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I viaggi di Odisseo – Partenza e Polifemo – Parte 1 (di 4)

I viaggi di Odisseo – Partenza e Polifemo – Parte 1 (di 4)

Il racconto del mito di Odisseo è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 7: Ulisse – Il viaggio della ragione.

Odisseo salpò da Troia ben sapendo che avrebbe dovuto vagare per altri dieci anni prima di raggiungere Itaca; sbarcò a Ismaro Ciconia e la prese d’assalto. Nel saccheggio che seguì fu risparmiato soltanto Marone, sacerdote di Apollo, che in segno di gratitudine donò a Odisseo alcune giare di vino dolce. Ma i Ciconi che abitavano nell’interno videro densi globi di fumo innalzarsi sopra la città e, assaliti i Greci che bevevano il vino sulla riva del mare, li misero in fuga disordinata. Quando Odisseo riuscì infine a radunare e imbarcare i suoi uomini che avevano subito gravi perdite, un vento furioso di nordest spinse le navi al di là del mare Egeo, verso Citera. Il quarto giorno, approfittando di una temporanea pausa della tempesta, Odisseo tentò di doppiare il capo Malea e di spingersi a nord, fino a Itaca; ma il vento contrario si alzò più forte che mai. Dopo nove giorni di pene e di tormenti si profilò all’orizzonte il promontorio libico dove vivono i mangiatori di loto. Ora il loto è un frutto senza nocciolo, color zafferano e grande pressappoco come una fava, che cresce in grappoli assai belli a vedersi: ma chi ne assaggia perde il ricordo della terra natale; alcuni viaggiatori, tuttavia, lo descrivono come una sorta di mela dalla quale si estrae un sidro molto forte. Odisseo sbarcò per far provvista d’acqua e mandò avanti in esplorazione tre uomini che mangiarono il loto offerto loro dagli indigeni e si scordarono completamente del compito a essi affidato. Impensierito per quel ritardo. Odisseo andò in cerca dei tre marinai e benché si vedesse offrire i magici frutti li rifiutò. Poi, riportati sulla nave i disertori, li mise ai ferri e alzò le vele in gran fretta.

Giunse così a un’isola fertile e boscosa che pareva abitata soltanto da innumerevoli capre selvatiche e ne uccise parecchie per banchettare con le loro carni. Gli equipaggi sbarcarono al completo e a una sola nave fu affidato il compito di compiere in esplorazione il periplo dell’isola. Quella terra apparteneva, ahimè, ai barbari Ciclopi, così chiamati per via dell’unico grande occhio rotondo che baluginava nel mezzo della loro fronte. Ormai scordata l’arte degli avi loro che lavoravano come fabbri per Zeus, erano pastori senza legge né navi né moneta o mercati. Vivevano corrucciati, l’uno lontano dall’altro, in caverne che si allungavano nei fianchi di montagne rocciose. Scorto da lontano l’ingresso di una di tali caverne, che si apriva alto e ombreggiato da piante di lauro al di là di uno steccato, Odisseo e i suoi compagni avanzarono, ignari di trovarsi nella proprietà di Polifemo, gigantesco figlio di Poseidone e della Ninfa Toosa, che era abituato a nutrirsi di carne umana. I Greci sedettero allegramente attorno al focolare, sgozzarono e arrostirono alcuni capretti trovati nella grotta, si servirono dei formaggi allineati nei canestri lungo le pareti e banchettarono in letizia. Verso sera apparve Polifemo. Egli spinse il suo gregge nella caverna e ne chiuse l’ingresso con una pietra così pesante che venti paia di buoi sarebbero riusciti a stento a smuoverla; poi, senza rendersi conto che aveva ospiti, sedette per mungere pecore e capre. Infine, alzò l’occhio dal mastello e vide Odisseo e i suoi compagni riuniti attorno al focolare. Chiese irosamente che cosa mai facessero nella caverna. Odisseo rispose: «Mostro gentile, noi siamo Greci e torniamo alle nostre case dopo il saccheggio di Troia; rammenta, ti prego, ciò che devi agli dei e accoglici ospitalmente». Per tutta risposta Polifemo sbuffò, agguantò due marinai per i piedi, fracassò il loro cranio al suolo e ne divorò le carni crude, spolpando le ossa come un leone montano.

Odisseo avrebbe voluto vendicare i suoi compagni prima dell’alba, ma non si arrischiò, perché soltanto Polifemo aveva la forza necessaria per smuovere il masso di roccia dall’ingresso della caverna. Trascorse dunque la notte col capo stretto tra le mani, elaborando un piano di fuga, mentre Polifemo russava in modo spaventoso. Come prima colazione il mostro uccise e divorò altri due marinai, poi spinse dinanzi a sé il gregge e richiuse l’ingresso della caverna con il masso; ma Odisseo si impadronì di una trave di olivo ancor verde, ne appunti una estremità indurendola al calore del fuoco e poi la nascose sotto un mucchio di sterco. Quella sera il Ciclope ritornò e mangiò altri due dei dodici marinai; ma tosto Odisseo gli offrì cortesemente una tazza del forte vino donategli da Marone di Ismaro Ciconia; per fortuna Odisseo ne aveva portato con sé un otre pieno. Polifemo bevve avidamente e ne chiese una seconda coppa, poiché in vita sua non aveva mai assaggiato niente di più inebriante del siero di latte, e accondiscese a chiedere il nome di Odisseo. «Mi chiamo Oudeis», rispose Odisseo, «o almeno questo è il soprannome che tutti mi danno». Ora, Oudeis significa nessuno. «Ti mangerò per ultimo, caro Nessuno», disse Polifemo.

Non appena il Ciclope cadde nel profondo sonno degli ubriachi, poiché il vino non era stato allungato con acqua, Odisseo e i suoi compagni arroventarono la punta della picca nelle braci del focolare; poi la conficcarono nell’unico occhio di Polifemo e mentre i suoi compagni la premevano verso il basso, Odisseo la fece girare così come gira un succhiello nel legno di una nave. La carne bruciata sibilò e Polifemo lanciò un urlo orribile che indusse tutti i suoi compagni ad accorrere da vicino e da lontano per vedere che cosa mai accadeva. «Sono cieco e il mio dolore è spaventoso!» gridava Polifemo. «Tutta colpa di Oudeis.» «Povero disgraziato», replicarono gli altri Ciclopi, «se, come tu dici, la colpa è di nessuno, di certo la febbre ti fa delirare. Prega il padre tuo Poseidone affinché ti ridoni la salute e smettila di strillare a questo modo!» Se ne andarono brontolando e Polifemo si avvicinò a tastoni all’ingresso della caverna, spostò la pietra e, le mani protese dinanzi a sé, attese ansioso di poter agguantare i Greci mentre cercavano di fuggire. Ma Odisseo legò ciascuno dei suoi compagni sotto il ventre di un ariete con dei vimini, e ne assicurò le estremità ad altri due montoni, distribuendo uniformemente il peso, in modo che il montone sotto il quale stava l’uomo si trovasse nel mezzo e gli altri due ai lati. Per sé scelse un enorme ariete, il capo del gregge, e si aggrappò al pelo del suo ventre con le dita dei piedi e delle mani.

All’alba Polifemo spinse il gregge al pascolo, accarezzando il dorso di ogni bestia per assicurarsi che non vi fosse un uomo sopra a cavalcioni, e indugiò a parlare con voce mesta all’ariete che portava Odisseo. «Perché, caro, non guidi il gregge, come sei solito fare? Forse ti impietosisce la mia sventura?» Ma alla fine lo fece uscire con gli altri.

Così Odisseo riuscì a liberare sé e i suoi compagni, e a spingere l’intero gregge verso la nave. Subito la misero in mare e non appena gli uomini, dato di piglio ai remi, cominciarono a vogare, Odisseo non poté trattenersi dal lanciare un ironico saluto al Ciclope. Per tutta risposta Polifemo scagliò in acqua un masso che cadde a poca distanza dalla prua della nave e sollevò un’onda che per poco non la respinse sulla spiaggia. Odisseo rise e gridò: «Se qualcuno ti chiederà chi ti ha accecato, rispondi che non fu Oudeis, ma Odisseo d’Itaca!» II furibondo Ciclope pregò allora Poseidone: «Padre, fa’ sì che il mio nemico Odisseo, se mai ritorni in patria, vi giunga tardi e a stento, su nave altrui, dopo aver perso tutti i suoi compagni, e nuove sciagure trovi oltre la soglia della sua casa!» Poi scagliò un secondo masso che cadde dietro la nave e la spinse veloce verso la spiaggia dove i compagni di Odisseo lo attendevano ansiosi. Ma Poseidone accolse la supplica di Polifemo e promise di vendicarlo.

Vai a: I Viaggi di Odisseo – Eolo, i Lestrigoni e Circe – Parte 2 (di 4)

I Viaggi di Odisseo, riassunti dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves

Il piano dell’opera “Grandi Miti Greci” e recensioni agli altri volumi.

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Recensione: Ulisse – Il viaggio della ragione

Recensione: Ulisse – Il viaggio della ragione

Dal risvolto di copertina: “Il primo personaggio della letteratura occidentale e il primo uomo moderno, Ulisse, l’eroe che i Greci chiamavano Odisseo: l’eroe che osò superare le colonne d’Ercole, il viaggiatore inquieto simbolo dell’eterna ricerca, l’uomo diviso fra l’amore per la propria patria, la casa, la sposa, e il fascino dell’ignoto, dell’inesplorato: forse l’eroe che più di ogni altro ci è vicino, un eroe imperfetto, che non si sottrae all’avventura, che dubita, si contraddice, ma sempre alza lo sguardo all’orizzonte, mai sazio di esplorare, di scoprire, di superare i propri limiti, di sperimentare e di conoscere. Dante nel XXVI canto dell’Inferno gli fa dire: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, a per seguir virtute e canoscenza”. Celebri terzine che riportano l’attenzione sulla vocazione più alta dell’uomo che Ulisse ci invita, come lo stesso Dante, a non tradire.”

Dall’introduzione di Giulio Guidorizzi: “Ulisse è polymetis, “l’uomo dalle molte astuzie”, ma anche polytropos, “l’uomo dalle molte forme”, che sa recitare tante parti rimanendo sempre lui, l’eroe astuto, il polytlas, “colui che molto sa sopportare”, persino insulti e bastonate, in attesa di trionfare con la sua astuzia. Questo è Ulisse. Un uomo che sa fingere e mentire, ma non è un semplice imbroglione, perché dietro le sue finzioni vi sono compagni da salvare e imprese da compiere. Potrebbe essere immortale e vivere accanto a una dea, ma preferisce tornare, affrontando i pericoli del mare  e quelli che lo attendono in patria, una terra di caprai e pastori, povera, rocciosa, abitata da gente qualunque, ma la sua terra. Ulisse è anche in questo senso l’ultimo degli eroi, con un piede nel mito e l’altro nella realtà quotidiana.”

Oltre alla narrazione del mito, il volume contiene anche approfondimenti sulla sua fortuna nel corso dei secoli, in tutte le forme artistiche: letteratura, pittura, teatro, cinema. Inoltre vi è una tavola genealogica, e un ricco apparato bibliografico e sitografico. Il volume su Ulisse è curato da Simone Beta, professore di filosofia classica presso l’Università di Siena. I suoi ultimi lavori.

L’intera collana di trenta volumi è a cura di Giulio Guidorizzi. Guidorizzi è grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e antropologia del mondo antico. Ha scritto numerosi libri sulla mitologia. Noi vi consigliamo, per iniziare, il suo bellissimo Il mito greco (in due volumi, usciti nel 2009 e nel 2012). Qui una lista di suoi volumi sul mito greco.

Il racconto del mito di Ulisse-Odisseo comincia qua: I viaggi di Odisseo – Partenza e Polifemo – Parte 1 (di 4)
Il piano dell’opera “Grandi Miti Greci” e recensioni agli altri volumi.

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Il mito di Orfeo e Euridice

Il mito di Orfeo e Euridice

Il racconto del mito di Orfeo e Euridice è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 6: Orfeo – La nascita della poesia

Orfeo, il più famoso poeta e musicista che la storia abbia mai avuto, non ha eguali tra uomini e dèi. È figlio del re Eagro e della musa Calliope. Il Dio Apollo un giorno gli dona una lira e le Muse gli insegnano a usarla. Diviene talmente abile che alla sua dolce musica il fragore dei torrenti cessa e l’acqua si dimentica di proseguire il cammino. Le selve inerti si muovono conducendo sugli alberi gli uccelli; o se qualcuno di questi vola, commuovendosi nell’ascoltare il dolce canto, perde le forze e cade. Le Driadi, uscendo dalle loro querce, si affrettano verso il cantore, e perfino le belve accorrono dalle loro tane al melodioso canto. Orfeo acquista una tale padronanza dello strumento che aggiunge due corde supplementari, portando a nove il loro numero per avere una melodia più soave.

Come prima grande impresa Orfeo partecipa alla spedizione degli Argonauti e quando la nave Argo giunge in prossimità dell’isola delle Sirene, è grazie a Orfeo e alla sua cetra che gli argonauti riescono a non cedere alle insidie nascoste nel canto. Durante la spedizione Orfeo dà innumerevoli prove della forza invincibile della sua arte, salvando la truppa in molte occasioni; con la lira e con il canto fa salpare la nave rimasta inchiodata nel porto di Jolco, dà coraggio ai naviganti esausti a Lemno, placa a Cizico l’ira di Rea, ferma le rocce semoventi alle Simplegadi, si fa amica Ecate, addormenta il drago che custodisce il Vello d’oro.

Ogni creatura ama Orfeo ed è incantata dalla sua musica e dalla sua poesia ma Orfeo ha occhi solo per una donna: Euridice, figlia di Nereo e di Doride che diviene sua sposa. Aristeo, uno dei tanti figli di Apollo, ama perdutamente Euridice e, sebbene il suo amore non sia corrisposto, continua a rivolgerle le sue attenzioni. La fanciulla per sfuggire alle sue insistenze si mette a correre ma ha la sfortuna di calpestare un serpente nascosto nell’erba che la morde, provocandone la morte istantanea. Orfeo, impazzito dal dolore e non riuscendo a concepire la propria vita senza la sua sposa, decide di scendere nell’Ade per cercare di strapparla dal regno dei morti. Lacerato dal dolore, scende allora nel mondo sotterraneo con la sua inseparabile lira per riportarla in vita. Raggiunto lo Stige, è dapprima fermato da Caronte. Orfeo, per oltrepassare il fiume, incanta il traghettatore con la sua musica. Sempre con la musica placa anche Cerbero, il cane a tre teste, guardiano dell’Ade. Una volta raggiunta la sala del trono degli Inferi, Orfeo incontra Ade e Persefone. Giunto al loro cospetto, Orfeo inizia a suonare e a cantare la sua disperazione e solitudine e le sue melodie sono così piene di dolore e di angoscia che gli stessi signori dell’Oltretomba si commuovono; le Erinni piangono; la ruota di Issione si ferma e i perfidi avvoltoi che divorano il fegato di Tizio non hanno il coraggio di continuare nel loro macabro compito; Sisifo si può fermare per un po’ a riposare sul sasso che continua a spingere su per la collina. Anche Tantalo dimentica la sua sete. Per la prima volta nell’oltretomba si conosce la pietà. È così che viene concesso a Orfeo di ricondurre Euridice nel regno dei vivi a condizione che durante il viaggio verso la terra la preceda e non si volti a guardarla fino a quando non siano giunti alla luce del sole.

Insieme ad Ermes (che deve controllare che Orfeo non si volti), si incamminano e iniziano la salita. Euridice, non sapendo del patto, continua a chiamare in modo malinconico Orfeo, pensa che lui non la guardi perché è brutta, ma lui, con grande dolore, deve continuare imperterrito senza voltarsi. Appena vede un po’ di luce, Orfeo, capisce di essere uscito dagli Inferi e si volta. Euridice però ha accusato un dolore alla caviglia morsa dal serpente e si è attardata… Orfeo ha trasgredito la condizione posta da Ade. Solo ora Euridice capisce e, all’amato, sussurra parole drammatiche e struggenti: «Grazie, amore mio, hai fatto tutto ciò che potevi per salvarmi». Si danno poi la mano, consapevoli che quella sarà l’ultima volta. Ermes con volto triste ed espressione compassionevole trattiene Euridice per una mano, perché ha promesso ad Ade di controllare ed è ciò che deve fare. Orfeo vede scomparire Euridice e si dispera, perché sa che non la vedrà mai più.

Orfeo per sette giorni cerca di convincere Caronte a condurlo nuovamente alla presenza del signore del regno sotterraneo, ma questi per tutta risposta lo ricaccia alla luce della vita. Orfeo si rifugia allora sul monte Rodope, in Tracia trascorrendo il tempo in solitudine e nella disperazione. Unica sua consolazione è la lira; suona e suona e suona. Gli alberi, i sassi e i fiumi lo ascoltano deliziati. Decide allora di non desiderare più nessuna donna dopo la sua Euridice. Un gruppo di Menadi ubriache lo invita a partecipare a un’orgia dionisiaca. Per tener fede a ciò che ha detto, rinuncia. Le Menadi, infuriate, lo uccidono, lo fanno a pezzi e gettano la sua testa nel fiume Ebro, insieme alla sua lira. La testa cade proprio sulla lira e galleggia, continuando a cantare soavemente. Zeus, toccato da questo prodigio, prende la lira e la mette in cielo formando una costellazione. La testa scende fino al mare e da qui alle rive di Metimna, presso l’isola di Lesbo, dove Febo Apollo la protegge da un serpente che le si è avventato contro.

Secondo altre versioni, i resti del cantore sarebbero stati seppelliti dalle impietosite Muse nella città di Libetra. Le Muse recuperano le membra di Orfeo e le seppelliscono ai piedi del monte Olimpo e ancor oggi, in quel luogo, il canto degli usignoli è più soave che in qualunque altra parte della terra.

La versione del mito di Orfeo ed Euridice è tratta da Orfeo e Euridice di Andreas Barella, edito dalla Casa Editrice Ericlea (per gentile concessione della casa editrice). Vai al sito della Ericlea per una ricca presentazione del volume.

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Recensione: Orfeo – La nascita della poesia

Recensione: Orfeo – La nascita della poesia

Dal risvolto di copertina: “Orfeo il poeta, Orfeo il musico, che per amore della moglie Euridice – morta  per il morso di un serpente – riuscì a scendere al regno degli Inferi, precluso ai viventi, commuovendo con il suo canto i cupi Plutone e Proserpina, sovrani di Ade, e ottenendo di riportarla al mondo dei vivi. E poi, quel gesto, forse per il desiderio irrefrenabile di vederla: Orfeo si voltò prima del ritorno alla luce, violando la condizione sancita dagli dèi, e in un attimo Euridice spari per sempre. Così il canto di Orfeo, il primo dei poeti, i cui versi commuovevano animali, piante, alberi e rocce, ci racconta un amore profondo, quel sentimento che proprio come questo mitico personaggio è destinato a non morire mai, tanto da arrivare alla modernità nei versi di Whitman, di RIlke, di Dino Campana che non esita a dedicare il suo capolavoro Canti orfici proprio a colui che della poesia seppe fare consolazione per un’assenza che mai si sarebbe colmata.”

Dall’introduzione di Giulio Guidorizzi: “Perché Orfeo si voltò? Questo è il mistero della sua storia; si potrebbe dire che chiunque, anziché guardare verso la luce che brilla dinanzi, si volga alle tenebre che ha dietro le spalle, finisce inesorabilmente per essere risucchiato dall’abisso.”

Oltre alla narrazione del mito, il volume contiene anche approfondimenti sulla sua fortuna nel corso dei secoli, in tutte le forme artistiche: letteratura, pittura, teatro, cinema. Inoltre vi è una tavola genealogica, e un ricco apparato bibliografico e sitografico. Il volume su Orfeo è curato da Roberto Mussapi, poeta e drammaturgo. I suoi ultimi lavori.

L’intera collana di trenta volumi è a cura di Giulio Guidorizzi. Guidorizzi è grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e antropologia del mondo antico. Ha scritto numerosi libri sulla mitologia. Noi vi consigliamo, per iniziare, il suo bellissimo Il mito greco (in due volumi, usciti nel 2009 e nel 2012). Qui una lista di suoi volumi sul mito greco.

Il racconto del mito di Orfeo tratto da Orfeo e Euridice di Andreas Barella
Il piano dell’opera “Grandi Miti Greci” e recensioni agli altri volumi.

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Agnodice, la prima donna medico per le donne e altri eroi-inventori delle origini

Agnodice, la prima donna medico per le donne e altri eroi-inventori delle origini

Igino nei Miti (274) fa un’elenco di alcune invenzioni mitiche dei Greci. Eccovene un assaggio: la più particolare, per noi, è la storia di Agnodice, la donna che curò per prima le altre donne, che si vergognavano di andare da medici maschi.

L’uso di bere il vino miscelato con acqua fu istituito da un uomo di nome Ceraso in Etolia che miscelò il vino con il fiume Acheloo, per cui mescolare fu chiamato in greco xepdout. I nostri antenati tenevano sui montanti dei loro letti tricliniari teste d’asino avvolte in foglie di vite, per significare che era stato lui a scoprire la dolcezza del vino. D’altra parte il capro che aveva roso la vite fece sì che essa producesse un frutto più abbondante, e da questo fatto fu scoperta la potatura. Peletronio inventò i morsi e le selle per i cavalli. Belone fu la prima a scoprire l’ago, che in greco porta il suo nome. Cadmo, figlio di Agenore, fu il primo a produrre bronzo, a Tebe; Eaco, figlio di Giove, fu il primo a scoprire l’oro in Panchea, sul monte Taso. Il re Indo in Scizia scoprì l’argento, che Erittonio introdusse ad Atene. Le gare con le quadrighe furono istituite per la prima volta in Elide, città del PeIoponneso. Il re Mida, figlio di Cibele, frigio, scoprì il piombo bianco e quello nero. Gli Arcadi furono i primi a sacrificare agli dèi. Foroneo, figlio di Inaco, fu il primo a fabbricare armi per Giunone e per questo motivo fu il primo ad avere un regno. Il centauro Chirone, figlio di Saturno, fu l’inventore della medicina chirurgica, che praticava con l’uso delle erbe; Apollo fu il primo a praticare l’oculistica; per terzo Asclepio, figlio di Apollo, inventò la clinica. Gli antichi non avevano ostetriche, per cui le donne, per vergogna, morivano: infatti gli Ateniesi avevano vietato che schiavi e donne praticassero la medicina. Una ragazza di nome Agnodice volle apprendere la medicina; presa da questo desiderio, si tagliò i capelli e in abito maschile divenne allieva di un certo Erofilo. Dopo avere appreso la medicina, quando sentiva che una donna era malata nelle regioni inferiori, si recava da lei; e quella, credendola un uomo, non voleva affidarsi a lei, così Agnodice si toglieva la veste e mostrava di essere una donna, e in questo modo le curava. Quando i medici scoprirono che loro non erano ammessi vicino alle donne, iniziarono ad accusare Agnodice dicendo che non aveva barba ed era un corruttore di donne, e che esse simulavano malattie. Quando i giudici dell’Areopago si riunirono, il loro verdetto iniziale fu di colpevolezza; allora Agnodice si sfilò la veste e mostrò di essere una donna. I medici tanto più insistettero con l’accusa; perciò una delegazione di donne autorevoli si presentò ai giudici e disse: «Voi non siete mariti, ma nemici, perché condannate chi ci ha guarito». Allora gli Ateniesi cambiarono la legge e permisero che le donne libere imparassero la medicina.

Perdice, figlio della sorella di Dedalo, inventò il compasso e la sega, traendoli da una lisca di pesce. Dedalo, figlio di Eupalamo, fu il primo a fare simulacri degli dèi. Oanne, che si dice sia sorto dal mare in Caldea, fondò l’interpretazione astrologica. I Lidi di Sardi usarono Per primi la lana e successivamente l’ordito. Pan inventò il suono del flauto. Cerere scoprì per prima il frumento in Sicilia. Tirreno, figlio di Ercole, scoprì la tromba in questo modo: poiché i suoi compagni si cibavano di carne umana, gli abitanti di quella regione si erano allontanati per evitare questa crudeltà. Allora, quando uno di loro mori, forò una conchiglia e vi soffiò dentro a mo’ di tromba per convocare i contadini. Egli e i suoi compagni giurarono che avrebbero sepolto il morto e non lo avrebbero mangiato. Per questo il suono della tromba viene detto melodia tirrenia. Ancora oggi i Romani seguono il suo esempio, e quando qualcuno muore i flautisti suonano e gli amici vengono convocati per constatare che quello non è morto né di veleno né di spada. I primi suonatori di corno erano marinai. Gli Africani e gli Egizi furono i primi a guerreggiare, armati di bastoni; successivamente Belo, figlio di Nettuno, combatté con la spada, motivo per cui la guerra fu detta bellum.

Igino, Miti, Adelphi

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