, vive in un bosco, un po’ perché la comunità di Gualtieri ve lo mandava emarginandolo, un po’ per scelta sua. Dipinge a tempo pieno senza fini di lucro, baratta le sue opere per una minestra o per un oggetto che necessita.
Dal ’48 mercanti e critici cominciano ad accorgersi di lui, ma è solo nel ’57 che un servizio fotogiornalistico del quotidiano “Il Resto del Carlino” ne fa un personaggio conosciuto in tutta Italia. Nel 1961 è allestita la prima personale a lui dedicata, alla Galleria La Barcaccia di Roma. Ligabue da quel giorno è il più autorevole rappresentante del movimento pittorico naïf del Novecento italiano, anche se riuscire a incasellarlo in un genere pittorico è esercizio quantomeno bizzarro. Un incidente motociclistico e una paresi che gliene deriva rallentano la sua attività negli anni successivi. El matt, come tutti lo chiamavano, come pure Al todesc, a causa della sua origine svizzera e per la lingua che conosceva meglio dell’italiano, muore a Gualtieri nel 1965.

Il progetto Ligabue. Così nasce il “progetto Ligabue”, dall’intima necessità di Mario Perrotta a indagare i temi della diversità, della follia, della creatività che ne deriva e che in modo così intenso sono racchiusi nella figura dell’uomo e dell’artista Antonio Ligabue. Il progetto si sviluppa in tre fasi di carattere multidisciplinare che promuovono lo scambio tra realtà diverse, coinvolgendo artisti di differente provenienza linguistica e geografica.
Perrotta presenta il progetto così: “Indagare Ligabue significa indagare il rapporto di una comunità con lo “scemo del paese”, da tutti temuto e tenuto a margine, ma significa anche accettare lo spostamento che provoca una nuova visione delle cose, una visione “folle”, che mette a rischio gli equilibri di chi osserva, costringendolo a porsi la classica domanda: chi è il pazzo? (…) Stare al margine è condizione disumana ma è anche angolo privilegiato di osservazione. Essere pazzo ti posiziona fuori, ma se dipingi con quella forza, forse sono gli altri che sono dentro. E nonostante questa consapevolezza, soffrire come un cane la mancanza d’amore”.

Prima fase: l’Uomo. Nel giugno del 2013 ha debuttato il monologo “Un bès – Antonio Ligabue”, in cui Perrotta diventa letteralmente Ligabue. Antonio il diverso, il pazzo, il genio, lo straniero, il reietto. Antonio l’Uomo. Alla disperata ricerca di un po’ d’affetto, di contatto, di… “un bès”.
L’artista Perrotta sceglie di mettere il focus sul bacio mancato, mai dato, mai ricevuto. Neanche uno. Mai. Riusciamo a immaginare come sarebbe il nostro presente senza neppure un bacio nel passato? Perrotta prova a vivere quest’assurdo strappo e quell’esistenza ai margini, costantemente etichettato come “lo scemo del paese”. Uno “scemo” che dipingendo bestie rimandava alla sua visione del mondo e al rapporto fondamentale che esiste tra gli esseri umani, di violenza, di sottomissione al potere, ricordando che gli appartenenti alla nostra specie sono tra i pochi in natura a non far prevalere l’interesse collettivo su quello individuale.
“Mi attrae e mi spiazza la coscienza che aveva di essere un rifiuto dell’umanità e, al contempo, un artista, perché questo doppio sentire gli lacerava l’anima: l’artista sapeva di meritarlo un bacio, ma il pazzo, intanto, lo elemosinava.”
Mario Perrotta ha una relazione carnale col pubblico, si respira insieme, platea e palcoscenico diventano un corpo unico. Per questo vale la pena essere tra quel pubblico: si ha l’occasione di vivere uno di quegli speciali momenti in cui l’arte si discosta dall’autocelebrazione ed entra dritta dritta a scaldare il cuore delle persone. Il prestigioso Premio Ubu 2013 (l’Oscar del teatro italiano) come migliore attore dell’anno è arrivato quasi inevitabile, a suggellare tanta generosità umana.
Vicino a noi potremo vivere lo spettacoloUn bèsla sera del 7 novembre 2014, al Teatro dell’OSC di Mendrisio.

Seconda fase: il Pittore. Dalla scorsa primavera è sbocciato il secondo spettacolo dedicato ad Antonio Ligabue, “Pitùr”.
Perrotta avrebbe potuto replicare la formula di “Un bès”, invece si è messo in disparte e ha lasciato agire un gruppo di giovani attori-autori che con i loro corpi hanno “pennellato” quel che della vita e delle opere di Ligabue risuonava in loro. Uno spettacolo corale in cui vengono danzate le tele di Antonio, la sua arte, i suoi paesaggi, le sue figure, gli abbandoni vissuti e lo struggente desiderio di contatto fisico.
Sette appassionati attori vestiti di bianco come tele pronte per essere dipinte e un Mario Perrotta a cui, pur defilato,  bastano una manciata di minuti per imprimere emozioni sottopelle commuovendoci con quel “Mi strappo la faccia”…

Terza fase: i Luoghi. L’ultima fase del progetto metterà a tema i luoghi di Ligabue, il rapporto tra il suo paesaggio interiore, la Svizzera mitica della sua infanzia, e quello esteriore, la pianura padana con il grande fiume Po. Nel corso della primavera 2015 il paese di Gualtieri verrà fisicamente occupato da attori, musicisti, danzatori, video-makers, artisti figurativi, partendo dalla piazza e invadendo tutto il territorio intorno al fiume, con tre possibili percorsi per avere prospettive costantemente ribaltate. Gualtieri occupata con ogni forma d’arte proprio per rompere i confini tra le arti, e metaforicamente frantumare confini d’ogni sorta, da quelli territoriali a quelli mentali.

Ulteriori approfondimenti: http://www.progettoligabue.it

Un consiglio. Oltre ad agendare “Un bès” il 7 novembre 2014, regalatevi una trasferta al museo Ligabue di Gualtieri, e chiedete del custode Luca Torrelli: il viscerale racconto spontaneo che vi farà vivere varrà da solo la fatica del viaggio!

http://www.museoligabue.it
http://www.comune.gualtieri.re.it/index.php/musei

Andrea Della Neve

Ha ancora senso leggere i miti?

Ha ancora senso leggere i miti?

Copertina SMS n° 18 maggio 14In maggio la rivista della Scuola Media di Balerna ha  posto ad Andreas Barella la seguente domanda: “Ha ancora senso parlare e leggere di mitologia. Qua sotto trovate la risposta di Andreas, divisa in due parti e inserita nella rubrica “Terra d’inquietudine”. BUONA LETTURA!

Ah… semmai ve lo chiedeste.. la risposta è SÌ, VALE ANCORA LA PENA LEGGERE DI MITOLOGIA! 🙂

Andreas Barella, Ha senso leggere di mitologia, PARTE 1
Andreas Barella, Ha senso leggere di mitologia, PARTE 2

Cosa facciamo noi de La Voce delle Muse