Ecco l’episodio con protagonista Humbaba e Gilgames. Tratto dalla pagina www.homolaicus.com/storia/antica/gilgamesh a cui rimandiamo per una sintesi dell’intera epopea di Gilgames. Un sito ben fatto!
Una notte Enkidu fu turbato da un sogno nel quale vide di essere trasportato nel regno dei morti, il triste Arali, donde non vi era ritorno e dove le anime, simili a uccelli, si nutrivano di polvere e cenere, senza mai vedere il sole. Enkidu si svegliò triste e turbato: un’ombra gli oscurava il volto.
Gilgameš, nel vedere il suo compagno depresso, gli propose di partire per una nuova impresa: sarebbero andati nel Paese delle Montagne, dove si trovava la Foresta di Cedri, e lì avrebbero raccolto legname per le costruzioni che il re intendeva fare. Allora Enkidu fu preso dal terrore. Era stato già alla Foresta di Cedri, conosceva colui che ne stava a guardia, l’orribile Humbaba, e ne aveva terrore.
Cercò di dissuadere Gilgameš dal suo progetto: – O mio re, poiché tu che non hai visto quel mostro non hai paura di lui. Ma io che l’ho visto sono pieno di terrore. I denti del mostro sono denti di drago; gli occhi del mostro sono occhi di leone; il petto del mostro è un diluvio travolgente. Nessuno sfugge alla sua ira. O mio re, tu naviga verso il Paese delle Montagne, io navigherò verso la città. A tua madre racconterò della tua gloria, così ella gioirà, e poi le racconterò della tua morte, così ella piangerà. Se lì regna il terrore, torniamo indietro. Se lì regna la paura, torniamo indietro.
Ma Gilgameš lo apostrofò: – Soltanto gli dèi vivono per sempre. Invece noi uomini abbiamo i giorni contati, le nostre faccende sono un soffio di vento. Se cado, lascerò ai posteri un nome duraturo. Di me gli uomini diranno: Gilgameš è caduto nella lotta contro il feroce Humbaba.
Allora Enkidu consigliò all’amico di sacrificare preventivamente al dio del sole Utu, poiché le leggi del Paese delle Montagne appartenevano a lui. Gilgameš si recò nell’Egalmah, il tempio di Utu, e sacrificò al dio del sole con queste parole:
O Utu, io ti voglio parlare, presta ascolto alle mie parole.
Io mi voglio rivolgere a te, dammi il tuo consiglio.
Nella mia città si muore, il cuore è oppresso;
i miei cittadini muoiono, il cuore è prostrato.
Io son salito sulle mura della mia città
e ho visto i cadaveri trasportati dalle acque del fiume.
Ed io pure io sarò così un giorno?
L’uomo, per quanto alto egli sia, non può raggiungere il cielo.
L’uomo, per quanto grasso egli sia, non può coprire il Paese.
Io voglio andare verso il Paese delle Montagne, voglio porre colà il mio nome;
nel luogo dove ci sono già i nomi, voglio porre il mio nome;
nel luogo dove non ci sono nomi, voglio porre il nome degli dèi.
Gilgameš ed Enkidu impiegarono tre giorni per coprire una distanza che avrebbe richiesto una marcia di sei settimane. Giunsero a un’immensa foresta, a cui si accedeva tramite un portone altrettanto possente. Dopo aver sbirciato all’interno dallo spiraglio, Enkidu disse a Gilgameš che questo era il momento giusto di entrare, perché così avrebbero colto Humbaba di sorpresa. Infatti, quando usciva per ispezionare il suo dominio, il mostro si avvolgeva il corpo di sette “terrori”. Ma adesso Humbaba stava riposando e ne aveva uno solo. Ma, mentre Enkidu stava ancora parlando, la grande porta girò sui cardini e gli schiacciò la mano.
Per dodici giorni Enkidu giacque gemendo dal dolore e implorando il compagno di recedere dalla sua folle impresa, ma Gilgameš rifiutò di prestare ascolto alle sue parole. Attesero che Enkidu guarisse, e poi entrarono nella foresta e raggiunsero il monte dei cedri, quel monte alto e maestoso sulla cui vetta gli dèi si riuniscono a concilio. Al momento di coricarsi, fecero un nuovo sacrificio a Utu perché mandasse sogni ai due eroi. Infatti gli strani sogni che ebbe Gilgameš durante la notte furono interpretati da Enkidu come auspici favorevoli per la buona riuscita della spedizione. Ma quando, dopo un altro giorno di cammino, si coricarono di nuovo, Enkidu ebbe tre sogni, di cui l’ultimo si palesava particolarmente funesto.
Giunti alla base del monte, Gilgameš abbattè il primo cedro. Allora un sonno incomprensibile lo prese, e mentre il mondo si oscurava Gilgameš cadde a terra addormentato. Enkidu lo richiamò più volte, finché egli si svegliò. Allora supplicò Gilgameš di evitare la battaglia, ma Gilgameš rispose:
– Non ancora sarà desolato il mio popolo, né verrà accesa la pira nella mia casa, né verrà bruciata la mia dimora. Dammi oggi il tuo aiuto e avrai il mio. Che cosa potrà andarci male? Tutti gli esseri nati da donna siederanno alla fine sulla barca dell’ovest e quando la barca affonderà, saranno scomparsi. Noi andremo avanti e poseremo gli occhi su Humbaba. Se il tuo cuore ha paura, getta via la paura. Se in esso vi è il terrore, getta via il terrore. Prendi in mano la scure e agisci!
Quando Humbaba udì da lontano il rumore degli alberi che venivano abbattuti, uscì infuriato dalla sua tana e corse verso di loro. Gilgameš aveva già tagliato sette cedri, quando gli alberi si aprirono e il volto orrendo di Humbaba si levò si di lui. Il mostro rivolse su Gilgameš l’occhio della morte. Ma subito il dio Utu gli lanciò contro otto venti potentissimi, simili a fuoco ardente, che si abbatterono nell’occhio di Humbaba, accecandolo e paralizzandolo.
Allora Gilgameš rovesciò il mostro e gli legò i gomiti assieme. A Humbaba salirono le lacrime agli occhi: – Gilgameš, fammi parlare. Io non ho mai conosciuta una madre e nemmeno un padre che mi allevasse. Nacqui dalla Montagna, fu lei ad allevarmi, ed Enlil mi fece custode di questa foresta. Lasciami andare libero, Gilgameš, e io sarò il tuo servo, tu sarai il mio signore e tutti gli alberi della foresta che io curavo saranno tuoi.
Gilgameš fu mosso a compassione e disse: – O Enkidu, l’uccello intrappolato non dovrà far ritorno al nido, il prigioniero ritornare tra le braccia della madre?
– Signore, se tu permetterai a questo mostro di andare via libero, non farai mai ritorno alla città dove attende la madre che ti ha fatto nascere – rispose Enkidu. – Egli ti sbarrerà la via della montagna e renderà inaccessibili i suoi sentieri.
– O Enkidu, ciò che hai detto è male! – gridò Humbaba. – Tu, un servo, che dipendi da Gilgameš per il tuo proprio pane! Per invidia e timore di un rivale hai pronunciato parole malvage! Solo nel tuo spirito possono albergare pensieri ostili. Il mercenario ha il cuore pieno di livore perché è costretto ad andare sempre dietro. È questa la tua condizione. Tu non riuscirai mai a rassomigliare a Gilgameš!
Allora Enkidu colpì Humbaba con la spada, una, due, tre volte. Al terzo colpo il mostro crollò al suolo. In tutta la foresta vi fu gran subbuglio perché il guardiano era morto.
Gilgameš, conscio dell’enormità dell’atto compiuto da Enkidu, donò la testa di Humbaba ad Enlil, il dio del vento. Ma Enlil non gradì affatto quel dono: quando vide la testa mozzata di Humbaba si infuriò e maledì i due eroi.
L’epopea di Gilgamesh